Cass. Sez. III n. 52398 del 21 novembre 2018 (Cc 19 giu 2018)
Pres. Cavallo Est. Di Nicola Ric. De Pasquale
Urbanistica.Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante
E’ pacifico che, in materia edilizia, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, del decreto citato
RITENUTO IN FATTO
1. Santi De Pasquale, Davide Ferlazzo e Natale Sciacchitano ricorrono per cassazione impugnando la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza emessa dal tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, ha rideterminato la pena in un mese di arresto ed euro 14.000 di ammenda per ciascuno, confermando nel resto l’impugnata sentenza pronunciata per il reato di cui agli articoli (capo A) 110 del codice penale e 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 perché, in concorso tra loro, De Pasquale in qualità di proprietario e/o committente, Ferlazzo in qualità di direttore del lavori e Schiacchitano in qualità di costruttore ed esecutore materiale delle opere, in assenza della necessaria concessione edilizia e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, catastalmente censita al foglio 2, part. 246, del Comune di Lipari, Sez. di Vulcano: modificavano la destinazione urbanistica della cisterna interrata in locale deposito; realizzavano detto locale - difformemente dai progetti - con il lato ovest fuori terra, costruendo altresì su detto lato una porta d’accesso; realizzavano sul solaio di copertura una serie di infissi orizzontali non previsti negli elaborati progettuali; non realizzavano il previsto interramento con strato di terreno vegetale; per il reato (capo B) di cui agli articoli 110 del codice penale e 181, comma 1-bis, lett. a), decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 per aver realizzato, in concorso tra loro e, nelle qualità indicate al capo a), le opere di cui al capo a) in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e dichiarata di notevole interesse pubblico, senza avere previamente ottenuto il nulla osta della Soprintendenza competente (e comunque in difformità dall’autorizzazione paesaggistica prot. 1262 del 12.11.2010); del reato (capo C) di cui agli articoli 110 del codice penale e 93, 94, 95, del d.P.R. n. 380 del 2001 per aver realizzato, in concorso tra loro e nelle qualità indicate al capo a), le opere di cui al capo a) in zona sismica e in assenza del necessario preavviso e della preventiva autorizzazione rispettivamente da inoltrare e da ricevere da parte del Genio Civile (e comunque in difformità dai progetti presentati al Genio Civile il 4.02.2011). Fatti accertati in Lipari, Isola di Vulcano, il 15.11.2012.
2. Per l’annullamento dell’impugnata sentenza i ricorrenti, tramite il comune difensore, articolano i seguenti motivi di gravame, qui enunciati, ai sensi dell’articolo 173 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura penale, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Santi De Pasquale e Natale Sciacchitano affidano il gravame a due motivi.
2.1.1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione della legge penale ed omessa motivazione in relazione al capo a) della rubrica (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Sostengono che, con la sentenza impugnata, i Giudici territoriali hanno confermato l’affermazione di responsabilità sul presupposto dell’avvenuto mutamento della destinazione d’uso, ritenuta penalmente rilevante, senza tenere conto che la difesa, con i motivi di appello, aveva evidenziato come, in ogni caso, il paventato cambio di destinazione d’uso (da cisterna a deposito) fosse avvenuto nell’ambito della medesima categoria urbanistica e che pertanto le opere non rientrassero tra quelle per le quali era necessario munirsi di preventivo rilascio di un nuovo permesso di costruire. Tale argomento difensivo veniva affrontato dalla Corte di Appello di Messina solo parzialmente ed applicando erroneamente le norme penali.
Infatti, se già ai sensi dell’art. 22, comma 2, del D.P.R. 380 del 2001, poteva affermarsi che elemento necessario per ritenere l'obbligo di munirsi di permesso di costruire, fosse il mutamento della categoria urbanistica, la L. n. 164 dell'11.11.2014, ha espressamente modificato integrandola tale disposizione, prevedendo in modo specifico che il mutamento di destinazione d’uso sia rilevante, solo ove comporti il passaggio ad una diversa categoria funzionale tra le cinque seguenti: residenziale, turistico - ricettiva, produttiva - direzionale, commerciale e rurale.
Ciò premesso, sostengono i ricorrenti che la motivazione della sentenza impugnata appare, in parte qua, frutto di una non corretta applicazione della norma (posto che si fa riferimento al testo previgente dell’art. 22) e pare mancante rispetto ad un punto decisivo della causa, tenuto conto che non è stato, in alcun modo, affrontato il tema della modifica della categoria a seguito della esecuzione delle opere.
2.1.2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano l’inosservanza della legge penale nonché il difetto di motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale) quanto alla mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 131-bis del codice penale e/o la concessione del beneficio della non menzione.
Assumono che la misura della pena irrogata, le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, valutata ai sensi dell’articolo 133, primo comma, del codice penale, il comportamento non abituale, l’aver provveduto alla riduzione in pristino militavano per l’esclusione della punibilità in considerazione della particolare tenuità del fatto.
Le ragioni poste a fondamento del diniego della non menzione non appaiono poi condivisibili ai ricorrenti sia in considerazione dei principi dettati dall’articolo 133 del codice penale e sia alla luce della interpretazione che la Corte Costituzionale ha dato a tale istituto, statuendo che lo stesso, ha la funzione di favorire la risocializzazione del reo, evitando di compromettere il suo reinserimento nella vita sociale e nel lavoro, mediante l’eliminazione del pregiudizio che lo stesso potrebbe subire dalla annotazione della condanna sul certificato del casellario giudiziale.
2.2. Il ricorso proposto da Davide Ferlazzo è articolato su tre motivi.
2.2.1. Il primo ed il terzo motivo sono analoghi a quelli sollevati da Santi De Pasquale e Natale Sciacchitano.
2.2.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge penale nonché la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione su punti decisivi per il giudizio (articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), del codice di procedura penale).
Sostiene che, con i motivi di appello, aveva dedotto la sua estraneità ai fatti contestati, sul rilievo che non vi fosse prova del concorso, da parte sua, nella realizzazione o nella cooperazione delle opere abusive.
D’altra parte, nella sentenza di primo grado, la responsabilità dell'imputato era stata affermata solo sul presupposto della presunta intempestività delle dimissioni.
Ciò senza prendere in considerazione come al momento del sopralluogo, la diversità delle opere realizzate, fosse apparsa per la prima volta.
I testi della difesa, avevano riferito di aver dato notizia “solo in quella data” (sopralluogo) della riscontrata diversità, non evincibile, tra l’altro, da un esame non accurato, tenuto anche conto della esiguità (creazione di una apertura con porta precaria chiusa) e della non ultimazione dei lavori che avrebbe, secondo progetto, comportato l’interramento con 30 cm di terreno.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili sulla base delle considerazioni che seguono.
2. La sentenza impugnata ha già esaminato, nella massima parte, le doglianze svolte dai ricorrenti nei confronti della sentenza emessa dal Tribunale, superandole con motivazione adeguata, priva di vizi di manifesta illogicità, e pertanto insuscettibile di essere sindacata in sede di controllo di legittimità.
La Corte di appello ha infatti premesso come il Tribunale avesse ritenuto la penale responsabilità degli imputati sia sulla base dell’apparato documentale acquisito in dibattimento e sia sulla base delle concordi testimonianze rese dai testi escussi, pervenendo alla conclusione che le modifiche della destinazione d’uso, accertate nel caso in esame, dovessero annoverarsi tra quelle per la cui esecuzione era necessario il previo rilascio di un permesso di costruire di cui, invece, non è stata rinvenuta traccia.
Con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, la Corte territoriale ha ritenuto come fosse palese che gli interventi progettati dal Ferlazzo ed eseguiti dallo Sciacchitano, su disposizione del De Pasquale, quale amministratore della società DE.PA. vacanze s.r.l., ben lungi dall’ascriversi nel novero degli interventi di ristrutturazione, avessero invece profondamente inciso, fino a mutarla radicalmente, la destinazione dell’immobile che ne era stato oggetto, il quale fu trasformato da vasca cisterna - deputata alla raccolta delle acque - in un ampio magazzino da destinarsi al deposito merci.
La Corte d’appello ha anche confutato la tesi secondo la quale le modifiche apportate al manufatto (quali l’apertura di un varco laterale chiuso da una porta, lo sterramento del tetto e l’apertura su di esso di diversi lucernai, come risultanti al momento dell’effettuato sopralluogo) avessero la natura di opere precarie, funzionali a lavori di ristrutturazione ed atte ad essere agevolmente rimosse al termine degli stessi.
La Corte distrettuale ha aggiunto che il carattere durevole delle opere in esame e la loro attitudine ad incidere stabilmente sullo stato dei luoghi ed a fornire un’utilità prolungata nel tempo e non provvisoria all’edificio, cui erano annesse, è emersa sia dall’esame dell’apparato fotografico acquisito al fascicolo del dibattimento e sia dalle testimonianze rese dai testi escussi.
L’avvenuto mutamento della destinazione d’uso - concretizzatasi nella devoluzione della vasca cisterna da luogo deputato alla raccolta delle acque a luogo preposto al deposito di materiali – ha anche trovato, tra l’altro, riscontro nelle deposizioni dei testi escussi.
Il teste Bicchieri, sentito in dibattimento, ha affermato come fosse visibile, all’interno della vasca cisterna, la presenza di mobili ed oggettistica varia.
Di eguale tenore, secondo la ratio decidendi della sentenza impugnata, è stata la deposizione del Beninati, il quale ha precisato come, al momento dell’accertamento, la cisterna fosse destinata ad un uso diverso rispetto a quello cui avrebbe dovuto essere adibita in conformità alla DIA presentata.
Ampiamente acclarata, infine, nonché atta a smentire la tesi che quelle eseguite non fossero varianti in corso d’opera né, tantomeno, delle opere momentanee e funzionali all’espletamento di un’attività di ristrutturazione, è risultata la circostanza che, al momento del sopralluogo, i lavori risultavano conclusi.
In tal senso, è stata valorizzata la testimonianza resa dal Bicchieri, il quale, ha asserito come l’assenza di materiali edili nei pressi dell’edificio lasciasse propendere per un ormai avvenuto completamento dei lavori.
3. Da tutto ciò consegue la manifesta infondatezza del primo motivo dei ricorsi.
Il fatto che la modifica dell’immobile da cisterna (vasca deputata alla raccolta delle acque) a magazzino per il deposito merci rientri nella medesima categoria funzionale, non richiedendo il permesso di costruire, è affermato su basi meramente assertive, secondo una qualificazione giuridica del fatto storico accertato, e neppure in proposito contestato, profondamente errata.
E’ pacifico, ed anche i ricorrenti mostrano di concordare in proposito, che, in materia edilizia, ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, del decreto citato (Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, dep. 2016, Postiglione, Rv. 266483)
La regola generale e che, in presenza di opere che implichino una stabile (benché non irreversibile) trasformazione del territorio, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, è necessario il rilascio di un idoneo titolo edilizio.
Siccome nel caso di specie, sulla base dell’accertamento di fatto compiuto, con logica ed adeguata motivazione, dai giudici del merito, l’entità del deposito dei materiali e la stabilità dell’utilizzazione dell’area emergono con evidenza, è da ritenersi realizzata una trasformazione permanente dell’assetto edilizio del territorio, necessitante di permesso a costruire.
La trasformazione di un vano cisterna interrato, deputato alla raccolta delle acque, in magazzino per il deposito merci con conseguente creazione di superfici commerciali configura modifiche della destinazione d’uso rilevanti, intervenendo tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, con effetti incidenti sul carico urbanistico.
La realizzazione di un magazzino destinato a deposito merci svolge, infatti, una funzione diretta a raccogliere e a conservare merci destinate al commercio, all’artigianato, all’attività industriale e, secondo i casi, non può essere escluso anche l’espletamento di una funzione volta anche al perseguimento di connessi bisogni di natura residenziale.
In un’accezione più ristretta, ma ugualmente rilevante dal punto di vista urbanistico, la realizzazione di un magazzino – deposito svolge una funzione finalizzata a conservare “cose”, registrandosi la permanenza umana, sia pure in via accessoria, nelle fasi di carico e scarico delle merci.
L’articolo 23-ter TUA, introdotto nel Testo Unico per l’Edilizia ex d.P.R. n. 380 del 2001 dal cd. decreto “Sblocca Italia” ex decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito in legge 11 novembre 2014, n. 164, ha disciplinato il mutamento di destinazione d’uso rilevante, cioè quello che comporta il passaggio tra categorie funzionali urbanisticamente rilevanti, stabilendo che, salva la potestà previsionale in materia alle regioni, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.
Escluso, all’evidenza, che la destinazione d’uso di un magazzino – deposito merci possa rientrare nelle “macro” categorie residenziali, turistico ricettive, rurale, residuano le categorie con destinazioni d’uso commerciale, produttiva e direzionale, dove nella prima (commerciale) il magazzino per deposito merci normalmente deve essere inserito.
La vasche di raccolta delle acque sono, all’evidenza, escluse da tali ultime categorie funzionali.
Da ciò già consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso.
Va anche aggiunto che le vasche di raccolta delle acque rientrano normalmente nell’attività edilizia libera (escluso il caso della realizzazione, come nel caso di specie, di cisterne interrate ossia di un volume tecnico di rilevante ingombro destinato ad incidere oggettivamente in modo significativo sui luoghi esterni: Sez. 3, n. 7217 del 17/11/2010, dep. 2011, La Terra, Rv. 249529) e tale approdo è confermato dal decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222 di individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell'articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (v. Sezione II, 1.27.), il quale, tuttavia, ovviamente prevede che, se per la realizzazione dell’intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
Tale regime vale anche per il deposito merci, comunque sottratto, in ogni caso, dall’attività edilizia libera.
Va allora considerato che, indipendentemente dal mutamento della destinazione d’uso di un immobile, quando si realizzano, come nel caso di specie, opere urbanisticamente rilevanti, queste ultime, se soggette al titolo abilitativo edilizio, devono essere realizzate solo previo possesso del titolo previsto in relazione alla loro importanza e natura.
Infatti, quanto al regime amministrativo degli interventi edilizi, la tabella A), allegata al d.lgs. n. 222 del 2017, precisa, nelle sottosezioni che riguardano le varie attività edilizie ed i regimi cui esse sono sottoposte, che, nel caso in cui per la realizzazione dell’intervento siano necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente.
La stessa regula iuris è replicata con riferimento alla modifica dell’originaria destinazione d’uso, nel senso che (v. Sezione II, punto 39, colonna “concentrazione dei regimi amministrativi”), nel caso in cui l’autorizzazione (cui comunque è soggetto anche mutamento d’uso tra categorie omogenee) si riferisca ad interventi per i quali sono necessari altri titoli di legittimazione, questi vanno acquisiti preventivamente (v. sottosezione 1.1.).
Ne consegue che il principio secondo il quale, salva la potestà legislativa regionale, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale, va interpretato nel senso che è fatto sempre salvo il caso in cui l’autorizzazione, relativa al mutamento della destinazione d’uso tra categorie omogenee (e, a maggior ragione, tra diverse categorie funzionali), si riferisca ad interventi per i quali siano necessari altri titoli di legittimazione, i quali, in tal caso, vanno comunque preventivamente acquisiti.
Anche per tale ragione, quindi, il motivo di ricorso è manifestamente infondato.
4. E’ inammissibile anche il secondo motivo del ricorso Ferlazzo.
La Corte territoriale ha affermato come, alla luce del quadro probatorio acquisito ed avuto particolare riguardo alla deposizione del Marino, sia emerso che il Ferlazzo, quanto dalla missiva a sua firma depositata in udienza e datata 20 dicembre 2012, abbia comunicato le proprie dimissioni soltanto dopo l’esecuzione del sopralluogo e l’accertamento della violazione.
Da ciò la Corte d’appello ha tratto il logico convincimento come la comunicazione intempestiva delle proprie dimissioni escluda che il ricorrente, in qualità di direttore dei lavori, possa andare esente da responsabilità ai sensi dell’articolo 29 d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel pervenire a tale conclusione la Corte distrettuale si è attenuta al principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di reati edilizi, il direttore dei lavori riveste una posizione di garanzia circa la regolare esecuzione delle opere, con la conseguente responsabilità per le ipotesi di reato configurate, dalla quale può andare esente solo ottemperando agli obblighi di comunicazione e rinuncia all’incarico previsti dall'art. 29, comma secondo, D.P.R. n. 380/2001, sempre che il recesso dalla direzione dei lavori sia stato tempestivo, ossia sia intervenuto non appena l’illecito edilizio si sia evidenziato in modo obiettivo, ovvero non appena abbia avuto conoscenza che le direttive impartite erano disattese o violate (Sez. 3, n. 34376 del 10/05/2005, Scimone, Rv. 232475).
Le doglianze del ricorrente, secondo cui la Corte d’appello non avrebbe tenuto conto che le difformità sono state rilevate solo al momento del sopralluogo per la prima volta, introduce una censura fattuale che, oltre ad essere manifestamente infondata perché al direttore dei lavori funzionalmente competeva di rilevare, prima del sopralluogo, tali difformità, non può rientrare nell’orizzonte cognitivo della Corte di cassazione, riservato esclusivamente al controllo di legittimità nonché alla congruità e logicità della motivazione, aspetti non incisi, nel caso in esame, dal alcuna violazione di legge.
5. Il secondo motivo dei ricorsi De Pasquale e Sciacchitano nonché il terzo motivo, omologo, del Ferlazzo sono parimenti inammissibili.
In primo luogo, la doglianza sulla mancata applicazione dell’articolo 131-bis del codice penale è nuova, perché sollevata per la prima volta nel giudizio di legittimità, e pertanto inammissibile.
La Corte ha già affermato la natura atipica della causa di non punibilità ex articolo 131-bis del codice penale (Sez. 3, n. 50215 del 08/10/2015, Sarli, non mass. sul punto), sul fondamentale rilievo che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica (Sez. 3, n. 27055 del 26/05/2015, Sorbara, Rv. 263885).
Ciò comporta che, se nel giudizio di merito l’imputato non abbia chiesto l’applicazione della causa di non punibilità, ritenendola disallineata rispetto al suo interesse all’assoluzione, e il giudice abbia ritenuto di non applicarla d’ufficio, la relativa richiesta non può essere formulata, per la prima volta, nel giudizio di legittimità, risultando preclusa da una precisa scelta dell’imputato diretta a conseguire il pieno proscioglimento nel merito, mediante la sottrazione del tema alla cognizione giurisdizionale nei precedenti gradi di giudizio.
A parte la precedente considerazione, che al Collegio appare di natura assorbente, va ricordato che la giurisprudenza della Corte, con orientamento invero oscillante, ha comunque affermato che, in tema di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all’art. 606, comma terzo, cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza d’appello, in quanto la questione postula un apprezzamento di merito precluso in sede di legittimità e l’applicazione della causa di non punibilità poteva essere rivendicata al giudice procedente, come motivo di appello ovvero almeno come sollecitazione in sede di conclusioni del giudizio di secondo grado (Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877; Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913; Sez. 7, n. 43838 del 27/05/2016, Savini, Rv. 268281; Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv. 266678).
Va infine osservato che la Corte d’appello non ha concesso il beneficio della non menzione avuto riguardo alle risultanze del casellario giudiziale ed al contegno comportamentale intrattenuto all’epoca di commissione dei fatti (quanto al De Pasquale e Scicchitano), mentre, quanto al Ferlazzo, ha tenuto conto del fatto che egli aveva banalizzato le proprie dimissioni solo con il precipuo fine di estraniare la propria persona da alcuna forma di responsabilità penale.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte d’appello ha fondato il proprio convincimento sui criteri previsti dall’articolo 133 del codice penale, con la conseguenza che i rilievi dei ricorrenti, peraltro aspecifici, devono ritenersi anche manifestamente infondati.
6. Sulla base delle precedenti considerazioni, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibilu e ciò comporta l’onere per i ricorrenti, ai sensi dell’articolo 616 codice di procedura penale, di sostenere le spese del procedimento.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 19/06/2018.