Cass. Sez. III n. 20852 del 28 maggio 2024 (CC 15 feb 2024)
Pres. Ramacci Est. Noviello Ric. Matera
Urbanistica.Condono opere sottoposte a sequestro

In tema di condono edilizio, le opere sottoposte a sequestro possono essere sanate in virtù del disposto del quarto comma dell'art. 43 della legge n. 47 del 1985. La "ratio" della previsione consiste nel riservare un trattamento di favore a colui che abbia rispettato il provvedimento dell'Autorità giudiziaria. Diversamente verrebbe ammesso alla sanatoria soltanto quel soggetto che ha violato i sigilli, ultimando il fabbricato. Nè detta statuizione può essere limitata ai provvedimenti degli organi e della giurisdizione amministrativa, poiché siffatta soluzione sarebbe contrastante con l'art. 3 della Costituzione. Si deve ammettere la possibilità di sanatoria dell'opera solo limitatamente alle strutture realizzate fino a quella data ed ai lavori destinati a consentirne la funzionalità, con esclusione di ogni altro intervento strutturale

RITENUTO IN FATTO 

    1. Con ordinanza del 9 febbraio 2023, il tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia, adito nell’interesse di Matera Benedetto  per la sospensione e revoca dell’ingiunzione a demolire di opere abusive, di cui a sentenza di condanna n. 636/2001 divenuta irrevocabile il 14/05/2003, rigettava l’istanza. 

    2. Avverso la predetta ordinanza Matera Benedetto, tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per Cassazione.


3. Deduce vizi di violazione degli artt. 39 e 43 L. 724/94. Oltre a vizi di motivazione. Si contesta la ritenuta insussistenza del requisito temporale previso dalla disciplina di condono di riferimento, per l’immobile in questione, in quanto la ultimazione al rustico dell’opera sarebbe intervenuta entro la data del 31.12.1993 e in particolare già nell’anno 1990, come attestato da prova documentale certa. 
Si aggiunge l’emersione di un grave errore materiale ed interpretativo in ordine alla rilevata non corrispondenza tra il manufatto oggetto della domanda di condono  – pari a 60 mq. – e quello di cui alla sentenza recante l’ordine di demolizione – pari a 90 mq. -. Si osserva, in proposito, come la determinazione dell’oblazione e dei costi di costruzione previsti per legge facciano riferimento a superfici utili mentre gli accertamenti di polizia giudiziaria si riferiscono a  superfici lorde, aggiungendosi che tra le prime e le seconde sussisterebbe – di norma – uno scarto di circa il 20/25%, per cui il tribunale avrebbe travisato il fatto per non avere considerato che il manufatto di 60 mq. corrisponderebbe a quello di 90 mq., di cui alla citata sentenza, in quanto la superficie di condono sarebbe quella utile mentre quella di 90 mq. corrisponderebbe a quella lorda. 
Riguardo al requisito volumetrico di cui all’art. 39 comma 1 della L. 724/94, se ne evidenzia la sussistenza, trattandosi di fabbricato rientrante nel limite di 750 mc.
Quanto all’applicabilità dell’art. 43 della L. 724/94, se ne afferma l’operatività quale norma che consente la condonabilità di interventi che alla data ultima di legge non presentino i requisiti di ultimazione prescritti. Nel caso di specie, in ragione del sequestro intervenuto nel 1990 sussisterebbe il requisito temporale di ultimazione anche per le opere ulteriori di finitura e completamento accertate nel 1998. Il tribunale sul punto nulla avrebbe osservato, con conseguente vizio di motivazione. 
Quanto alla ritenuta insussistenza del cd. silenzio – assenso, se ne contesta il fondamento invocandosi l’art. 146 del Dlgs. n. 42/04, che ha previsto il cd. silenzio devolutivo. E si aggiunge che quanto all’art. 32 della L. 724 del 1994, nella parte in cui prevede che in ordine al condono la mancata formulazione del parere della Soprintendenza dà luogo a silenzio rifiuto, si tratterebbe di norma che, come sarebbe stato sostenuto dall’Autorità giurisdizionale amministrativa,  impone il necessario intervento della Autorità Paesaggistica, senza tuttavia fissare forme statiche di articolazione dello stesso e, piuttosto, lasciando libera la possibilità di applicare moduli procedimentali vigenti al momento di riferimento. In tale quadro, ricorrerebbe nel caso concreto anche il necessario provvedimento positivo della Soprintendenza, in virtù di silenzio assenso ex art. 17  bis della L. 241/90 o comunque il silenzio devolutivo ex art. 146 del Dlgs. 42/04. 
In ogni caso, non sussisterebbe il silenzio rifiuto, non emergendo il silenzio della autorità competente alla emanazione del provvedimento finale costitutivo della procedura decisionale, ma un mero parere di tipo endoprocedimentale, come tale regolato oggi dall’art. 146 citato. 

CONSIDERATO IN DIRITTO
 
    1. Il ricorso è inammissibile. Infondata del tutto è la tesi dell’avvenuta ultimazione al rustico alla data del 31.12.1993. In ordinanza è riportata una analitica ricostruzione delle varie fasi costruttive dell’immobile, in cemento armato, in esame: realizzato per 62 mq. alla data del 31.12.1993, come da domanda dell’interessato, accertato dai carabinieri come corrispondente a ben 90 mq. alla data del 18.4.1998, proseguito attraverso un ampliamento, accertato il 29.11.2003, di circa 36 mq, oggetto di altra domanda di condono in relazione alla L. 326/03, seppure poi demolito. Si aggiunge che alla data del 1990 si era proceduto al sequestro di un manufatto in celloblock, completo di copertura e tramezzature al grezzo, di circa 80 mq. 
La tesi del giudice, per cui l’opera non risulta ultimata alla data del 31.12.1993, alla luce dei predetti dati è impeccabile. 
Innanzitutto, la difesa non illustra le ragioni per cui il manufatto sequestrato nel 1990 – opportunamente citato dal giudice solo in via incidentale nella ricostruzione del percorso costruttivo dell’opera - dovrebbe identificarsi con quello oggetto della domanda, laddove il primo è in celloblock e il secondo in cemento armato,  oltre a risultare, il primo, maggiore del secondo. 
Inoltre, le argomentazioni in tema di corrispondenza tra l’immobile oggetto della domanda di condono e quello oggetto della sentenza riportante l’ordine di demolizione appaiono con assoluta evidenza frutto di mero soggettivismo valutativo, se non di tesi apoditticamente e arditamente assertive, e, come tali, in ogni caso rientranti nell’ambito di prospettive rivalutative del merito, come tali inammissibili in questa sede. Si fa riferimento, in particolare, alla affermazione per cui la rilevante differenza tra un manufatto di 60 mq. (quello di cui alla domanda di condono) e un altro di 90 mq. (quello della sentenza di condanna)  sarebbe “diluibile” e quindi eliminabile attraverso la personale tesi ( perché priva di ogni fondamento tecnico – normativo, mai invero dedotto nelle numerose pagine del ricorso) secondo la quale vi sarebbe un margine ( evidentemente di “tolleranza” vigente in tema di condono) di circa il “20/25%” tra superfici utili e superfici lorde degli immobili edilizi. 
Neppure soccorre il richiamo all’art. 43 della L. 47/85, elaborato dalla difesa al fine di giustificare la non negata prosecuzione dell’opera ancora nel 1998: ben oltre quindi, anche per ammissione della stessa difesa, il termine ultimo del condono attivato con la domanda relativa, ed inerente la disciplina di cui alla L. 724/94. 
In proposito, occorre ricordare che ai sensi del predetto articolo, “….possono ottenere la sanatoria le opere non ultimate per effetto di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali limitatamente alle strutture realizzate e ai lavori che siano strettamente necessari alla loro funzionalità. Il tempo di commissione dell'abuso e di riferimento per la determinazione dell'oblazione sarà individuato nella data del primo provvedimento amministrativo o giurisdizionale.
La medesima disposizione per determinare l'oblazione è applicabile in ogni altro caso in cui i suddetti provvedimenti abbiano interrotto le attività edificatorie”. 
Si tratta di norma di natura eccezionale e quindi di stretta interpretazione, la cui ratio è quella di consentire l’applicazione della disciplina del condono limitatamente a quei casi in cui la realizzazione dell’opera abusiva da condonare, entro il termine ultimo stabilito dalla legge di condono di riferimento, sia stata impedita dall’intervenuta applicazione di un provvedimento d’Autorità (amministrativa o giurisdizionale), che quindi sia stato rispettato dal diretto interessato. In tal senso si è precisato che in tema di condono edilizio, le opere sottoposte a sequestro possono essere sanate in virtù del disposto del quarto comma dell'art. 43 della legge n. 47 del 1985. La "ratio" della previsione consiste nel riservare un trattamento di favore a colui che abbia rispettato il provvedimento dell'Autorità giudiziaria. Diversamente verrebbe ammesso alla sanatoria soltanto quel soggetto che ha violato i sigilli, ultimando il fabbricato. Nè detta statuizione può essere limitata ai provvedimenti degli organi e della giurisdizione amministrativa, poiché siffatta soluzione sarebbe contrastante con l'art. 3 della Costituzione (Sez. 3, n. 20135 del 25/03/2009 Ud.  (dep. 13/05/2009 ) Rv. 243766 – 01;Sez. 3, n. 4444 del 10/04/1997 Ud.  (dep. 13/05/1997 ) Rv. 208032 – 01). Si è altresì precisato che si deve ammettere la possibilità di sanatoria dell'opera solo limitatamente alle strutture realizzate fino a quella data ed ai lavori destinati a consentirne la funzionalità, con esclusione di ogni altro intervento strutturale (Sez. 3, n. 12350 del 02/10/2013 (dep. 17/03/2014 ) Rv. 259891 - 01Sez. 3, n. 14148 del 26/10/1999 Rv. 215053 – 01). 
Ebbene, alla luce del sopra indicato quadro giuridico, deve anche rilevarsi come non appaia pertinente, come anticipato, il riferimento all’art. 43 citato, che la difesa vorrebbe applicare, incongruamente, ad un palese quanto non disconosciuto caso di prosecuzione dell’opera abusiva in violazione dei sigilli (di cui al sequestro del 1990, come citato dallo stesso ricorrente). 
In proposito, peraltro, emergendo una deduzione difensiva di rilievo giuridico, palesemente infondata, non sussiste neppure il dedotto vizio di motivazione. Come noto infatti, le argomentazioni giuridiche delle parti, come ha più volte sottolineato la Suprema Corte, o sono fondate e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge; o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, avuto anche riguardo al disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di correggere, ove necessario, la motivazione quando la decisione in diritto sia comunque corretta (cfr. in tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01 Emmanuele).
L'assenza dei requisiti essenziali temporali, sanciti normativamente per il condono dell’opera, è di per sé sufficiente per escludere in ogni modo la sanabilità della stessa, come stabilito dal giudice dell’esecuzione. 
Per cui solo per completezza va altresì rilevato che,  secondo questa Corte, in tema di reati edilizi, nel caso in cui l'abuso risulti realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico, il procedimento amministrativo per il rilascio del provvedimento autorizzativo in sanatoria, in ragione della già avvenuta commissione dell'illecito penale, è disciplinato con maggior rigore, prevedendosi che la soprintendenza, per la formulazione del parere di sua competenza, prescritto dall'art. 32, comma 1, legge 28 febbraio 1985, n. 47, fruisca di uno "spatium deliberandi" più ampio di quello assegnatole dall'art. 146 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica preventiva (180 giorni, anziché 45) e che l'infruttuoso decorso di detto termine valga quale silenzio-rifiuto, impugnabile innanzi al giudice amministrativo. (Sez. 3, n. 36580 del 17/05/2023 Rv. 284987 – 01).
Né può trascurarsi altresì il principio di unitarietà che incombe sull’opera abusiva, anche ai  fini del condono, per cui, diversamente da come pare emergere dalla rappresentazione delle varie domande di condono, come delineata nella  ordinanza impugnata, non è legittimo frazionare ovvero spezzettare l’opera abusiva tra diverse discipline di condono: cosicchè la valutazione dell’Amministrazione circa la condonabilità dell’opera deve coinvolgere, sul piano edilizio e paesaggistico, pena eventuali risvolti negativi e penali inerenti la genuinità del contenuto degli atti amministrativi adottati, l’intero manufatto come tale, senza che sia possibile escludere dall’analisi parti di esso, al fine di elaborare provvedimenti favorevoli – anche di tipo paesaggistico – nell’ambito di distinti e artatamente separati procedimenti di sanatoria.  

2. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato  senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

 

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso, il 13.02.2024.