Cass. Sez. III n. 31963 del 6 agosto 2024 (CC 15 mag 2024)
Pres. Ramacci Rel. Andronio Ric. Acierno ed altri
Urbanistica.Demolizione e diritto alla salute

In tema di reati edilizi, la tutela del diritto alla salute di coloro che abitano l’immobile oggetto dell’ordine di demolizione, specie se affetti da patologie gravi o invalidanti, postula che i predetti siano necessariamente posti in un ambiente salubre, edificato ed attrezzato nel pieno rispetto della normativa vigente, essendo quest’ultima finalizzata a garantire anche il benessere di coloro che abitano detti luoghi 

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 24 gennaio 2024, la Corte di appello di Napoli ha rigettato l’incidente di esecuzione per la revoca dell’ordine di demolizione emesso con sentenza della Corte di appello di Napoli, resa a carico di Battiniello Pasqualina, in data 6 aprile 1999, e divenuta irrevocabile il 22 maggio 1999, per contravvenzioni urbanistiche – consistenti nella realizzazione, in assenza dei prescritti titoli abilitativi ed in epoca precedente al 31 marzo 2003, di una sopraelevazione abusiva al quarto piano, previo abbattimento del torrino scala sovrastante il terzo piano di un fabbricato – proposto nell’interesse di Acierno Maria e Arcucci Tommaso, in qualità di eredi della condannata.

2. Avverso l’ordinanza, gli interessati, tramite il difensore e con unico atto, hanno proposto ricorsi per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano la violazione degli artt. 39 e 43 della legge n. 724 del 1994, il travisamento del fatto ed i connessi vizi di motivazione, relativamente al presunto difetto di legittimazione della ricorrente Acierno e alla ritenuta illegittimità del titolo in sanatoria n. 0161/2017.
In primo luogo, la Corte di appello di Napoli avrebbe fondato il presunto difetto di legittimazione della ricorrente Acierno, sull’erroneo rilievo che, sulla base della documentazione versata in atti, ella non avrebbe dimostrato la qualità di proprietaria dell’immobile oggetto di demolizione né quella di beneficiaria del condono edilizio rilasciato dal Comune di Napoli, non potendosi ritenere sufficiente, a tal fine, la mera residenza dell’interessata nell’immobile stesso. Nello specifico, i giudici dell’esecuzione avrebbero omesso di considerare che, in virtù di legittimo atto di compravendita, la ricorrente Acierno sarebbe la proprietaria dell’unità immobiliare sottostante al manufatto illegittimo, di talché, fungendo il solaio di copertura dell’appartamento di proprietà della ricorrente da solaio di calpestio dell’opera sanzionata, l’interesse ad agire della donna sussisterebbe in ragione dell’esigenza di evitare eventuali pregiudizi derivanti dall’intervento demolitorio all’unità immobiliare di sua proprietà: rischio che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbe stato peraltro confermato dalla relazione fornita sia dal consulente tecnico di parte, ing. Esposito, che dal consulente tecnico d’ufficio, ing. Volzone.
Quanto, invece, alla legittimità del titolo in sanatoria n. 0161 del 7 aprile 2017, rilasciato dal Comune di Napoli in favore del ricorrente Arcucci Tommaso, sostiene la difesa che l’ordinanza impugnata sarebbe viziata per travisamento del fatto e della prova laddove, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente di parte ing. Trani, avrebbe ritenuto insussistente il requisito temporale dell’ultimazione al rustico del fabbricato in questione – per una volumetria pari a 2835,04 metri cubi – entro il 1° ottobre 1983, che avrebbe consentito l’accesso al più favorevole regime di condono di cui all’art. 31 della legge n. 47 del 1985, che non prevedeva alcun limite volumetrico ai fini della sanatoria. Lungi dal prospettare un dato meramente ipotetico ed assertivo – come il provvedimento impugnato sostiene –il consulente di parte avrebbe specificamente allegato alla propria relazione una serie di titoli abilitativi in sanatoria, rilasciati dal Comune di Napoli per le unità immobiliari costituenti il fabbricato in esame a definizione di istanze di condono edilizio presentate ai sensi della legge n. 47 del 1985, quali: a) la disposizione dirigenziale n. 20674 del 12 novembre 2009, rilasciata a favore di Arcucci Francesco, a definizione della domanda n. 14122/1/86, relativa all’abitazione al secondo piano dell’immobile in questione, occupante un volume pari a 453,22 mc; b) la disposizione dirigenziale n. 26029 del 13 dicembre 2010, a favore di Arcucci Consiglia, a definizione della domanda n. 14120/1/86, concernente l’abitazione al terzo piano, occupante un volume di 286,82 mc; c) la disposizione dirigenziale n. 26116 dell’11 gennaio 2011, in favore di Arcucci Alessandro, a definizione della domanda n. 14121/1/86, riferita all’abitazione al primo piano del fabbricato, occupante un volume di 460,26 mc; d) la disposizione dirigenziale n. 25594 dell’11 gennaio 2011, in favore di Battiniello Pasqualina, a definizione della domanda n. 14995/1/86, relativamente all’abitazione al secondo piano dell’immobile sanzionato, con annesso deposito garage, per un volume di 838,23 mc, nonché all’unità immobiliare sita al piano terra, con annesso cantinato, per un volume di 505,21 mc, e a quella al primo piano, occupante un volume di 291,30 mc.
I giudici dell’appello, inoltre, avrebbero erroneamente ritenuto che l’immobile non fosse ancora ultimato alla data della presentazione di autonoma domanda di condono n. 4694 del 2004, non considerando che, all’opposto, fin dal 1995 il manufatto sarebbe risultato ultimato anche con le finiture, come certificato dal verbale di sequestro dell’11 giugno 1995. Non condivisibile sarebbe, infine, la tesi sostenuta dalla Corte di appello di Napoli, secondo cui il frazionamento delle istanze di condono presentate nel 1986 sarebbe stato un espediente finalizzato ad evitare il superamento del limite volumetrico previsto dalle leggi n. 724 del 1994 e n. 326 del 2003, atteso che, risultando le opere eseguite in epoca antecedente al 1° ottobre 1983 ed essendo esse oggetto di regolari istanze di condono ai sensi della legge n. 47 del 1985, non ci sarebbe stata alcuna necessità di frazionamento, non essendo allora prescritto alcun limite volumetrico.
2.2. Con un secondo motivo di impugnazione, si deducono la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., nonché il travisamento del fatto e della prova, rappresentando i ricorrenti di avere denunciato la violazione del diritto all’inviolabilità del domicilio alla luce dei principi fissati dalla Corte EDU con la sentenza Ivanova del 21 aprile 2016 e sostenendo che la Corte territoriale, nel considerare la questione prospettata, avrebbe omesso ogni valutazione sulla proporzionalità della misura della demolizione.
Richiamata la giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di cassazione,  lamentano i ricorrenti la mancanza di un sindacato effettivo sulla proporzionalità della misura della demolizione, avendo i giudici di merito omesso di esaminare la documentazione medica degli occupanti dell’immobile e, segnatamente, del marito dell’istante Acierno, affetto da gravi patologie fisiche e riconosciuto invalido, con riduzione permanente della capacità lavorativa, e della moglie del ricorrente Arcucci, anch’ella affetta da gravi patologie, anche di ordine psichico. Si afferma, inoltre, che, nel caso specifico, è stato documentalmente dimostrato che i ricorrenti non sono proprietari di alcun immobile all’infuori di quello oggetto della procedura esecutiva e si richiama il pregiudizio imminente ed irreparabile che deriverebbe dall’abbandono della casa familiare, sede unica della vita e degli affetti familiari. Il provvedimento impugnato, dunque, oltre ad aver omesso di spiegare le ragioni per le quali l’interesse all’ordinato sviluppo del territorio avrebbe dovuto ritenersi preminente rispetto alle condizioni di salute dei familiari dei ricorrenti, non avrebbe addotto alcuna motivazione in ordine alla disponibilità di idonee sistemazioni abitative alternative.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.  Il ricorso è inammissibile.
1.1. Il primo motivo di doglianza – afferente alla violazione degli artt. 39 e 43 della legge n. 724 del 1994, al travisamento del fatto ed ai connessi vizi di motivazione – è inammissibile.
Quanto al primo profilo, riferito al presunto difetto di legittimazione della ricorrente Acierno, rileva il Collegio l’inammissibilità della censura, attenendo la stessa a valutazioni sostanzialmente fattuali e meramente assertive, come tali precluse al sindacato di legittimità (ex plurimis, Sez. 6, n. 22256 del 26/04/2006, Rv. 234148; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, Rv. 235507), poiché dirette a sollecitare un’alternativa rilettura del quadro probatorio, già adeguatamente valutato e motivato dai giudici di merito, a pag. 4 del provvedimento impugnato. Trattasi peraltro di doglianza irrilevante, giacché, come bene osservato dalla Corte di appello di Napoli, anche laddove si volesse assumere la sussistenza di un interesse dell’Acierno ad opporsi all’esecuzione della demolizione, in ragione dell’esigenza di evitare eventuali pregiudizi derivanti dall’intervento demolitorio all’unità immobiliare sottostante, di sua proprietà, l’istanza è stata correttamente ritenuta infondata nel merito. 
Ed invero, quanto alla ritenuta legittimità del titolo in sanatoria n. 0161 del 7 aprile 2017, il provvedimento impugnato non è incorso in alcuna violazione di legge né in un vizio motivazionale. 
In primo luogo, occorre rilevare che, con riguardo al profilo concernente la denunciata collocazione temporale dell’ultimazione al rustico del fabbricato in questione entro il 1° ottobre 1983, in Sez. 4, n. 39262 del 2021, questa Corte ha già avuto modo di accertare – con decisione relativa al medesimo immobile di cui si discute nel presente procedimento – la datazione ben successiva degli interventi illegittimamente sanati, e, in particolare, della sopraelevazione, per la quale soltanto nell’anno 2004 è stata avanzata domanda di condono, onde l’impossibilità di accedere al regime condonistico di cui all’art. 31 della legge n. 47 del 1985, più favorevole giacché privo di limitazioni volumetriche ai fini della sanatoria. Né, del resto, è consentita in questa sede una valutazione alternativa del quadro istruttorio e delle circostanze fattuali già adeguatamente scrutinati dal giudice di secondo grado a pag. 5 del provvedimento impugnato.
In secondo luogo, osserva il Collegio come i giudici dell’appello abbiano correttamente ritenuto che la relazione di consulenza tecnica, presentata dalla difesa, in allegato all’incidente di esecuzione, non avesse introdotto elementi capaci di superare la valutazione, precedentemente effettuata anche da questa stessa Corte, in ordine alla illegittimità della sanatoria concessa al ricorrente nel 2017, tale, dunque, perché abilitante l’illecita prosecuzione di un intervento abusivo unitario eccedente i limiti volumetrici prescritti dall’art. 32 della legge n. 326 del 2003, in un contesto caratterizzato dal frazionamento artificioso delle domande di condono. Con motivazione esaustiva, la Corte territoriale ha argomentato l’illegittimità del condono edilizio rilasciato in data 7 aprile 2017 – tale da non precludere l’esecuzione dell’ordine di demolizione, ormai definitivo – sulla documentazione versata in atti, univoca nel dimostrare la volontà  della Battiniello e dei suoi eredi di eludere i limiti volumetrici imposti dalla legge mediante un frazionamento artificioso dell’immobile abusivo, realizzato prima del 1999, attraverso l’integrazione delle domande di condono presentate nell’anno 1986, da parte di diversi soggetti proprietari, per il tramite di distinte autocertificazioni. Valutazione a fronte della quale nulla possono valere le argomentazioni difensive, dal momento che, restando l’edificio comunque unitario, la successiva suddivisione in plurime unità abitative non rileva ai fini della determinazione dei limiti di cubatura che rendono inammissibile la procedura in sanatoria.
In punto di diritto, infatti, appare opportuno precisare che, come già segnatamente specificato dalla Corte di cassazione in Sez. 4, n. 3962 del 12/01/2021 – le cui argomentazioni vengono qui riprese pressocché testualmente, giacché perfettamente pertinenti – l’art. 32, comma 25, del d.l. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito, con modificazioni, nella legge n. 326 del 24 novembre 2003, stabilisce che «le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge n. 47 del 28 febbraio 1985, e successive modificazioni e integrazioni, come ulteriormente modificate dall’articolo 39 della legge n. 724 del 23 dicembre 1994, e successive modificazioni e integrazioni, nonché dal presente articolo, si applicano alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003 e che non abbiano comportato ampliamento del manufatto superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 mc; le suddette disposizioni trovano altresì applicazione alle opere abusive realizzate nel termine di cui sopra, relative a nuove costruzioni residenziali non superiori a 750 mc per singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria, a condizione che la nuova costruzione non superi complessivamente i 3.000 metri cubi». In relazione all’applicazione di tale disciplina, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che non è ammissibile il condono edilizio di una costruzione quando la richiesta di sanatoria sia presentata frazionando l’unità immobiliare in plurimi interventi edilizi, in quanto è illecito l’espediente di denunciare fittiziamente la realizzazione di plurime opere non collegate tra loro, quando invece, le stesse risultano finalizzate alla realizzazione di un unico manufatto e sono ad esso funzionali, sì da costituire una costruzione unica (ex multis, Sez. 3, n. 42253 del 04/07/2023; Sez. 3, n. 20420 del 08/04/2015, Rv. 263639). Ed invero, sebbene il legislatore non abbia posto alcun divieto al frazionamento ovvero all’accorpamento di più unità immobiliari, nel rispetto della normativa edilizia relativa, tuttavia, tali operazioni possono configurare ipotesi elusive dei limiti legali, sicché ogni edificio deve intendersi come un complesso unitario facente capo ad un unico soggetto legittimato e le relative istanze di oblazione, eventualmente presentate in relazione alle singole unità che compongono tale edificio, devono essere riferite ad una unica concessione in sanatoria, la quale dovrà riguardare lo stesso nella sua totalità (Sez. 3, n. 8584 del 1999, Rv. 214280). Ne consegue che la regola è rappresentata dalla unicità della concessione edilizia per tutte le opere riguardanti un edificio o un complesso unitario, escludendosi la possibilità per lo stesso soggetto legittimato di servirsi di separate domande di sanatoria per aggirare il limite legale volumetrico, con la sola eccezione della consentita presentazione di una serie di istanze da parte di quanti sono i proprietari o i soggetti aventi titolo al momento della domanda, che abbia ad oggetto le sole porzioni di appartenenza, anche se comprese in una unica costruzione unitaria. Nello stesso senso si esprime, del resto, anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale deve ritenersi illegittimo l’inoltro di diverse domande tutte imputabili ad un unico centro sostanziale di interesse, in quanto tale espediente rappresenta un evidente tentativo di aggirare i limiti consentiti per il condono, relativamente al calcolo della volumetria consentita (Cons. Stato, Sez. 6, 05/09/2018, n. 5211; Cons. Stato, Sez. 6, 23/07/2018, n. 4483; Cons. Stato, Sez. 6, 05/09/2012, n. 4711). Ove sia stato realizzato l’abuso edilizio in esecuzione di un disegno unitario, dovrà quindi, farsi riferimento all’unitarietà dell’immobile o del complesso immobiliare, essendo irrilevante la suddivisione dell’opera in più unità abitative, fatta salva l’ipotesi in cui porzioni della medesima costruzione costituiscano oggetto di diritto di diversi soggetti, ciascuno dei quali sarà legittimato a presentare istanza di sanatoria per la porzione allo stesso riferibile.
Come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 302 del 1996, del resto, la possibilità (derogatoria e, come tale, di stretta interpretazione), prevista esclusivamente per le nuove costruzioni, di calcolare la volumetria per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria, ritenendo legittima ed ammissibile la scissione della domanda di sanatoria riferita ad unico edificio (con la conseguente applicazione a ciascuna domanda del limite volumetrico dei 750 mc), vale soltanto nei casi in cui vi sono diversi soggetti legittimati per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo; di talché, in definitiva, ai fini della individuazione dei limiti stabiliti per la concedibilità della sanatoria, ogni edificio deve essere inteso quale complesso unitario qualora faccia capo ad un unico soggetto legittimato alla proposizione della domanda di condono, con la conseguenza che le eventuali singole istanze presentate in relazione alle separate unità che compongono tale edificio devono riferirsi ad un'unica concessione in sanatoria, onde evitare l'elusione del limite legale di consistenza dell'opera; qualora, invece, per effetto della suddivisione della costruzione o della limitazione quantitativa del titolo abilitante la presentazione della domanda di sanatoria, vi siano più soggetti legittimati, è possibile proporre istanze separate relative ad un medesimo immobile (Sez. 3, n. 44596 del 20/05/2016, Rv. 269280; Sez. 3, n. 12353 del 02/10/2013, dep. 2014, Rv. 259292).
Ebbene, come già affermato da questa Corte in Sez. 4, n. 3962 del 12/01/2021, proprio nel caso di specie, la valutazione circa la unicità o pluralità e autonomia delle costruzioni dipende solo da elementi obiettivi di tipo funzionale – e, più precisamente, dall’unicità dell’edificio – sicché restano del tutto irrilevanti, da un lato, il dato temporale, ben potendo i lavori necessari alla realizzazione di una sola unità immobiliare essere diluiti nel tempo per le più svariate ragioni, anche semplicemente di pianificazione economica, e, dall’altro lato, la natura di sopraelevazione del manufatto in esame.
1.2. Inammissibile, perché manifestamente infondato, deve ritenersi il secondo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente denuncia la violazione del diritto all’inviolabilità della demolizione e dell’art. 125 cod. proc. pen., con riguardo alla mancata verifica, da parte del giudice dell’esecuzione, della proporzionalità della misura, alla luce dei principi fissati dalla Corte EDU con la sentenza Ivanova del 21 aprile 2016, come interpretati dalla giurisprudenza di questa Corte.
Nello specifico, ricorda il Collegio come si sia affermato nella giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’art. 8 CEDU non evidenzia alcun diritto “assoluto” ad occupare un immobile, anche se abusivo, solo perché casa familiare, con la conseguenza che l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, che afferma in concreto il diritto della collettività a rimuovere la lesione di un bene o interesse costituzionalmente tutelato ed a ripristinare l’equilibrio urbanistico-edilizio violato, non contrasta con il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio tutelato dalla convenzione EDU (Sez. 3, n. 2532 del 12/01/2022; Sez. 3, n. 39167 del 07/09/2021; Sez. 3, n. 2282 del 10/12/2020, dep. 2021; Sez. 3, n. 7232 del 05/02/2020; Sez. 3, n. 15141 del 20/02/2019; Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Rv. 267024). In altri termini, il diritto all’abitazione, riconducibile agli artt. 2 e 3 Cost. e all’art. 8 CEDU, non è tutelato in termini assoluti in sede di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali, ma esso è oggetto di bilanciamento con altri valori di pari rango costituzionale, come l’ordinato sviluppo del territorio e la salvaguardia dell’ambiente, che giustificano, secondo i criteri della necessità, sufficienza e proporzionalità, l’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile abusivo, sempre che tale provvedimento si riveli proporzionato rispetto allo scopo che la normativa edilizia intende perseguire, rappresentato dal ripristino dello status preesistente del territorio (Sez. 3, n. 48021 del 11/09/2019, Rv.. 277994; Sez. 3, n. 21198 del 15/02/2023, Rv. 284627).
1.2.1. Ebbene, in Sez. 3, n. 39167 del 07/09/2021, questa Corte ha analizzato nel dettaglio la giurisprudenza della Corte EDU e quella di legittimità, affrontando, in maniera dettagliata, anche la questione della proporzionalità sulla quale insiste l’odierno ricorrente. Nello specifico, ricorda la sentenza che il significato del principio di proporzionalità è stato oggetto di analitica e rigorosa puntualizzazione da parte della stessa Corte EDU (Sent. 04/09/2020 Kaminskas c. Lituania) escludendo espressamente che le condizioni personali del destinatario dell’ordine di demolizione possano avere un peso determinante per escludere la violazione del diritto del singolo al rispetto del proprio domicilio, allorquando questi abbia consapevolmente costruito la propria abitazione in un’area protetta senza permesso, dal momento che, a ritenere altrimenti, si incoraggerebbe un’azione illegale a scapito della tutela dei diritti ambientali delle altre persone facenti parte della comunità, sottolineando come, ai fini del rispetto del principio di proporzionalità, un ruolo rilevante doveva essere attribuito alle garanzie procedurali assicurate e, in particolare, alla concessione all’interessato di un tempo ragionevole per effettuare la demolizione (Sez. 3, n. 35835 del 13/11/2020).
In altra decisione (Sez. 3, n. 423 del 14/12/2020, dep. 2021, Rv. 280270), si è affermato che l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità, nel dare attuazione all’ordine di demolizione di un immobile illegalmente edificato ed adibito ad abituale abitazione di una persona, costituisce principio rispondente all’orientamento consolidato dalla giurisprudenza della Corte EDU ed è applicabile da parte del giudice italiano in forza di interpretazione sistematica adeguatrice. Ne consegue che il dovere di valutare il rispetto del principio di proporzionalità nella fase di esecuzione dell’ordine di demolizione di un’abitazione illegalmente edificata, secondo l’orientamento consolidato della Corte EDU, non implica un’assoluta discrezionalità del giudice ma la necessità di rispettare alcuni precisi criteri-guida. Innanzitutto, il principio di proporzionalità nell’esecuzione dell’ordine di demolizione di un immobile illegalmente costruito assume rilievo secondo l’orientamento consolidato della Corte EDU solo quando viene in gioco il diritto al rispetto della vita privata e familiare e del domicilio di una persona di cui all’art. 8 della CEDU, e non anche quando viene opposto esclusivamente il diritto alla tutela della proprietà, garantito dall’art. 1 del Prot. 1 CEDU (Corte EDU, 21/04/2016, Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria; Kaminskas c. Lituania sopra citato, solo in relazione all’art. 8 CEDU). 
Va poi richiamata l’attenzione sul fatto che l’esigenza di assicurare il rispetto del principio di proporzionalità, quando attiene ad un manufatto illegalmente edificato, è configurabile esclusivamente in relazione all’immobile destinato ad abituale abitazione di una persona e che, ai fini della valutazione del rispetto del principio di proporzionalità, un rilievo centrale assumono, da un lato, l’eventuale consapevolezza della violazione della legge nello svolgimento dell’attività edificatoria da parte dell’interessato, stante l’esigenza di evitare di incoraggiare azioni illegali in contrasto con la protezione dell’ambiente e, dall’altro, i tempi intercorrenti tra le definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l’attivazione del procedimento di esecuzione, per consentire all’interessato di “legalizzare”, se possibile, la situazione, e di trovare una soluzione alle proprie esigenze abitative (Sez. 3, n. 5822 del 18/01/2022, Rv. 282950). Inoltre, ai fini del giudizio circa il rispetto del principio di proporzionalità, sono sicuramente rilevanti le condizioni di età avanzate, nonché il basso reddito dell’interessato.
Queste condizioni, però, non possono mai essere considerate, di per sé sole, risolutive, ma vanno valutate congiuntamente: ai tempi intercorrenti tra la definitività delle decisioni giudiziarie di cognizione e l’attivazione del procedimento di esecuzione, alla consapevolezza dell’illegalità della edificazione, all’eventuale concessione di adeguati periodi di tempo per consentire la regolarizzazione, ove possibile, della situazione o per trovare una soluzione alle esigenze abitative. 
1.2.2. Orbene, richiamate tali premesse, occorre rilevare che, nel caso di specie, le censure formulate dal ricorrente sono caratterizzate da assoluta genericità, in quanto, al di là di diffusi richiami alla giurisprudenza, egli si limita ad asserire, senza ulteriori specificazioni, di avere documentalmente dimostrato di non essere proprietario di alcun appartamento oltre a quello demolito e che un pregiudizio imminente ed irreparabile gli sarebbe derivato dal fatto di essersi dovuto allontanare dalla casa nella quale aveva sempre vissuto con la propria famiglia.
Né alcuno specifico argomento è stato speso, del resto, con riguardo alle denunciate condizioni di salute degli occupanti dell’immobile, in relazione alle quali i ricorrenti non hanno fornito la prova né del fatto che le rilevate patologie  impediscano loro di essere spostati da un luogo all’altro né della circostanza che sia stata intrapresa una qualche iniziativa per trovare una differente soluzione abitativa, tenuto conto che, in tema di reati edilizi, la tutela del diritto alla salute di coloro che abitano l’immobile oggetto dell’ordine di demolizione, specie se affetti da patologie gravi o invalidanti, postula che i predetti siano necessariamente posti in un ambiente salubre, edificato ed attrezzato nel pieno rispetto della normativa vigente, essendo quest’ultima finalizzata a garantire anche il benessere di coloro che abitano detti luoghi (Sez. 3, n. 48820 del 02/11/2023, Rv. 285756) e nonostante che, dal passaggio in giudicato della sentenza, avvenuto in data 22 maggio 1999, all’attivazione del procedimento di esecuzione, sia decorso un notevole lasso di tempo.

2. Per questi motivi, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 3.000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.


Così deciso il 15/05/2024.