Cass. Sez. III n. 30189 del 16 giugno 2017 (Ud 28 mar 2017)
Presidente: Ramacci Estensore: Andreazza Imputato: Salvatore
Rumore.Gestore di pubblico esercizio e schiamazzi degli avventori
Risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, poichè al gestore è imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo "ius excludendi" o all'autorità, che la 3 frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica
RITENUTO IN FATTO
1. Salvatore Gino ha proposto ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Avellino di condanna alla pena dell'ammenda per il reato di cui all'art. 659 cod. pen. perché, in qualità di titolare della pizzeria "Mimì e Cocò" sita in Lioni, mediante schiamazzi e rumori, prodotti dagli avventori del locale e da lui non impediti, ed abusando degli strumenti di diffusione di musica ad alto volume all'interno del predetto locale, disturbava le occupazioni e il riposo delle persone, in particolare degli occupanti del medesimo stabile ovvero di stabili viciniori.
2. Con un primo motivo lamenta violazione di legge per aver il Tribunale fondato la responsabilità dell'imputato sulla base delle dichiarazioni rese da soggetti tutti residenti nello stesso palazzo, omettendo di considerare che ai fini della configurazione del reato è necessario che il disturbo sia arrecato ad un numero indeterminato di persone, e non ad una o più persone singole; nella specie, invece, sarebbe emerso che gli unici soggetti presuntivamente danneggiati dai rumori sarebbero stato solo i condomini occupanti i piani immediatamente superiori della palazzina.
3. Con un secondo motivo lamenta la mancanza o manifesta illogicità della motivazione; dopo avere premesso che alla luce del capo d'imputazione il reato contestato sarebbe quello di cui al comma 1 dell'art. 659 cod. pen. mentre, alla luce della motivazione della sentenza, potrebbe farsi riferimento al comma 2 se non all'illecito amministrativo di cui all'art.10, comma 2, della I. n. 447 del 1995, lamenta essere emerso che il disturbo alle persone era arrecato dai volumi alti del televisore in uso nel locale sicché la condotta sarebbe derivata da un'attività strumentale allo svolgimento di una professione o di un mestiere rumoroso a norma appunto del secondo comma dell'art. 659 cod. pen.; avrebbe dovuto dunque accertarsi se il televisore fosse strumento indispensabile per l'esercizio dell'attività autorizzata o meno; nel primo caso il giudice avrebbe poi dovuto valutare se la condotta si sostanziasse nel mero superamento dei limiti assoluti o differenziali fissati dalle leggi o dai decreti presidenziali in materia e, in forza del principio di specialità, dovesse essere qualificata come illecito amministrativo ai sensi dell'art. 9 I. n 689 del 1981 e non come contravvenzione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Se è ben vero che, come reclamato dal ricorrente, la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (Sez.1, n. 47298 del 29/11/2011, dep. 20/12/2011, Iori, Rv. 251406), tanto che, in caso di attività che si svolge in ambito condominiale, è necessaria la produzione di rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante la fonte di propagazione, ma di una più consistente parte degli occupanti il medesimo edificio (da ultimo, Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, dep. 13/11/2013, Virgillito ed altro, Rv. 2S7345)nella specie, però, la sentenza impugnata ha chiaramente valorizzato, al fine di ritenere integrata la condotta, le testimonianze di persone abitanti in edifici adiacenti o in esercizi commerciali adiacenti al locale-pizzeria in oggetto in ordine alla produzione, per tutta la notte, e fino alle quattro - cinque del mattino, sia di rumori e di schiamazzi di avventori sia di musica ad alto volume. Sicché, se anche il Tribunale afferma, in un passaggio della sentenza, che il reato sussisterebbe pur nell'ipotesi di disturbo della sola "tranquillità privata" (il che potrebbe indurre a far ritenere che anche una condotta non idonea a ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone sia rilevante), di fatto l'accertamento operato si è svolto in linea con i criteri probatori richiesti in coerenza con i requisiti oggettivi di sussistenza del reato.
2. Anche il secondo motivo appare manifestamente infondato. Premesso che la condotta come contestata in imputazione è chiaramente riferibile all'ipotesi del comma 1 dell'art. 659 cod. pen., non trattandosi di esercizio di mestiere intrinsecamente rumoroso bensì di "vociare" e schiamazzi prodotti dagli avventori e di musica prodotta da un televisore sintonizzato su apposito canale, va qui ribadito che risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati degli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, poichè al gestore è imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo "ius excludendi" o all'autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica (da ultimo, tra le altre, Sez. fer., n. 34283 del 28/07/2015, dep. 06/08/2015, Gallo, Rv. 264501). E di ciò ha dato compiuto conto la motivazione della sentenza che ha confermato, anche nel riferimento ai tratti fattuali, l'indubbia riconducibilità della fattispecie di cui al comma 1 cit..
Ne consegue la manifesta infondatezza della censura giuridicamente fondata, invece, su di un presupposto (ovvero appunto il riferimento al comma 2 dell'art. 659 cod. pen.) non correttamente dedotto.
3. In definitiva, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2017