Dal rifiuto alla “materia prima secondaria” nell’art. 6, della direttiva 2008/98/CE (End of waste status e problemi di trasposizione nell’ordinamento italiano)

di Pasquale GIAMPIETRO

 

1. Il  riconoscimento formale della “m.p.s*.

 

La prossima attuazione dell’ultima direttiva 2008/98/CE, “relativa ai rifiuti” – prevista per il 12 dicembre 2010, ex art. 40 (anche) in considerazione della sua entrata in vigore il 12 dicembre del 2008, ai sensi dell’art. 42[1] - porrà delicate e specifiche questioni di trasposizione dell’art. 6, dedicato al momento (cronologico e logico-giuridico) della “cessazione della qualifica di rifiuto” (come si esprime la sua rubrica), che si intende esaminare, di seguito, nei tratti salienti.

 

Segnare, in pochi commi, questo difficoltoso “spartiacque” (individuato dai quattro paragrafi di cui consta la norma comunitaria) non sarà agevole.

 

Non solo per motivi tecnici – attesa la pluralità e diversità delle tecnologie di trattamento a fini di recupero, cui devono essere sottoposte le varie tipologie di rifiuti per raggiungere determinate caratteristiche del materiale ottenuto e alla oggettiva difficoltà di determinare il momento finale di questi trattamenti differenziati - cui è legata la prevista e riconosciuta “metamorfosi”: da rifiuto in prodotto[2].

 

Ma anche a causa della varietà e molteplicità delle elaborazioni e degli approfondimenti concettuali registrati nell’ambito dell’esperienza giuridica degli ultimi vent’anni, da parte della giurisprudenza, interna e comunitaria, oltre che della dottrina[3] (con esiti tutt’altro che omogenei), dei quali occorrerà tener conto al fine di trovare il giusto equilibrio fra le ragioni comunque prioritarie della protezione dell’ambiente e della salute (che tenderebbero a  far coincidere la nascita della m.p.s. con quella del suo utilizzo finale per essere trasformata in prodotto finito, come sostenuto in più di un’occasione da talune sentenze e da qualche interprete[4]) e quelle del mercato (che spingerebbero a ridurre l’area o la specie/durata dei trattamenti, per anticipare la nascita della c.d. “materia prima secondaria”).

 

Ebbene, su questa contrapposta e critica alternativa, il legislatore comunitario, per la prima volta, pone un punto fermo, di grande rilevanza giuridica e dunque economica - in ordine al noto dualismo: “rifiuto e non rifiuto” – sancendo, in modo espresso e netto[5], che, a certe condizioni, le operazioni di recupero conducono alla cessazione della categoria di “rifiuto” e alla contestuale nascita, in senso giuridico e merceologico, di un “prodotto” (o, più genericamente, di una merce) che entra, senza necessità di ulteriori riconoscimenti, nel mercato, per seguirne, in via esclusiva, le regole (per quanto attiene, in specie, alle operazioni di deposito, raccolta, trasporto, trattamento commercializzazione, ecc.)[6]. E tutto ciò, anche prima della - e per tutto il tempo tecnicamente necessario alla - sua successiva utilizzazione come m.p.s., per realizzare il prodotto finito[7].

 

Peraltro la rubrica dell’art. 6, della direttiva, così come il testo della norma, non fanno menzione delle m.p.s. e adottano la consueta espressione “sostanza o oggetto” ovvero “prodotti materiali o sostanze” (che mi sembra assai più pertinente, come si legge a proposito della attività di riciclaggio: v. p. 17, dell’art. 3).

 

Ebbene, in sede di conversione della norma nel diritto interno, può essere utile, oltre che legittimo, recuperare e tener ferma la terminologia nazionale e comunitaria (che già conosce la categoria delle materie prime secondarie), titolando diversamente la diposizione interna, a fini chiarificatori e di continuità con il passato, e riferendola, per l’appunto, alle m.p.s.[8] Intendo dire che la norma italiana potrebbe essere titolata “Materie prime secondarie” e non “Cessazione della qualifica di rifiuto”.

 

In definitiva, la norma italiana di trasposizione, partendo da questa acquisizione di principio (sulla formazione di una m.p.s. per effetto dell’avvenuto compimento di un’attività di recupero) – potrà:

-          “tradurre” meglio il periodo ipotetico espresso dal paragrafo primo, dell’art. 6, (“Taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi dell’articolo 3, punto 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni”), con la coniugazione dei verbi al congiuntivo, ricorrendo alla forma indicativa, e:

-           sostituire la menzione dei “rifiuti specifici” con il richiamo diretto alle m.p.s. (piuttosto che ai termini usuali, ma indefiniti: “sostanza od oggetto”), con l’aggiunta doverosa delle nuove operazioni di “riciclaggio”e di “preparazione per il riutilizzo” (nel rispetto dell’art. 6).

 

Non dunque una formulazione secondo cui determinati rifiuti, individuati secondo le procedure . ecc…, cessano di essere tali quando siano sottoposti ad una operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo[9], ecc.

 

Ma, diversamente, un articolo che richiami espressamente “le materie prime secondarie”, cioè le sostanze e i prodotti che hanno cessato di essere rifiuti per effetto dell’avvenuto recupero o riciclaggio ovvero preparazione per il riutilizzo, a cui far seguire la pedissequa riproduzione delle lettere a/d del par. 1, senza alcuna aggiunta e variante, attesa la mancata formulazione, allo stato, dei “criteri” della Commissione.

Ed ancora: rispetto al testo della direttiva, occorre evitare l’uso del verbo (“sottoporre”) al congiuntivo (“quando siano sottoposti ad una operazione di recupero”), in favore di una diversa espressione che suppone ultimata l’attività di recupero (“a seguito” o “in esito a operazioni di recupero”), per due ragioni: perché il comando legislativo deve rifuggire, se possibile, dall’uso del congiuntivo (meglio l’indicativo, idoneo a porre una condizione inderogabile). E perché l’effetto giuridico del mutamento di qualificazione segue, per principio, al compimento dell’attività di recupero (non quindi…. “quando siano sottoposti”: semmai allorché “siano stati sottoposti”.).

 

In definitiva, la materia prima secondaria si perfeziona, in termini giuridici e merceologici, allorché l’attività di recupero si è conclusa e dunque “a seguito di operazioni di recupero” ovvero “quando (i rifiuti) siano stati sottoposti” a questa attività[10].

 

 

2. La preesistenza della normativa sulle m.p.s. e le nuove competenze (tendenzialmente) esclusive della Commissione.

 

Le materie prime secondarie, come ricordato, hanno una loro “storia” - normativa e di prassi commerciale - che lungi dall’essere dispersa è stata, all’opposto, recuperata e legislativamente ratificata nei nuovi termini del dettato comunitario.

 

Per il passato, basti pensare alla espressa menzione delle m.p.s. nelle fonti secondarie dell’ordinamento comunitario, di cui a direttiva 75/442 CEE, come modificata dalla successiva direttiva 91/156 CEE, le cui norme di principio e definitorie sollecitavano gli Stati membri ad adottare “misure appropriate per promuovere … il recupero dei rifiuti, mediante riciclo, reimpiego…. ecc. ed ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie(v. l’art. 3, par. 1, lett. b), i), direttiva 91/156 CEE).

 

Questa terminologia è stata poi recepita anche dai partner europei per es. di lingua inglese, con la seguente formula: (operazioni volte a) “.. to extracting secondary raw materials” o francese: (operazioni volte a) “..... obtenir des matières premières secondaires”.

 

Per il diritto interno, è sufficiente ricordare che, dapprima in via interpretativa e poi in forma codificata, nel D. lgs. n. 22/1997 (c.d. decreto Ronchi), si è formalmente riconosciuta tale categoria giuridica, promuovendone lo sviluppo:

-          v. art. 4, comma 1, lett. b), che sollecita le “autorità competenti.. a favorire la riduzione dei rifiuti attraverso…le altre forme di recupero per ottenere materia prima dai rifiuti”;

-          cfr.  gli artt. 31 e 33, relativi alle procedure semplificate per ottenere m.p.s. dal recupero dei rifiuti (a fronte delle procedure ordinarie volte allo stesso scopo, ex artt. 27 e 28 );

-          v. art. 181, comma 12, prima versione (che anticipa la nozione di end of waste) del T.U.A. del 2006 e l’art. 181 bis, del secondo correttivo, del 2008.

 

Altrettanto può affermarsi con riferimento alle norme sul recupero ordinario o agevolato del vigente  T.U.A. del 2006, e s. m.  i. , per la produzione di m.p.s.:

 

-          v. artt. 181, 208: recupero in via ordinaria; e artt. 214 e 216, recupero in forma semplificata. Con la sottolineatura che, nell’ipotesi di procedura ordinaria di recupero, risulta condizione adeguata e necessaria il solo provvedimento autorizzatorio, con le  sue prescrizioni, in quanto tale atto amministrativo trova il suo diretto fondamento abilitante nella legge (cioè nella norma primaria: già artt. 27 e 28 del decreto Ronchi; oggi, l’art. 208 del T.U. cit.).

-          Senza dire, comunque, che le Autorità che lo rilasciano, si richiamano logicamente - e costantemente - alle prescrizioni regolamentari sul recupero semplificato esistenti (per es. il D.M. 5.2.1998, ecc.) ovvero ad altre normative tecniche note ed in uso in sede nazionale o internazionale (per i requisiti merceologici o ambientali) sia per specifici rifiuti non ancora previsti dai regolamenti statali (aggregati, sottoprodotti della gomma, della lavorazione dei metalli, dei minerali, del legno, ecc. ecc.) sia, più spesso, per tipologie già riconosciute nella disciplina sulle procedure semplificate. Ciò accade soprattutto quando lo specifico rifiuto, da recuperare, non rispetta una o più delle  prescrizioni previste dalla medesima disciplina (per es., per le quantità; o per la provenienza o destinazione; per il suo utilizzo non ancora regolato dai decreti ministeriali, a causa, tra l’altro, dei gravi ritardi o … delle molte distrazioni dei medesimi). Resta fermo, poi, che l’autorizzazione al recupero è comunque soggetta al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo che ne accerta la legittimità anche in base al vizio sintomatico dell’eccesso di potere, valutando, entro certi limiti, la ragionevolezza e congruità dell’istruttoria svolta per pervenire ai criteri tecnici adottati.

 

Sotto altro profilo, la giurisprudenza comunitaria e degli Stati membri ha, da tempo risalente, anche se con indirizzi non sempre coerenti, riconosciuto tale realtà giuridica[11], sicché il rivalutarla e formalizzarla nel diritto dell’U.E. ed interno, spiega, a sufficienza, e giustifica l’adozione dell’art. 6[12].

 

In definitiva, il fatto che solo nel 2008 la Unione Europea abbia inteso “codificare” la nozione di m.p.s. ed affidare, in via esclusiva, alla Commissione la determinazione dei “criteri” con cui specificare le “condizioni” poste dal paragrafo primo di detta norma (v. oltre), non significa affatto che, in precedenza, l’ordinamento comunitario non conoscesse tale figura giuridica né che gli Stati membri non potessero e non possano, al presente, far ricorso alla propria normativa interna, in attesa e sino a quando la Commissione non fisserà i ridetti “criteri” (v., Infra, par. 3.1. e ss.).

 

E’ appena il caso di ricordare, in proposito, che la “materia ambientale” appartiene alla competenza concorrente della Comunità e degli Stati membri e che, in tale ambito, opera il principio, della sussidiarietà dell’intervento comunitario rispetto alle iniziative svolte su scala nazionale.

 

Tanto più quando, a fronte della natura definitoria dell’art. 6 e della predisposizioni delle condizioni del par. 1, la Commissione, a ciò investita, ometta o ritardi di predisporre i “criteri” di specificazione di dette “condizioni”, anche se lo stesso disposto le riconosce una competenza “prioritaria” e tendenzialmente esclusiva.

 

Tale esclusività, però, non va intesa nel senso che la mancata adozione dei ridetti “criteri” impedisca agli Stati di fissarne, autonomamente, dei propri (pena l’ingiustificato arresto del mercato del recupero e del riciclo). Ma nel diverso significato che, ove in sede europea,  la Commissione  abbia posto, per determinate tipologie di rifiuti, “i criteri” di cui a parr. 1 e 2, gli Stati non possano più - per le stesse tipologie - dettarne dei propri, autonomi e diversi.

Mentre, nel caso in cui siano stati legittimamente adottati criteri “nazionali per determinate tipologie di rifiuti, “i criteri” successivi introdotti dalla Commissione (ovviamente per le stesse tipologie),  devono prevalere, secondo il diritto comunitario, in base al paragrafo 2, dell’art. 6, cit., per una evidente ragione di identità di regole tecniche da far valere a livello europeo, volte a disciplinare il mercato unico europeo (con derivato obbligo, a carico degli Stati membri, di conformarsi ai criteri comunitari, sostituendo o modificando quelli propri anteriori, ovviamente in presenza di contrasti o difformità). [13]

 

In conclusione, la prospettazione di un art. 6 del tutto innovativo - in tema di m.p.s. - non risulterebbe conforme al  sistema vigente, per quanto esposto sopra, sia comunitario che nazionale, i quali conoscevano e conoscono questa categoria giuridica  a partire…. dalle direttiva 75/442 (e successive modificazioni e abrogazioni: 91/156, 2006/12/CE), come dimostrato dalla giurisprudenza della C.G.C.E (che le aveva individuate in alcuni  casi sottoposti alla sua attenzione e ne aveva fissato le condizioni e i connotati, successivamente ripresi dalle legislazioni nazionali, compresa quella italiana). [14]

 

Par. 2.1. Di alcune novità sostanziali: tassatività delle m.p.s. e competenze  della Commissione CE.

 

Appare utile segnalare, nel merito, alcune peculiari novità, della attuale disciplina comunitaria, che andranno correttamente intese se si vuole procedere ad una adeguata trasposizione dell’art. 6,  a partire da una opzione di  fondo della direttiva che attiene:

 

a)  alla scelta in favore di un  numero “chiuso” della  m. p. s.

 

Intendo dire che l’art. 6 sembra voler tipizzare, ex lege, detta categoria, come si desume univocamente dal dato testuale del disposto il quale si rivolge solo a “taluni rifiuti specifici” (v. par. 1) o a determinate “categorie di rifiuti” (v. il par.  2 e il “considerando” 22, ultimo alinea), dopo aver formulato una nozione generale ed astratta di m.p.s., nel primo paragrafo, alquanto indeterminata, nell’attuale mancanza di criteri appositi di individuazione di ogni fattispecie concreta (sul punto vedi infra le previsioni di diritto transitorio).

 

Detta norma introduce, in altri termini, una nozione di m.p.s. tassativa e in numero chiuso (ovviamente con riferimento ad una determinata unità di tempo) - anche se suscettibile di essere incrementata con nuove tipologie (tanto dalla Commissione che dagli Stati membri: v. infra) - che deve soddisfare le quattro “condizioni” imposte, in via generale, dalle lettere a) - d) del paragrafo primo (descrittive dei presupposti fattuali da rispettare, come specificati dai “criteri” di identificazione: v. oltre).

 

Sotto questo profilo si potrebbe sostenere che difetta una definizione immediatamente applicabile, in quanto svincolata dalla preventiva (scelta ed) enunciazione delle singole tipologie[15], come si rintraccia, per es., nel diritto italiano (cfr. artt. 27 e 28, decreto Ronchi cit. e 208 T.U.A.) il quale impone la regola della tipizzazione solo per accedere alle procedure semplificate (ex artt. 214/216 T.U. cit.; si pensi altresì al vigente D.M. 5.2.1998, su cui v. oltre).

 

Ove si  opti, infatti, per la procedura ordinaria, la stessa normativa nazionale riconosce alle singole Amministrazioni competenti di qualificare m.p.s. qualsiasi altro materiale, anche se non ancora individuato dai regolamenti ministeriali (ai fini di godere delle procedure agevolate). [16]

 

In tal senso (della non tassatività e tipicità delle m.p.s.) si era pronunciata la dottrina più aperta,  la giurisprudenza e, da ultimo, il legislatore. Si veda, infatti, l’art. 9-bis del d.l. n. 172/2008, convertito in legge  30 dicembre 2008, n. 232, il quale riconosce alla P.A. la potestà di fissare, nel provvedimento di autorizzazione, caso per caso, le “caratteristiche dei materiali” (qualsiasi materiale anche non previsto affatto dai regolamenti cit.) da considerare m.p.s., “… in attesa della data di entrata in vigore del decreto di cui all’articolo 181 bis, comma 2, “ del T.U.A.[17].

 

Un altro aspetto che merita attenta considerazione concerne la previsione, a regime, che attribuisce:

b) una competenza tendenzialmente esclusiva (e comunque prevalente) degli organi comunitari (Commissione tramite procedura di Comitato):

 

1) ad (elaborare) e adottare “criteri specifici” che devono essere soddisfatti dal materiale ottenuto dalle operazioni di recupero (di pre-determinate categorie di rifiuti), per essere qualificato m.p.s.;

 

2) a specificare e definire i termini per soddisfare le condizioni normativamente poste sub a/d) del par. 1), dell’art. 6 cit., nel formulare detti “criteri specifici”;

 

3) ad adottare  misure per la modifica di elementi non essenziali della direttiva che contengano alcuni criteri, del tipo di quelli indicati sub p. 1, destinati esclusivamente a  singole tipologie di rifiuti (v. oltre). [18]

Par. 2.2.  Altre peculiarità dell’art. 6 e sua attuale vigenza.

 

La novità dell’art. 6 non è dunque propriamente sostanziale (con riferimento alle condizioni del primo paragrafo), ma piuttosto formale: cioè attiene all’esplicito riconoscimento di questa nozione, già ampiamente nota e applicata dagli Stati membri, con l’evidente finalità di ridurne la notevole problematicità  e le tante varianti….., in un concetto unitario e, solo per alcuni profili, innovativo.

 

Fra le innovazioni  va rilevata, in specie (in aggiunta a quanto accennato a par. precedente), la diversa  portata  della nozione decisiva di (attività di) recupero in cui sono ricomprese anche le operazioni di riciclaggio e di preparazione (non di “riutilizzo”: v. oltre).

 

Con la ulteriore conseguenza, sul piano concettuale e sistematico (senza scomodare l’approccio “dogmatico”), che per la nuova direttiva, la ridotta incidenza degli interventi, pur  riconducibili all’ambito semantico (e quindi giuridico) della “preparazione”, ex art. 3, p.16 (non solo riparazione ma anche e solo – alternativamente - pulizia…e controllo…), obbliga l’interprete ad abbandonare, quantomeno in alcune ipotesi,  il noto e fondamentale canone del “recupero completo” (da cui nasce la m.p.s.) un tempo contrapposto al recupero incompleto o preliminare” (in presenza del quale il rifiuto restava tale [19]).

 

In altre parole la “preparazione” vale (nel senso che è equiparata, agli effetti di legge, per la fine della nozione di rifiuto) come recupero anche se l’art. 6, par. 1, proprio nel regolare quest’ultimo, dimentica di menzionarla…

 

E’ ben vero che le nuove quattro “condizioni”, allo stato, non sono ancora specificate dai “criteri” (riservati alle determinazioni della Commissione, secondo “le procedure di regolamentazione con controllo, ex art. 39, par. 2), ma questo non impedisce di affermare, in punto di diritto, che la nuova definizione di m.p.s. è già tracciata e individuata nell’art. 6, paragrafo 1, come “sostanza od oggetto” derivante da un’attività di recupero (a sua volta predefinita dall’art. 3), nella ricorrenza delle menzionate condizioni.

 

Tale qualificazione giuridica è formalmente vigente e vincolante  gli Stati membri, ex at. 40, il quale, contenendo un obbligo di conformazione, in scadenza (12 dicembre del corrente anno), impone loro:

 

a)     la  trasposizione dell’art. 6 negli ordinamenti interni, entro il 12 dicembre c.a., cioè di una norma che, a sua volta:

 

b)      legittima (o abilita) i medesimi Stati, ex paragrafo 4, a “decidere, caso per caso” (da intendere ragionevolmente come: “tipologia per tipologia di rifiuti”, non avendo senso alcuno, oltre ad essere sospetti…, interventi normativi per ipotesi concrete di uno specifico rifiuto prodotto da una data impresa), le tipologie di rifiuti riconducibili alla introdotta nozione di “materia seconda” (successivamente ma anche prima dell’intervento della Commissione, ex paragrafo 2), con la previa:

 

c)      adozione, ex novo (sempre da parte dello Stato membro) dei “criteri” di specificazione di diritto interno, con cui dettagliare le “condizioni” indicate (in relazione alla tipologia introdotta), in conformità  alla nuova norma interna di attuazione dell’art. 6[20] (detti “criteri” nazionali sono però “cedevoli” rispetto a quelli omologhi e prevalenti che la Commissione eventualmente adotterà in un momento successivo);

 

d)     oltre all’ulteriore dovere degli organi interni del singolo Stato di interpretare il diritto nazionale secondo i nuovi principi comunitari sulla “fine del rifiuto”, introdotti dalla direttiva, nei limiti di compatibilità degli stessi con la normativa interna vigente, anteriore alla sua trasposizione (sul punto, v., oltre, il regime transitorio).

 

Fermo restando che, in attesa della formulazione dei “criteri”, comunitari e/o nazionali, è auspicabile (recte: doveroso) che i partner europei prevedano un regime transitorio chiamato a governare l’arco temporale che va dalla trasposizione della nuova direttiva al momento in cui saranno adottati, da parte della Commissione (come recepiti  dagli Stati membri), “i criteri” di specificazione indicati (su tale regime v. oltre par. 3).[21]

 

Né, d’altronde, poteva seriamente ipotizzarsi che l’art. 6 contenesse direttamente e immediatamente tali “criteri”. Sia perché molti di essi devono ancora essere elaborati, in concreto,  sia, soprattutto, in quanto la loro identificazione comporta complesse procedure a altrettanto laboriose ricerche e dosaggi di parametri tecnici (sulla provenienza, destinazione, caratteristiche chimico-fisiche, specifiche merceologiche, ambientali, ecc.) che richiedono tempo e che non potevano che essere affrontati in sede di  “procedure di regolamentazione”, ex paragrafo 2, art. 6,  cit.

 

Si capisce, allora, perché i “criteri” (di individuazione e/o attuativi delle condizioni) siano stati correttamente assegnati alla Commissione anche in ossequio al risalente principio secondo cui la nozione di rifiuto (e dunque del “momento” in cui esso cessa di esistere: end of waste status) è riservata, per ovvi motivi di unicità del mercato europeo, alla definizione degli Organi dell’U.E. (come  interpretata dalla Corte di Giustizia).

 

Par. 3. Le “condizioni” connotative della categoria: esterne ed interne alla attività di recupero.

 

Quanto alle quattro “condizioni” poste dall’art. 6, par. 1, lett. a)-d),  esse sono chiaramente ripetitive, anche se in forma estremamente sintetica, dei principi rintracciabili, con varietà di accenti, nelle motivazioni della C.G.C.E. per verificare, caso per caso, che il materiale, ancorché derivante da un’attività di recupero, non venga fatto oggetto, successivamente, di operazioni di “disfarsi” e pertanto non sia abbandonato o smaltito ma impiegato “comunemente” come “materia seconda” (in luogo di quella vergine), per “scopi specifici” (cioè già noti e individuati): v. condizione n. 1.

 

L’esistenza delle m.p.s. richiede e presuppone un loro “mercato” (interno o comunitario o di paesi terzi) che le conosce e le utilizza ovvero, comunque, una domanda (le due condizioni non sono necessariamente coincidenti, in una situazione data). Da quest’ultima condizione (n. 2)  resta rafforzata la tesi, da tempo sostenuta, secondo cui la m.p.s. può essere impiegata direttamente dal suo produttore ma più spesso, esitata sul mercato per essere ceduta a terzi.

 

Le descritte condizioni si collocano - logicamente e di fatto - all’esterno delle operazioni di recupero ma restano comunque ineludibili (anche se non costitutive della nozione).

 

Le altre due condizioni richiamano e condensano, in poche battute, la giurisprudenza dell’U.E. la quale, con eccessive “variazioni sul tema”, mirava ad assicurare, in via preventiva, che la m.p.s. rispondesse a determinati requisiti  merceologici e di qualità (tanto da poter assicurare un impiego equipollente a quello della materia prima primaria) e che detto utilizzo non comportasse effetti negativi sull’ambente e la salute.

 

Da questi “arresti” giurisprudenziali deriva dunque il requisito secondo cui  le m.p.s. devono “corrispondere a prefissati standard tecnici e merceologici (condizione n. 3) e non comportare un impatto complessivamente negativo sull’ambiente o sulla salute umana (condizione n. 4).

 

Queste condizioni vanno proiettate all’interno dell’attività di recupero la cui esecuzione e la cui intensità/efficacia rappresentano, di volta in volta, il mezzo e la garanzia di raggiungimento dei requisiti merceologici (standard/specifiche) e di qualità ambientale. Esse assumono dunque carattere costitutivo della nozione, rispetto alle prime due che, seppure indefettibili, restano estrinseche ed occasionali (la m.p.s. ottenuta dal recupero, riveste i requisiti di legge ma, per una temporanea assenza di domanda o per una imprevista chiusura del suo mercato, non può essere commercializzata e dunque deve essere destinata allo smaltimento o ad un successivo trattamento per una diversa finalità di recupero).

 

Trattasi di criteri da tempo noti per i quali le vere difficoltà non risiedono tanto nelle “stanze” del legislatore (che, da tempo, li ripete agevolmente, con estrema facilità e sovrabbondanza di attributi) quanto negli uffici degli organismi tecnici sui quali grava il difficile ed oneroso compito di individuare, per ciascuna tipologia di rifiuti (da trattare a fini di recupero”) quali siano, in concreto, i “giusti e condivisi” standard tecnici e merceologici (cioè gli attributi ambientali e di qualità del materiale) e come tradurre, in termini quantitativi e qualitativi (calcolabili e verificabile con la dovuta certezza) gli effetti (ragionevoli e sostenibili) di “impatto.. complessivamentenon negativi…” (formula  ellittica e per ciò stesso oscura, tutta da chiarire….!).

 

E’ appena il caso di aggiungere che le quattro condizioni – come specificate dai correlati “criteri” - devono essere rispettate congiuntamente e non in via alternativa, com’è ormai noto, alla stregua di quegli orientamenti interpretativi della giurisprudenza comunitaria che le hanno, in via pretoria, individuate singolarmente (peraltro di scarso aiuto, per la eterogeneità degli indirizzi, a fronte della solo apparente e formale omogeneità delle motivazioni che, pur richiamandosi l’un l’altra, arrivavano sovente a conclusioni assai divaricate).

 

Così come, rispetto a tali “condizioni e criteri”, è sin da ora immaginabile una varietà di tipologie di rifiuti, suscettibile di rispettarli, numericamente indefinita nel tempo e non individuabile o definibile al presente, in considerazione dell’evoluzione tecnologica dei trattamenti e delle esigenze mutevoli del mercato del recupero e del riciclo.

 

3. 1.  Ancora sulle “condizioni” e “criteri specifici”. Possibile contenuto della norma di attuazione.

 

Il paragrafo primo dell’art. 6 - che correla e subordina le attività di recupero (un tempo avremmo detto “completo”)[22] alla ricorrenza di determinate condizioni e criteri specifici, salvo il regime transitorio di cui si dirà, non pone problemi particolari di trasposizione, per due ragioni distinte.

 

Quanto alle “condizioni”, perché sarà sufficiente al legislatore riprenderle e riprodurle, di sana pianta, nella norma interna, senza alcun intervento aggiuntivo, trattandosi di presupposti che, seppure inseriti ex novo, rappresentano la formale codificazione di principi di origine giurisprudenziale già noti al Governo che li aveva sostanzialmente inverati nella sua legislazione, anteriore e vigente (v., da ultimo, gli artt. 181, poi abrogato, e 181 bis, T.U.A.)[23].

 

Non sfugge, peraltro, che queste “condizioni” risultano estremamente scarne ed ellittiche e che - pur essendo destinate, in futuro, ad essere “circostanziate” dai criteri della Commissione - mostrano d voler comunque rimuovere (o fare a meno, perché non ritenuti coessenziali alla individuazione della categoria giuridica) molti presupposti o vincoli che la giurisprudenza, alimentata da una parte della dottrina, allarmata (a sua volta) da una diffusa illegalità, aveva imposto anche al legislatore interno.

 

Così, per es., non si fa cenno nell’art. 6:

 

a)     “alla individuazione della provenienza del rifiuto” (v., invece, la lett. b) dell’art. 181, bis), mentre si evidenzia, la necessità di uno “scopo specifico” (destinazione di impiego) e “di un mercato o di una domanda per tale sostanza” (lett. a) e b) del paragrafo 1). Se ne potrebbe dedurre che, quando si rispettino i requisiti tecnici della lett. d), del comma 1, potrebbe non apparire necessaria la ricerca dell’originaria provenienza del rifiuto da recuperare (senza dire delle difficoltà e dei costi di questa ricerca nell’ambito del commercio interno o comunitario);

 

b)     all’utilizzo diretto da parte del produttore/recuperatore, proprio perché la m.p.s. può essere destinata al mercato o soddisfare la domanda di terzi;

 

c)      alla predisposizione di una prova certa, anticipata o contestuale alla sua produzione, per garantire, da subito, la verifica dell’effettivo utilizzo; sembrerebbe, infatti, garanzia sufficiente la presenza di un mercato o di una domanda e il raggiungimento di requisiti tecnici e merceologiche che derivano da più o meno onerosi trattamenti i quali conferiscono al materiale un valore economico di cui nessuno, verosimilmente, è disposto a privarsi o a disperdere;

 

d)     all’immediato utilizzo (o in termini comunque brevi), sia in considerazione dei tempi tecnici, commerciali e di mercato, che intercorrono fra la produzione di un bene (quale la m.p.s.) e il suo concreto acquisto per l’impiego, nel vasto mercato unico europeo; sia perché nessun criterio predefinito risulterebbe idoneo e ragionevole a ricomprendere la molteplice casistica  del mercato e dei suoi tempi tecnici di contrattazione e vendita;

 

e)     al valore economico della m.p.s. sia per la difficoltà, in alcuni casi, di effettuarne un calcolo, in termini numerici/ quantitativi, sia  perché è parso sufficiente il requisito dello scopo specifico, cui è destinato il bene, e della esistenza di una domanda o mercato (anche ai fini di tutela ambientale, garantiti dal requisito sub d) – sugli impatti complessivi negativi -   secondo una formula da esplicitare, di volta in volta, con gli emanandi  “criteri” del par. 2).

 

In definitiva, le rilevate differenze fra le scelte del più recente legislatore comunitario e quelle operate dall’art. 181 bis, inducono a concludere nel senso che la trasposizione dell’art. 6 comporterà una necessaria abrogazione della norma interna, oltre che una riscrittura delle prescrizioni attuative, fatto salvo il regime transitorio fondato sui  commi 4 e 5 di quest’ultima.

 

Per i “criteri specifici”, stante la competenza esclusiva dell’U.E. e la loro  attuale assenza, non sarebbe, in alcun modo, legittimo anticiparli o definirli in luogo della Commissione. Salvo ad individuare, fin da ora e in via transitoria (v. retro)[24], dei criteri, a livello nazionale per singoli casi (cioè per singole tipologie: per es. rifui metallici, di vetro, di gomma, cartacei, ecc.), in forza della stessa previsione comunitaria del par. 4, dell’art. 6.[25]

 

Merita osservare, piuttosto, che la approssimata descrittiva di tali “condizioni” – che risultano non applicabili per come genericamente formulate - si supererà quando esse verranno dettagliate, come indicato, tramite l’adozione dei “criteri” suddetti, dalla Commissione (assistita da un Comitato e  in base alle procedure di cui all’art. 39, della direttiva) la quale è chiamata a conformarsi ad esse (condizioni) e a renderle operative.

 

Questi “criteri” fisseranno verosimilmente:

 

-          i settori commerciali e gli scopi, cioè la destinazione delle m.p.s. (v. lett. a);

-          l’area di mercato o degli acquirenti del materiale (v. lett. b) e dunque la “domanda” ovviamente di terzi, rispetto al produttore di m.p.s.;

-          le specifiche tecniche e i requisiti merceologici del materiale cioè la normativa e gli standard da rispettare per i prodotti ottenuti dal recupero (lett. c);

-          in quali termini e con riferimento a quali settori - della normativa ambientale e di tutela della salute - andranno misurati, ammessi o vietati gli “impatti complessivi negativi, derivante dall’impiego” delle m.p.s./prodotti (v. lett. d);

-          i valori limite eventualmente da imporre alle sostanze inquinanti presenti nelle sostanze o nei  prodotti, ottenuti dal recupero, tenendo conto dei loro possibili effetti negativi (ultima proposizione della lett. d) .

 

Potrà, pertanto, congegnarsi una norma di attuazione, in cui si espliciterà, in base al chiaro tenore dei parr. 1 e 2 dell’art. 6[26], che le operazioni di recupero dovranno rispettare le “condizioni” menzionate, come specificate dai “criteri conformi” che la Commissione si accinge ad elaborare.

 

Questi ultimi terranno conto dei profili appena sopra elencati, assicurando una corsia privilegiata ad alcune tipologie di rifiuti che danno maggiori garanzie di sicuro riutilizzo e di cui il mercato ha più urgente necessità di disporre.

 

In conclusione, la norma nazionale preciserà che l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1, dell’art. 6, volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale, sono stabiliti a livello comunitario. Essi includono, se necessario, i valori limite per le sostanze inquinanti presenti nella sostanza od oggetto, tenendo conto di tutti i suoi possibili effetti negativi sull’ambiente.[27]

3.2.  Materie prime secondarie da privilegiare.

 

Merita aggiungere, per completezza, che, nell’ambito della categoria generale dei rifiuti recuperabili come m.p.s. o prodotti - cui allude il primo paragrafo dell’art. 6, con l’espressione “taluni rifiuti speciali” – il paragrafo successivo (secondo) mette in evidenza alcune specifiche categorie per le quali, in sede comunitaria, per ragioni di importanza, non pericolosità e sperimentata sicurezza del relativo mercato, si sollecita la adozione di detti “criteri”.

Si tratta degli aggregati, dei rifiuti di carta e di vetro, dei metalli e pneumatici nonché dei rifiuti tessili, di cui si auspica il recupero, con priorità cronologica, anche se in termini meno ampi di quelli indicati nella prima parte, del primo alinea, del considerando 22, del seguente tenore:

 

“ eventuali categorie di rifiuti per le quali dovrebbero essere elaborati criteri e specifiche volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale, sono fra l’altro, i rifiuti da costruzione e da demolizione, alcune ceneri e scorie, i rottami ferrosi, gli aggregati, i pneumatici, i rifiuti tessili, i composti, i rifiuti di carta  e di vetro”).

 

Sotto altro profilo, i rifiuti che diventano prodotti, per effetto di operazioni di recupero - secondo i criteri di “precedenza” appena indicati - non verranno più considerati tali (rifiuti) anche ai fini degli obiettivi di recupero e di riciclaggio previsti da specifiche direttive, come sottolinea, quasi pleonasticamente, il par. 3 dell’art. 6, la cui trasposizione non desta alcuna difficoltà.

 

In definitiva, quest’ulteriore previsione appare il logico corollario dell’avvenuto  mutamento di qualifica del rifiuto il quale, divenuto m.p.s. o prodotto, non potrà più essere previsto dalle prescrizioni di settore e dalle politiche di promozione del recupero e del riciclaggio (appunto) dei rifiuti e non del materiale che non è più tale.

 

 

4. Specificazioni sul “riciclaggio” e “preparazione”, come attività di recupero.

 

Dovendosi richiamare, in esordio alla futura norma interna di attuazione, la nozione di riciclaggio, sarà opportuno fornire qualche ulteriore approfondimento, partendo dall’art. 3, paragrafo17, della direttiva, che colloca tale condotta nella più ampia nozione di “recupero”[28] (v. par. 15 dello  stesso articolo), in questi termini:

 

“ riciclaggio, qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il ritrattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento”.

 

In questa definizione comunitaria si registra, all’evidenza, un allargamento della portata semantica del termine riciclaggio che, in senso stretto, dovrebbe riferirsi solo alla reintroduzione di determinati residui nel ciclo produttivo di provenienza (micro-riciclaggio: per es. residui di vetro nelle vetrerie; i rifiuti della carta che vengono riciclati dalle cartiere, ecc.) ovvero nel ciclo produttivo di terzi (per es., quanto al macro-riciclaggio, si pensi ai  giornali e imballaggi di carta che ritornano, tramite una organizzazione tecnico-commerciale molto articolata, alle cartiere).

 

Nel punto 17 dell’art. 3, cit. si parla, invece, di “rifiuti che sono ritrattati per ottenere prodotti”, cioè ci si riferisce ad un vero e proprio “processo di trattamento “ (in inglese si ricorre a verbi più espressivi come “reprocessed” o “reprocessing”) che denota un intervento, di per sé, assai più drastico o spinto che incide, appunto, sull’identità del materiale e che veniva descritto, sino ad oggi con la formula di “operazioni di recupero completo” (formula abbandonata dal p. 15 dell’art. 3 cit. che si riferisce al solo termine “recupero” – senza attributi - estendendolo alla “preparazione per il riutilizzo”).[29]

-  la “preparazione” per il riutilizzo.

 

Fra le operazioni di recupero va annoverata la “preparazione per il riutilizzo”, come definita dal p. 16, dell’art. 3 della direttiva che detta:

 

- “preparazione per il riutilizzo: le operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti - diventati rifiuti - sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento.

 

Questa attività, definita come “preparazione”, cade, dunque, su un rifiuto il quale, per venire “riutilizzato”, necessita di essere “preparato”. Sulla portata di questa nozione (di preparazione) - che si presenta di specie rispetto a quella, di genere, costituita dalle attività di “recupero” (p. 15, stesso articolo) - la norma fornisce alcune esemplificazioni, affidate ai seguenti termini: “operazioni di controllo, pulizia, riparazione” (checking, clearing or repairing).

L’elemento testuale e quello logico-sistematico consentono di affermare che il termine denota interventi limitati e superficiali rispetto ai trattamenti recuperatori, veri e propri (alias “completi”), che, invece – per definizione - incidono profondamente sulle caratteristiche (o identità) merceologica e chimico-fisica della sostanza o materiale (le c.d. trasformazioni preliminari o operazioni di recupero completo[30], secondo il lessico e la logica della precedente e recente normativa e  giurisprudenza).

 

Se dunque è questa la portata della nuova categoria giuridica (di preparazione), si può affermare che l’assimilazione di attività di semplice “pulizia, controllo  e riparazione” agli interventi di “trattamento recuperatorio” (come sopra indicato), appare una rilevante scelta normativa di non facile decifrazione.

La quale, se applicata in modo superficiale e meccanico, porterebbe ad una indebita oltre che irragionevole dilatazione della nozione di rifiuto estesa ad oggetti o beni ovvero prodotti usati che restano tali (beni o prodotti) anche se necessitano di operazioni di…. pulizia, controllo, riparazione!

 

Peraltro il contenuto della norma appare testualmente inequivocabile: “prodotti o componenti di prodotti diventati  rifiuti” – che tornano ad essere prodotti o componenti di prodotti - in quanto “…. preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento (che non sia il controllo, la pulizia, ecc.).

 

Questa innovativa ed inedita formulazione, comunque, mi sembra significhi  almeno due cose:

 

-  la “preparazione” deve cadere su rifiuti, cioè su sostanze od oggetti che già soddisfano tale qualifica (perché di norma, la pulizia, il controllo o la riparazione interessa anche i beni o prodotti. Esemplificando:  il meccanico ripara una vettura usata o danneggiata che è un bene; il tecnico controlla e pulisce un apparecchio usato che resta un bene ancorché bisognoso di riparazione, ecc. );

 

-  il “reimpiego” – dopo la preparazione dei rifiuti - presuppone che essi siano ri-diventatiprodotti o componenti di prodotto” tanto da poter essere “riutilizzati” tal quali (così come preparati: v. punti 16 e 13 dell’art. 3 ).

 

I sostantivi  riutilizzo e reimpiego (e i corrispondenti verbi), secondo il lessico della direttiva, riguardano sempre un  bene che non è più rifiuto (v. art. 3, p. 13). Leggendo, in contestualità, i punti 16 e 13 dell’art. 3 (di definizione della nozione di riutilizzo”), apprendiamo che il significato del termine riutilizzo coincide, da un punto di vista semantico e giuridico, con la parola “reimpiego” e pertanto, e conclusivamente:

 

a)       le attività di “preparazione”, come sopra indicate, trasformano il rifiuto in prodotto che, successivamente, verrà utilizzato (“reimpiegato”) “.. per la stessa finalità per la quale era stato concepito” (attenzione: stessa finalità non comporta stesso processo produttivo di provenienza e stesso soggetto ma anche processi produttivi di terzi che utilizzano detto materiale per gli stessi fini per i quali erano stati concepiti);

 

b)       sul piano concettuale e qualificatorio, la categoria giuridica di “riutilizzo”, nella attuale accezione comunitaria, fuoriesce dalla nozione di “attività di recupero”, in senso tecnico (p. 15 dell’art. 3), perché afferisce alle operazioni di reimpiego di una sostanza che è già divenuta prodotto (perdendo la qualifica di rifiuto, essendo stata “preparata al riutilizzo”);

 

c)       sarebbe pertanto erroneo richiamare “il riutilizzo” fra le operazioni di recupero di cui all’art. 6, come era un tempo: v. art. 3, par. 1, lett. b), i, della direttiva 91/156/CEE, che definisce il “recupero mediante (operazioni di) ”riciclo, reimpiego, riutilizzo o ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie”;

 

d)       la conferma che una semplice operazione di “controllo” può assurgere, ai sensi dell’art. 6,  a operazione di recupero, sub specie di “preparazione”, la si rintraccia anche nella seconda parte dell’ultimo alinea del “considerando” 22, dove si evidenzia che:

 

- “ Per la cessazione della qualifica di rifiuto, l’operazione di recupero può   consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale”.

 

Ma, a questo punto, potrebbe sorgere il dubbio che, con la descritta nuova categoria giuridica della “preparazione”, si restringa indirettamente e drasticamente (o si cancelli affatto) la nozione, per es., di riutilizzo di una materia prima secondaria “fin dall’origine” cioè di un reimpiego di una sostanza o prodotto “tal quale” che, pur potendo comportare un’azione di controllo o di pulizia, non deve considerarsi, nell’attuale regime giuridico, “operazione di recupero” (da sottoporre a procedura autorizzatoria ordinaria o semplificata).

 

In definitiva, letto (e trasposto) nel senso indicato, l’art. 6, con riferimento alla “preparazione per il riutilizzo”, sembra presentarsi come una previsione di maggiore severità rispetto al passato proprio perché qualifica - come “attività di recupero” del rifiuto (assoggettandola al relativo regime giuridico di assentimento) - degli interventi di estrema modestia e superficialità che, nell’attuale sistema, possono qualificarsi come trattamenti che rientrano “nella normale pratica industriale” e che interessano tanto i  sottoprodotti - derivanti dall’attività di produzione - ex art. 5, par. 1, lett. b)  che  le materie prime secondarie, fin dall’origine[31] - che derivano da attività di consumo -  come, infine,  le  “materie prime primarie” (o “vergini”).

 

Salvo a ritenere  che la nozione di m.p.s. fin dall’origine  dovrà essere cancellata nel nuovo sistema, a regime, per essere sostituita da quella relativa ai rifiuti che, per essere recuperati, abbisognano unicamente della “preparazione”, cioè del controllo o pulizia (per essere  trasformati in materie seconde).

 

Il risultato, ai fini del successivo utilizzo, è  economicamente e giuridicamente  lo stesso ma altrettanto non si può dire per il tempo e le operazioni che precedono la “preparazione” (raccolta, trasporto, stoccaggio, ecc.). Se oggi dette fasi - riguardando una m.p.s. o un prodotto fin dall’origine – sono sottratte alla normativa sui rifiuti, prossimamente le stesse operazioni, anteriori al “controllo, pulizia” e riparazione, ricadranno nella disciplina dei rifiuti (ed ai relativi oneri economici, burocratici, ecc.).

 

Resta da osservare, infine, che, nelle forme più attenuate (per es. di controllo e pulizia), il recupero sotto forma di “preparazione” non dovrebbe subire, secondo principi noti di  proporzionalità e di uguaglianza (nel senso peculiare di assicurare trattamenti diversi per situazioni distinte o non omogenee), lo stesso regime amministrativo e penale, ordinario o semplificato, cui viene sottoposta l’attività di “recupero con trattamento” (come il riciclaggio) essendo marcatamente dissimili gli “interventi tecnici” sul rifiuto nelle due fattispecie (molto spinto, nel riciclaggio, ovvero pressoché inesistente nel “controllo”) e sostanzialmente differenziate le problematiche (di natura tecnica o ambientale) connesse al risultato di detti interventi.

 

Questa realtà inconfutabile dovrà pertanto indurre il legislatore nazionale a calibrare i regimi giuridici del recupero (vero e proprio e non) introducendo, per le operazioni di “preparazione” una normativa amministrativa e tecnica speciale che faciliti e incrementi le attività di “controllo, pulizia e riparazione”, ex art. 11 della direttiva, e risulti ancor più agevole di quella introdotta per le procedure semplificate (di cui all’art. 214 e 216 del T.U. ambientale).[32]

 

5. Vuoto normativo e regime transitorio.

Premesso, in via generale, che la normativa nazionale preesistente, non è stata e non può essere in alcun modo interessata direttamente (modificata o abrogata) dall’art. 6, della direttiva 2008/98, perché quest’ultima fonte non ha alcun effetto diretto sugli ordinamenti interni (trattandosi di direttiva “classica”, non self-executing e dunque non idonea ad abrogare le disposizioni nazionali sulle m.p.s. (che, pertanto, verranno modificate o abrogate solo a partire dalla approvazione della legislazione interna di trasposizione della fonte comunitaria).

 

Ne deriva che le attuali previsioni sulle m.p.s. (art. 181 bis) restano pienamente in vigore, vigenti e vincolanti sino a quando non vengano sostituite - non dall’art. 6 della direttiva ma - dalla legge interna che attua  questa disposizione[33].

 

Né, sulla stessa questione, potrebbe ipotizzarsi che, in ragione della competenza normativa riservata agli Organi comunitari dall’art. 6, nei termini indicati sopra, risulterebbe carente di fondamento legislativo qualsiasi attuale definizione statale delle m.p.s. -  come quella già formulata, in Italia, con l’art. 181 bis - con la ulteriore corollario, secondo cui, allo stato, in mancanza dell’intervento comunitario di definizione dei “criteri”, i partner europei potrebbero solo decidere caso per caso, ai sensi del paragrafo 4 dell’art. 6, quale materiale possa qualificarsi “materia prima secondaria”, provvedendo a notificare le proprie determinazioni alla Commissione.

 

Si è già chiarito, sopra (a par. 2), che la nozione in esame (di m. p. s.)  era già presente nelle precedenti direttive (a partire da quella n. 75/442) e che il legislatore nazionale, nel momento in cui l’ha formalizzata, nella propria disciplina interna, si è limitato a dare attuazione ad alcuni principi in esse espressi (o da esse desunti dalla Corte di Giustizia)[34], con qualche forzatura o anticipazione….. Sicché l’attuale direttiva del 2008 va letta e interpretata come una fonte di diritto derivato che, subentrando a quelle precedenti, riprende, ratifica e disciplina espressamente questa nozione, con effetto abrogativo delle disposizioni passate, ex art. 41, obbligando gli Stati membri alla sua trasposizione, con effetto modificativo e/o caducatorio della legislazione interna previgente.

 

Quanto alla previsione del paragrafo 4, dell’art. 6 - che consente agli Stati membri di individuare, caso per caso, altre m.p.s., prima e dopo la individuazione dei “criteri” dei commi 1 e 2 (v. oltre) - essa non è nuova in questa materia come accennato (ma vedi anche infra) e, comunque, non modifica i principi che sovraintendono al  corretto rapporto fra i due ordinamenti (comunitario e nazionale). In forza del quale, anche se l’attuale art. 181 bis fosse in rotta di collisione con l’art. 6 della direttiva - e non sembra che lo sia, in senso sostanziale, benché dovrà cedere il passo alla norma di trasposizione di quest’ultimo, in ragione delle significative novità e “alleggerimenti” introdotti, sopra registrati -, esso resta in vigore ed è vincolante per i cittadini italiani sino a quando non sia modificato dalla norma interna (che dà attuazione all’art. 6, non auto-applicativo) o dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale.

 

La definizione di m.p.s. della norma comunitaria, ex par.1 (e quindi della futura norma di attuazione che sarà tenuta ad assumere identica portata) è già concettualmente compiuta  e definitiva nell’ordinamento dell’U.E. e produce alcuni effetti negli ordinamenti interni, sotto i profili indicati (v. retro par. 2.2) –  nell’ambito del diritto transitorio, come a regime definitivo - sia in assenza dei “criteri” di individuazione (come ora) sia, successivamente, in presenza degli stessi, per intervento della Commissione, la  quale sarà tenuta a  specificare - e non contraddire - “le condizioni” del par.1.

 

E tanto vale anche con riferimento al distinto - ma omologo - rapporto fra la norma italiana, di attuazione dell’art. 6 sulle m.p.s., e i futuri “criteri” ministeriali, che ovviamente dovranno essere conformi ai (cioè recepire i) “criteri” posti dalla Commissione U.E.

 

Quest’ultima, infatti, non può modificare la definizione (e relative condizioni) di m.p.s. del paragrafo 1 (dell’art. 6), nel fissare i criteri tecnici afferenti ciascuna “condizione” (che resta pertanto immutata nell’ambito di una categoria unitaria di m.p.s.).

 

Ove tali “criteri” si allontanassero o contraddicessero il contenuto o la “ratio” di queste “condizioni”, essi sarebbero illegittimi (tanto vale anche nel rapporto fra “criteri” ministeriali e definizione di m.p.s. della norma nazionale).

Par. 5.1. La riscrittura della norma statale.

 

I sottolineati profili di novità dell’art. 6 - in termini di riconoscimento formale della categoria giuridica delle m.p.s.  e di  riserva di competenze (a regime) esclusive, in capo alla Commissione, della elaborazione pregiudiziale e ineludibile dei “criteri” di specificazione delle “condizioni” poste al recupero dei rifiuti - costituiscono i presupposti per una sostanziale riscrittura della normativa  nazionale (primaria e regolamentare) da parte degli Stati membri, peraltro da integrare alla luce dei futuri “criteri” comunitari (fatto salvo il diritto transitorio).

 

L’attuale situazione – di entrata in vigore della direttiva e di prossima scadenza dell’obbligo  di trasposizione - crea un dovere di comportamento del legislatore interno che andrà esplicitato, nei termini indicati, ex art. 40, in relazione a due punti:

 

a) per il primo, si dovrà prevedere un impegno del Governo - da assolvere entro termini normativamente determinati (e brevi) -  di recepire tutti “i criteri” (non appena) adottati dalla Commissione (volti ad inverare le “condizioni” per la “cessazione della qualifica del rifiuto) al fine di conformare la propria disciplina interna (soprattutto regolamentare) alle nuove prescrizioni comunitarie sulle “materia prime secondarie” (v. retro par. 2.2.)[35].

 

La pre-determinazione di un termine riveste, all’evidenza, la finalità di sollecitare i Ministri competenti a ricercare il concerto per l’emanazione dei decreti attuativi delle norma primaria di trasposizione dell’art. 6. Peraltro la data iniziale di decorrenza dell’obbligo governativo resta incerto in quanto non si possono prevedere, allo stato, i tempi di elaborazione e determinazione dei menzionati “criteri” in sede U.E.

 

b) per il secondo, sarà doveroso assicurare al mercato interno (e, complessivamente,  comunitario) il mantenimento  in vita delle normative nazionali sul recupero dei rifiuti per ottenere m.p.s., attualmente vigenti, per evitare le conseguenze economico-commerciali e occupazionali conseguenti ad un arresto o soluzione di continuità di questo rilevantissimo settore industriale e commerciale  (il quale ovviamente non può subire interruzioni in attesa che si perfezioni la nuova regolamentazione nei due tempi indicati: intervento comunitario sui “criteri” e recepimento statale dei medesimi).

 

Anche perché le previsioni dell’art. 6 (come le prescrizioni sulle “condizioni” e ed “i criteri” futuri) non sono immediatamente efficaci e vincolanti negli ordinamenti  degli Stati membri e dunque non hanno effetto abrogativo e/o modificativo della loro normativa interna, come accennato, in quanto inserite in  una “direttiva classica”, fonte di per sé non auto-applicativa (o self-executing).

 

Occorre pertanto congegnare una disposizione attuativa[36] della norma comunitaria, in esame, che soddisfi queste due esigenze ineludibili:

 

- dare tempestivo recepimento ai futuri “criteri” dell’U.E., ponendo un termine breve al Governo e prima ancora: ;

- mantenere in vita – in via transitoria - la disciplina interna, anche tecnica, attualmente vigente che, a sua volta, verrà modificata e/o integrata e/o abrogata dallo stesso Governo, nel momento in cui assolverà al dovere di conformarsi ai “criteri” comunitari, di cui alla lett. a).

 

Ciò comporta, a mio avviso,  che:

I) in una apposita previsione, si introdurrà un obbligo, a carico del Governo (in persona del ministro competente), da sottoporre a un termine di adempimento, per l’adozione di uno o più decreti di recepimento dei “criteri” comunitari relativi, presumibilmente, ad una vasta gamma di tipologie di rifiuti (a partire, ci si augura, dagli aggregati, carta, vetro metalli, ecc.). Con eventuale potere sostitutivo del Consiglio dei Ministri, in caso di inadempienza al termine fissato, analogamente a quanto disposto dal comma 5, dell’art. 181 bis;

 

 

II) con un distinto e successivo comma, della stesso articolo,  si introdurrà un immediato regime transitorio - da rendere operativo dal momento stesso dell’entrata in vigore della norma di trasposizione dell’art. 6, e dunque anteriore ai decreti interministeriali previsti dal punto precedente – che consenta di non interrompere o cancellare del tutto, il consistente e crescente mercato interno e comunitario delle m.p.s. e dei prodotti ottenuti dal recupero dei rifiuti (attivato, in Italia, e regolato a partire, quanto meno, dai primi anni ’90).

 

A tal fine, i Paesi europei sono implicitamente legittimati a mantenere in vita, per le ragioni accennate[37], “i criteri” (tecnici) già  adottati per regolare le attività di recupero dei rifiuti, in base alla stessa ratio comunitaria (condivisa dagli Stati membri e dalla U.E.) rappresentata dalla opportunità/necessità di non sospendere l’attuale, legittimo mercato delle m.p.s. e dei sottoprodotti sino a quando i preesistenti criteri nazionali non vengano, a seconda dei casi, confermati, modificati o abrogati da quelli futuri che gli Organi comunitari (Commissione e Comitato citt.) si accingono ad adottare, secondo le procedure poste dai parr. 2 e 4 dell’art. 6 e dall’art. 39 della direttiva, come recepiti dai singoli Stati.

 

Per il diritto interno, conseguentemente, continueranno ad applicarsi le disposizioni del decreto ministeriale 5 febbraio 1998, come modificato dai decreti 9 gennaio 2003, 27 luglio 2004, 5 aprile 2006, n. 186, relativi al recupero dei rifiuti non pericolosi, sottoposti a procedure semplificate, ai sensi degli articoli 214 e 216, nonché dei decreti ministeriali 12 giugno 2002, n. 161, 17 novembre 2005, n. 269, sul recupero dei rifiuti pericolosi, ammessi alle procedure semplificate[38].

 

6. La potestà  degli Stati membri di individuare “caso per caso” le m.p.s.

 

Il paragrafo 4 dell’art. 6[39] cit., va letto in correlazione a due diversi contesti normativi.

Il primo attiene alla menzionata fase transitoria che decorre dalla trasposizione della norma primaria (art. 6) nel nostro ordinamento, al momento in cui il Governo  procederà alla ricezione, con decreti ministeriali, dei  “i criteri specifici” relativi alle quattro “condizioni” menzionate dal paragrafo 1, seconda parte,  fissati dalla Commissione CE.

 

In  questa fase di transizione, dalla incerta durata (in attesa delle conclusioni delle “procedure di Comitato” ex art. 39 cit.), ragioni logiche e sistematiche (afferenti i rapporti fra Stati membri e U.E.) impongono, come rilevato sopra, il mantenimento delle normativa interna, di natura regolamentare, sul recupero dei rifiuti, pur a fronte di una nuova norma primaria sulle m.p.s. (di attuazione dell’art. 6) che va a sostituire, abrogandolo, l’attuale art. 181bis.[40]

Si è già detto che, in mancanza dei “criteri” comunitari – e in considerazione dell’inidoneità della direttiva a modificare le normative interne, primarie e secondarie/tecniche, vigenti -  la legislazione italiana sulle m.p.s. resta in vigore, in via transitoria, sino a quando non verrà modificata dallo stesso legislatore nazionale, in sede di trasposizione dell’art. 6 e di ricezione dei “criteri” di attuazione  (che renderanno concrete ed operative le quattro condizioni del par. 1, cit.).

 

In conclusione, il  regime transitorio, previsto dalla direttiva, consente – dunque - di conservare piena efficacia e conseguente applicabilità alle norme regolamentari sul recupero agevolato dei rifiuti sino a quando le prescrizioni ivi introdotte non debbano essere sostituite con altre, perché non più conformi ai diversi criteri comunitari (adottandi).

 

In questo spazio di tempo – indicato come regime transitorio –  i 27  Stati  membri sono facultati – dal paragrafo 4 in esame - a decidere, per casi specifici (id est: singole tipologie ), se un determinato rifiuto (ovviamente diverso rispetto a quelli già indicati come suscettibili di essere recuperati nella normativa interna preesistete, rimasta temporaneamente in vigore) abbia cessato o meno di essere tale, a seguito di operazioni di recupero.[41]

Nel secondo periodo, invece - connotato dalla trasposizione nel diritto interno dei “criteri” comunitari - non v’è dubbio che l’attività di recupero dovrà conformarsi ai principi di tipicità e tassatività esposti nel par. 3 e ss. (con rigoroso rispetto delle tipologie di rifiuti ammessi e delle condizioni imposte dalla Commissione, come attuate dai decreti ministeriali), fatta sempre salva la potestà riconosciuta allo Stato membro, dal paragrafo 4, dell’art. 6. Quest’ultimo paragrafo, infatti, sebbene nel suo incipit, mostra di riferirsi al primo periodo (transitorio) nondimeno, per i principi giuridici cui si ispira[42], appare idoneo a ricomprendere situazioni che ricadono anche nella fase successiva di funzionamento del sistema “a regime”.

 

Quando, cioè, finita la fase intermedia descritta, la Commissione CE abbia fornito “i criteri” per una vasta categoria di rifiuti (consentendo agli ordinamenti statali  di conformarsi ad essi, con gli effetti modificativi del diritto interno accennati). Criteri,   comunque, che non saranno mai, per intuibili ragioni - dovute all’evoluzione delle tecnologie e del mercato - esaustivi rispetto alla indefinibile gamma di rifiuti (da consumo) suscettibili di recupero, riciclaggio, preparazione al riutilizzo…

 

Ne segue, logicamente che, anche nel sistema a regime, successivo alla prima attuazione dell’art. 6, ogni singolo Stato conserverà la potestà di “…decidere, caso per caso”, se una determinata tipologia di rifiuti, da individuare, ex novo (rispetto a quelle già regolate con i “criteri” comunitari), possa essere recuperata e diventare “m.p.s.”, secondo criteri, posti dall’ordinamento nazionale (e dunque non ancora adottati o riconosciuti dall’U.E.) da “notificare alla Commissione”, in base alle procedure fissate dalla direttiva 98/34/CE (v. ultima parte del par. 4 dell’art. 6).

 

In conclusione, per il primo come per il secondo periodo, si potrà introdurre una disciplina che riconosca la competenza del Ministro dell’ambiente, in concerto con altri ministri competenti, di determinare con legge o decreto, per ogni singola tipologia ed  in conformità e nei limiti previsti dall’art. 6, par. 4, quando un determinato tipo di rifiuto ha cessato di essere tale, a seguito di un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, in riscontrata assenza dei criteri stabiliti, per quest’ultimo, a livello comunitario.

 

Ovviamente al decreto ministeriale sarà applicata la procedura di notifica prevista dalla  direttiva 98/34/CE,  del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998” [43]

 

In conclusione, va tenuta distinta:

 

a) la fattispecie in cui si presuppone che la Commissione abbia stabilito i “criteri” di specificazione delle “condizioni” per una vasta categoria di rifiuti e, di conseguenza, gli Stati membri procedano, con riferimento a dette categorie, a regolamentare, ex novo, la disciplina interna (preesistente) del recupero dei medesimi rifiuti, conformandosi ad essi criteri;

 

b) da quella in cui si riconosce, in via generale e in ogni tempo, ex paragrafo 4, dell’art. 6, che lo Stato membro possa decidere, caso per caso (per una tipologia specifica) che, a seguito di determinate operazioni, un particolare rifiuto cessi  di essere tale per diventare m.p.s., pur in assenza di “un criterio comunitario” previsto appositamente  per esso.[44]

 

In tale ultima situazione, la direttiva riconosce allo Stato membro tale potestà (“possono”), in deroga alla esclusiva competenza comunitaria, in materia, ex parr. 1 e 2 dell’art. 6, a due sole condizioni:

 

a) “tenendo conto” della giurisprudenza applicabile” della Corte di Giustizia, al fine di una sostanziale uniformità tra le normative tecniche degli Stati membri, stante l’unicità del mercato unico (in cui devono essere evitate discipline tecnico-giuridiche diversificate  idonee a creare distorsioni della concorrenza);

 

b) notificando tale decisione alla Commissione, per un duplice scoop: di controllo e per eventuali modifiche/integrazioni delle stesse prescrizioni tecniche della Commissione.

 

Peraltro la menzione della prima condizione (conformità alla giurisprudenza comunitaria) risulta inutile e pertanto non merita di essere inserita nel testo della norma di trasposizione del par. 4 dell’art. 6, in quanto siffatto obbligo è immanente (e dunque già presente) nell’ordinamento italiano (che deve conformare la sua normativa, anche tecnica, alle regole  ed ai principi dell’ordinamento comunitario, come enucleati dalla C.G.C.E, ex art. 11, Costituzione).

 

L’attuazione della direttiva, in esame, non potrà passare attraverso il decreto ministeriale di cui all’art. 181 bis comma 2, ma con il tramite di un decreto legislativo che dia attuazione alla direttiva - e, nello specifico, all’art. 6 – con riscrittura e abrogazione dell’art. 181bis, nei termini suggeriti.

 

In esecuzione, poi, della nuova norma nazionale sulle m.p.s., saranno adottati i nuovi decreti ministeriali di recepimento dei “criteri” posti dalla Commissione CE[45],  ferma restando la possibilità che, prima e dopo la fissazione dei criteri comunitari, lo Stato decida, tipologia per tipologia [46], “se un determinato rifiuto” – non ancora considerato dai “criteri” comunitari -  “abbia cessato di essere tale”, trasformandosi in m.p.s., per effetto di una attività di “recupero”.[47]

 

 

Prof avv.   Pasquale Giampietro

Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 


* Questo il tenore dell’ Articolo 6 (rubricatoCessazione della qualifica di rifiuto”)

 

“1. Taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi dell’articolo 3, punto 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici;

b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;

c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili  ai prodotti; e

d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.

2. Le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 39, paragrafo 2. Criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili.

3. I rifiuti che cessano di essere tali conformemente ai paragrafi 1 e 2 cessano di essere tali anche ai fini degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti nelle direttive 94/62/CE, 2000/53/CE, 2002/96/CE e 2006/66/CE e nell’altra normativa comunitaria pertinente quando sono soddisfatti i requisiti in materia di riciclaggio o recupero di tale legislazione.

4. Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove quest’ultima lo imponga”.

[1] La trasposizione di questa direttiva è contemplata dalla legge comunitaria del 2008 (l. n. 88/2009, come da All. B).  La sua  disciplina  è stata considerata, ai fini di una sua tempestiva attuazione,  da un apposito Comitato di studio, istituito presso il Ministero dell’ambiente  e della tutela del territorio e del mare,  investito del compito di riordinare, revisionare, ecc. le disposizioni del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. Si consideri, in proposito, che, con l’art. 12 della legge n. 69/2009, contenente  “Disposizioni per lo  sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, il Parlamento ha conferito al Governo la delega a emanare uno o più decreti correttivi del d. lgs n. 152/2006 cit., con scadenza 30 giugno 2010 (che anticipa la scadenza della legge comunitaria per l’attuazione della direttiva cit. prevista entro il 12 dicembre dello stesso anno).  Sul tema, v. F. Peres, Testo unico ambientale: quali possibili modifiche dopo la legge n. 69/2009?, in  Ambiente & Sicurezza, n. 20/2009, pag. 81.

[2] Con l’evidente novità di riservare tale compito di natura “tecnica”, per il futuro, alla Commissione CE, secondo la previsione espressa del par. 2, dell’art. 6, salvo le potestà conservate agli Stati membri, in forza e nei limiti segnati dal successivo par. 4. Su tutto ciò, v. oltre.

[3] Su questa problematica, mi permetto di rinviare a “La nuova gestione dei rifiuti” (a cura di P. Giampietro, Milano 2009). In precedenza, v., fra i primi, L. Ramacci, La nuova disciplina dei rifiuti, 2006, nonché i documentati e approfonditi lavori di: V. Pavone, La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti, Milano, 2008, P. Fimiani, La tutela penale dell’ambiente dopo il d. lgs n. 4/2008, Milano 2008; e da ultimo, le analisi specifiche del “Commento alla direttiva 2008/98/CE sui rifiuti, Milano, 2009 (a cura di F. Giampietro)  ed ivi esaurienti ragguagli  di giurisprudenza e dottrina coeva e anteriore.

[4] Secondo una “lettura” del tutto fuorviante, oltre che giuridicamente insoddisfacente, che trova la sua origine più autorevole nella sentenza della Corte di Giustizia 11 novembre 2004, in Causa C-457/02, non condivisibile per le ragioni esposte nella mia nota “Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto: l’interpretazione “autentica” per la CGCE” , in Ambiente e Sicurezza, n. 23/2004, pag. 22 e ss. Tale pronuncia  risulta peraltro superata dai successivi arresti della stessa Corte lussemburghese (su cui v. infra)  che riconoscono una piena autonomia giuridica e commerciale sia alle materie prime secondarie che al sottoprodotto – ricorrendo determinate condizioni - che devono circolare come “merce”, prima ancora del loro impiego per realizzare un prodotto finito. Mi chiedevo,  nella nota del 2004 cit., che “.. se quel materiale cessa di essere rifiuto solo al momento di trasformarsi “in prodotto finito” (come sostiene la Corte a punto 52 della motivazione), quale spazio giuridico (prima ancora che economico) sarebbe lasciato alla nozione “di materia prima secondaria” presente nell’ordinamento comunitario  e nazionale, con riferimento: al materiale riutilizzato tal quale (si vedano i punti 34/35, della sentenza Palin Granit); al prodotto ottenuto dalle attività di recupero, ai sensi dell’art. 3, punto 1, lett. b) ed i)  …. della direttiva 91/156 (in relazione al “recupero dei rifiuti mediante… ogni altra azione intesa ad ottenere materie prime secondarie” ; si veda, per l’ordinamento italiano, l’art. 3, D.M. 5 febbraio 1998)?”

E’ appena il caso di aggiungere, ora, che tale esperienza se, per un verso, ridimensiona la sostanziale novità dell’art. 6 (che mostra di ratificare quella realtà giuridica e di mercato), per altro verso, sospinge a verificare con quali limiti e in che termini essa è divenuta diritto positivo vigente nell’ordinamento comunitario ed, in particolare, se con finalità espansive o limitative.

[5] Cioè esplicitando formalmente una disciplina che aveva trovato già negli ordinamenti interni degli Stati membri dell’U.E. positivo riconoscimento. Intendo dire che la categoria giuridica della m.p.s. o materia seconda  è presente nel diritto positivo, non solo italiano, prima dell’introduzione dell’art. 6, della direttiva in commento. Essa era stata anticipata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito, a partire dal DPR. n. 915/1982 e, successivamente, affermata dalla stessa Corte di Giustizia, con qualche ritardo e incoerenza.

In proposito, per il diritto vigente, si vedano gli AA. cit. a nota 3 e, per una ricognizione della legislazione precedente, v. già: P. Giampietro, Il rifiuto, la materia seconda e la materia prima secondaria tra leggi-quadro e legislazione regionale”, in Riv. Giur. dell’Ambiente, n. 2/1989, pag. 259 e ss.; più di recente, Id., Rifiuti, sottoprodotti e m.p.s. nella nuova direttiva CEE, 2008 in www.ambientedirtitto.it

[6] Che non sono più sottoposte alla disciplina dei rifiuti.

[7] Mi sembra esplicitare bene questo concetto P. Fimiani, op. cit. 2008, pag. 141/142, quando evidenzia, a commento dell’attuale 181 bis T.U. ambientale che le m.p.s. costituiscono “.. il risultato finale di un’operazione di recupero di rifiuti” e tale risultato “cessa di avere tale qualifica (di rifiuto) per entrare a pieno titolo nel mondo delle materie prime a fini produttivi” (e dunque sono equiparate alle materie prime vergini  e ne seguono la disciplina: n. d. s.) “… e di commercializzazione” (e pertanto  circolano come le materie prime per essere commercializzate, prima del loro impiego nel prodotto finito, n. d. s.).

Con l’ulteriore specificazione che “le operazioni di riutilizzo” di cui al comma 1, lett. a) dell’art. 181,bis, sono operazioni di recupero di rifiuti (e pertanto assimilate “al riciclo e recupero”) e non vanno confuse “.. con le ipotesi di riutilizzo tal quale in cui non si è in presenza di un rifiuto, ma di un sottoprodotto”.

[8] Mutare cioè, nella emananda norma interna, la rubrica dell’art. 6, avrebbe, in sostanza, una sua ragionevolezza  perché la formula comunitaria (“Cessazione della qualifica di rifiuto”) risulta vaga e generica oltre che di segno negativo: evidenzia ciò che non è più rifiuto ma non indica, in positivo, che quella “sostanza od oggetto”, già qualificato rifiuto, a seguito di operazioni di recupero predefinite (v. oltre) diviene, secondo parametri giuridici e tecnici (con rilevanza economico-commerciale), “materia prima secondaria”, cioè “prodotti, materiali o sostanze” (ex  art. 3, p.17, della direttiva). Ovvero, e in una battuta, merce - come il “sottoprodotto” (secondo l’art. 5, della direttiva) - “… rientrando nella categoria dei prodotti” e seguendone la relativa disciplina (cfr., in tal senso,  il “considerando” 22).

[9] Tale operazione è omessa nel par.1 della direttiva, pur essendo annoverata fra le attività di recupero.

[10] Anche se, come si accennerà oltre, il concetto di “recupero” della nuova direttiva risulta, in alcune fattispecie, sostanzialmente “riconsiderato”, tanto da far assumere alla nozione una portata assai lata e onnicomprensiva che prescinde da un effettivo “trattamento”; in tema, v. F. Giampietro, Nozione di rifiuto, sottoprodotto e recupero, in Ambiente&Sicurezza, n. 11/2008, pag. III, dell’inserto.

[11] Più spesso  pronunciandosi  in favore del “sottoprodotto” e meno frequentemente della “m.p.s.”.

[12] Oltre che l’opportunità di una diversa titolazione della sua rubrica che si indirizzi direttamente ed esplicitamente alle “materie prime secondarie”, come auspicato sopra.

 

[13] Cfr. G. Tesauro, Diritto comunitario” ed.  2003, pag. 101 sul riparto delle competenze concorrenti fra U.E. e Stati membri, nel settore ambientale,  e sul principio di sussidiarietà.

[14] In buona sostanza, le “condizioni poste dall’art. 6, al par. 1, sub lett. a)-d), non fanno che riprendere e fare proprie, con un eccesso di sintesi  e di “minimalismo”, le circostanze e/o gli indizi e/o “i criteri  utili” su cui accertare, di volta in volta, la  ricorrenza delle m.p.s. o dei sottoprodotti (sul tema, si rinvia alle  accurate ricerche ed analisi di V. Paone, op. cit. e alla riassuntiva e “liberale” decisione di C.G.C.E. 24 giugno 2008, in Causa C- 188/07, in fattispecie di olii pesanti venduti come combustibili. Tale genericità delle “condizioni” sarà comunque “ridimensionata” dalle prescrizioni tecniche poste dai futuri “criteri” della Commissione, secondo le procedure del par. 2.

Anche il Giudice di legittimità e il Consiglio di Stato italiani hanno ravvisato, in alcune fattispecie, la sussistenza delle m.p.s., desunte, in via interpretativa, dalla nozione stessa di rifiuto, come riportato dagli AA. cit. a nota 3. Sulle novità della direttiva ed, in particolare, con riferimento alla nozione di recupero “completo” v. F. Giampietro, Nozione di rifiuto, sottoprodotto e recupero, in Ambiente&Sicurezza, n. 11/2008, cit.

[15] Il che non significa che l’art. 6 non sia vigente e vincolante sotto molteplici profili: v. oltre, par.3.

[16] E dunque al di fuori di ogni numerus clausus.

[17] V. P. Giampietro  “La nuova gestione… cit.”, 2009, pag. XIX della Introduzione.

[18] In proposito, si tenga presente quanto “preannuncia” il 47°considerando, in questi termini: ”… In particolare la Commissione ha il potere di stabilire criteri relativi a una serie di questioni quali le condizioni alle quali un oggetto deve essere considerato un sottoprodotto, la cessazione della qualifica di rifiuto e la determinazione dei rifiuti che sono considerati come pericolosi, nonché di definire modalità dettagliate di attuazione e di calcolo per verificare la conformità con gli obiettivi di riciclaggio stabiliti nella presente direttiva. Inoltre, la Commissione dovrebbe avere il potere di adeguare gli allegati al progresso tecnico e scientifico e di precisare l’applicazione  della formula per gli impianti di incenerimento di cui all’allegato II, R1. Tali misure di portata generale e intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva completandola con nuovi elementi non essenziali devono essere adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 5 bis della decisione 1999/468/CE”.

[19] Il rinvio d’obbligo è  a punti  94 e 96 della sentenza della Corte di Giustizia 15 giugno 2000, Arco. Sulla annosa vicenda delle m. p .s., nel diritto interno e comunitario si veda, da ultimo : “La nuova gestione dei rifiuti”, 2009, (a cura di P. G.), citt. pagg. 47/60.

[20] In termini cronologici lo Stato, fermo restando il regime transitorio che precede l’attuazione della direttiva (v. oltre), una volta trasposto l’art. 6, potrà adottare propri “criteri” di individuazione delle “condizioni” del par.1, prima ancora che la Commissione assolva al suo compito, al fine di individuare quando determinate tipologie di rifiuti abbiano cessato di essere tali. Tali criteri nazionali resteranno in vita fino a quando la Commissione, per le stesse tipologie, non avrà adottato suoi criteri, distinti ed incompatibili con quelli di diritto interno. Va da sé che tale competenza statale precede e segue lo svolgimento dei compiti assegnati alla Commissione con le procedure di cu al par. 2, nella misura in cui non ricorra, nel secondo caso, identità di tipologie di rifiuti di cui si predichi la trasformazione in m.p.s..

[21] Salvo quanto detto a nota precendete.

[22] Secondo il lessico della sentenza Arco, della C.G.C.E. su cui v. nota 19.

[23] Cfr. “La nuova gestione dei rifiuti”, (a cura di P.G.)  cit., 2009, pag. 47 e ss.

[24] In attesa che vengano sostituiti da quelli della Commissione, una volta adottati per le stesse tipologie.

[25] In proposito si rinvia al paragrafo precedente e per ulteriori spunti, v. infra.

[26] Vedi l’art. 6, riportato in fondo, dopo l’ultima nota.

[27] Come previsto dall’ultima proposizione della lett. d) del par. 1, dell’art. 6, sui “valori limite” delle sostanze inquinanti presenti nel prodotto o merce.

[28] Sulla definizione di “recupero” mi sembra che gravino ancora molte incertezze. Non solo perché il punto 15 dell’art. 3 richiama l’attività di “preparazione” del rifiuto (che resta concetto assai labile e inesplorato) ma non il “riciclaggio” (punto 17) che, comunque, rientra certamente nell’attività di recupero. Ma anche in quanto, riportando l’attività di “preparazione” in detto ambito definitorio, benché essa non richieda delle operazioni di  trattamento “completo”, sembra volersi allontanare, anche se in questa specifica ipotesi, dalla nozione giuridica tradizionale di “recupero completo” pur conservando, contestualmente, tutte “Le operazioni di recupero” dell’Allegato II, che non si discostano (anzi si identificano sostanzialmente) con quelle dell’omologo allegato delle due direttive precedenti (All. IIB della direttiva 2006/12/CE e IIB della direttiva 91/156 CEE) su cui si era formata la giurisprudenza comunitaria proprio sul “recupero completo” (ma che non conoscevano “la preparazione per il riutilizzo”).

In verità, l’art. 3, p. 15, lungi dall’assolvere un compito definitorio (delle categorie o forme del recupero, completo o non) si limita ad indicare gli obiettivi propri del recupero, senza diradare affatto i dubbi logico-giuridici connessi alla identificazione della nozione e delle operazioni che la realizzano.

In definitiva, il punto 15, non “spiega” ma “giustifica” le operazioni di recupero sicché, lungi dal fornire un concetto univoco, risulterà realmente comprensibile solo a seguito dei “criteri” posti dalla Commissione. I quali specificheranno il grado o la misura del “trattamento” o della “riparazione/controllo/pulizia” del rifiuto per trasformarlo in m.p.s.

[29] Il recupero può essere, come rilevato, sia di tipo “completo”, come nel caso del riciclaggio (che comporta un “trattamento”) sia molto più leggero (soft) come nella “preparazione” del rifiuto, ex p. 16. V. oltre. Su questo specifico profilo, si rinvia agli acuti rilievi di  F. Giampietro, Commento alla direttiva  2008/98 cit., 2009, pagg. 7/9, ed ivi ampi richiami di dottrina, il quale ritiene la “preparazione” come “.. una forma semplificata di riciclaggio .. Infatti il suo scopo è quello di ricondurre il rifiuto alla sua originaria qualità di prodotto – attraverso le indicate operazioni – per essere reimpiegato come tale”. Peraltro non vedo la  necessità di ricondurre la “preparazione” al “riciclaggio” quando essa (preparazione) è espressamente prevista e ricompresa nella nozione di “recupero” (p. 15 dell’art. 3, che la menziona espressamente: “ preparare i rifiuti ad assolvere tale funzione” (di sostituzione di altri materiali”). Sembra frapporsi, poi, a tale inquadramento, la circostanza sostanziale secondo cui il “riciclaggio” presuppone e necessita di un trattamento (“ritrattamento”) che difetta del tutto nella “preparazione” (che, con assoluta novità,  si risolve in mere operazioni di pulizia, controllo o riparazione). Senza dire, infine, che, con la preparazione, i prodotti o i componenti di prodotto sono reimpiegati, senza alcun pretrattamento, necessariamente per la loro funzione originaria; mentre i rifiuti riciclati possono essere destinati anche “ad altri fini”. E’ ben vero che l’art. 11 unisce nel titolo della sua rubrica “Riutilizzo e riciclaggio” ma, nel testo dell’articolo, in realtà,  le previsioni sono del tutto distinte (v. il par. 1, dedicato alla preparazione per il riutilizzo e il par. 2 che si riferisce al riciclaggio), salvo ovviamente le finalità comuni di implementazione dell’uno e dell’altro. In definitiva, non pare che fra il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo corra un rapporto logico di genus a species.

[30] Per questa terminologia, v. Cote di Giustizia 15.6.2000, Arco, p. 94/96, cit. della motivazione ove si contrappone testualmente e concettualmente il “recupero completo” con i “trattamenti preliminari” o liminali che non modificano la identità della sostanza  (per es. del residui produttivo – rifiuto,  che resta rifiuto).

[31] Da considerare come categoria giuridica ancora in vita ex art. 181 bis, comma 4, quantomeno in regime transitorio.

[32] Ferma restando l’ipotesi che il legislatore italiano voglia conservare la figura giuridica delle “m.p.s. fin dall’origine” ove, per il reimpiego, ritenga che, per alcuni materiali, non si debba passare per alcuna forma di “preparazione” (anche se è difficile immaginare  che non necessitino interventi minimi di “controllo”). Una tale opzione legislativa non sembrerebbe configgere con la lettera e lo spirito della direttiva  e dell’art. 6, in particolare.

[33] Principio riaffermato da, ultimo, da Corte Cost. 28 gennaio 2010, n. 28, in materia di gestione di ceneri di pirite che sul punto ribadisce che: “….Non è implausibile la motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime. La prevalente giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere “autoapplicativo” delle direttive de quibus, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più in generale, l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale (ex plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01, RAS; sentenza 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmüller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02, Berlusconi e altri; Corte di cassazione, sentenza n. 41839 del 2008).  L’impossibilità di non applicare la legge interna in contrasto con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta non significa tuttavia che la prima sia immune dal controllo di conformità al diritto comunitario, che spetta a questa Corte, davanti alla quale il giudice può sollevare questione di legittimità costituzionale, per asserita violazione dell’art. 11 ed oggi anche dell’art. 117, primo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 170 del 1984, n. 317 del 1996, n. 284 del 2007)”.  Il  tema, con specifico riferimento alla nozione di rifiuto tra normativa interna e ordinamento comunitario, normativa sui rifiuti  era stato affrontato da  P. Giampietro, Nuovo capitolo sulla nozione di rifiuto: l’interpretazione autentica per la C.G.C.E., in Ambiente e Sicurezza, n. 23/2004, pag. 26 e ss.

[34] Peraltro, in termini abbastanza confusi e poco coerenti, come evidenziati, di recente, da V. Paone, op cit.

[35] Detti decreti ministeriale andranno a rimpiazzare, con le stesse finalità, i decreti previsti dal comma 2 dell’art. 181 bis del T.U., con la sostanziale differenza che non disporranno della discrezionalità, soprattutto tecnica, sinora goduta dall’Esecutivo, in quanto risulteranno fortemente vincolati, a pena di illegittimità comunitaria, dai criteri tecnici adottatati, per ciascuna tipologia di rifiuti, dalla Commissione CE (ovviamente in caso di identità di tipologie).

[36] Abrogativa dell’art. 181, bis, del T.U. cit., introdotto dal secondo “correttivo”, di cui a d. lgs. n. 4/2008.

[37] Secondo il riparto di competenze concorrenti in materia ambientale  e in forza del principio  di “sussidiarietà”, di cui si è detto retro a par. 2.

[38] Tale previsione transitoria potrebbe mantenere in vita anche il regime ordinario di recupero dei rifiuti, ex art. 181 e 208, T.U. e art. 9-bis legge n. 232/2008 (v. retro, parr. 2 e 2.1) proprio in ragione della natura derogatoria del sistema transitorio rispetto a quello   a regime.

[39] Del seguente tenore: “Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (1), ove quest’ultima lo imponga”.

[40] E’ noto che tale articolo, nella sua odierna versione, non è stato ancora attuato dai previsti decreti ministeriali di cui al paragrafo  2, con conseguente applicazione, del regime transitorio dei paragrafi  3 e 4.  La prossima trasposizione dell’art. 6, comporterà l’abrogazione dell’art. 181 bis, con il contestuale mantenimento in vita dell’identico regime transitorio oggi vigente sino a quando detta normativa regolamentare non venga rimpiazzata con i decreti ministeriali di attuazione dei “criteri” della Commissione CE ovvero dai decreti ministeriali (o da leggi) che, per alcune tipologie di rifiuti, fisseranno le nuove prescrizioni di recupero, ai sensi del paragrafo 4, dell’art. 6 (in mancanza di quelli comunitari). Analogamente al par. 1, dell’art. 6, della direttiva, l’art. 181 bis, comma 1, lett. a/e) fissa le condizioni per ottenere le “materie, sostanze e prodotti secondari” . Ma, in entrambi i casi, tali condizioni necessitano della normativa tecnica che le dettaglino ( i c.d. “criteri specifici”).

Ovviamente la futura norma nazionale di attuazione, sostituirà le vecchie “condizioni” con le nuove (elencate nel paragrafo 1, dell’art.6) ma, per le ragioni dette nel testo, dovrà mantenere ferme le vecchie e vigenti prescrizioni regolamentari che consentano la produzione delle m.p.s. (oltre ai regimi ordinari ex art. 208 T.U. [v. par. 2] e le forme di recupero previste dall’art. 9 bis, lett. a) e b) legge n. 210/2008 [v. retro par. 2.1.].

In tema, si veda il contributo di M. Medugno (“MPS e sottoprodotti: nel segno della continuità), in M. Medugno e S. Maglia, Il codice dei rifiuti e delle Bonifiche, Milano, 2008. In precedenza, v. F. Giampietro (a cura di ) Commento al Testo Unico Ambientale, Milano, 2006, pag. 142.

[41] Questa potestà, relativa al recupero di singole tipologie di rifiuti, presuppone necessariamente la fissazione, da parte degli Stati membri, dei “criteri” specifici di recupero, sottesi a queste tipologie, consistenti nella adozione delle prescrizioni tecniche (standard, specifiche, requisiti ambientali, limiti di accettabilità ecc.) che consentono, in concreto, di garantire la qualità merceologica e ambientale della nuova m.p.s. Tali criteri, ovviamente, sono destinati  a cedere  il passo (cioè ad essere sostituiti) da quelli successivamente adottati dalla Commissione per l’identica tipologia di rifiuto. Analoghi criteri non potranno essere adottati dalle Regioni, considerato che la disciplina delle m.p.s., fissando il momento di cessazione dell’assoggettamento di una sostanza o di un oggetto alla  disciplina dei rifiuti, va a incidere sulla nozione giuridica di questi ultimi, nozione il cui ambito resta di competenza esclusiva della legislazione statale (di attuazione della  fonte comunitaria, non autoapplicativa).

[42] Di rispetto e riconoscimento della sovranità dei singoli Stati in materia ambientale, del criterio di ripartizione delle competenze “concorrenti” in detta materia e del principio di sussidiarietà (v. retro). In proposito, si legga anche il  distinto caso considerato dall’ art. 7, par. 2, della direttiva, sulla individuazione, da parte dello Stato membro, di nuovi rifiuti pericolosi o nell’ipotesi inversa (v. par. 3).

[43] Questa previsione, come è ormai chiaro, ipotizza che i criteri comunitari non siano stati fissati (anche dopo la fase transitoria) per una determinata tipologia di rifiuti e che lo Stato italiano intenda emanare nuove norme su questa specifica tipologia (“caso per caso”), che fissano le condizioni delle operazioni di recupero, di cui al par. 1 dell’art. 6, nella persistente assenza dei “criteri” di specificazione comunitari.

[44] Il richiamo del paragrafo 4, dell’art. 6 alla “giurisprudenza applicabile” a carico del legislatore/Governo nazionale appare di scarsa rilevanza e pertinenza. Non solo perché la giurisprudenza della C.G.C.E. non ha mostrato, come osservato, coerenza ed omogeneità di indirizzi, ma anche in considerazione dell’avvenuto mutamento della normativa su cui essa si era fondata. E, soprattutto perché, dopo la trasposizione  dell’art. 6, saranno necessariamente le “condizioni” di quest’ultimo”, benché molto sintetiche, a costituire i parametri di orientamento inderogabili dei “criteri” interni statali (in assenza di quelli della Commissione). Una volta che, per alcune tipologie, si sia demarcato il momento della fine di un determinato  rifiuto, con contestuale atto di nascita della materia seconda, questa, a mio avviso, resta in vita (cioè rimane tale per il diritto) anche se eventualmente vengono meno, per i più svariati motivi e per un limitato arco di tempo, una o entrambe le condizioni “estrinseche” del paragrafo 1 dell’art. 6 (mi riferisco alle prime due: lo scopo specifico o la domanda o il mercato). Sarebbe invece diversa l’ipotesi in cui – in un momento successivo - si scoprisse la insussistenza dei requisiti tecnici e ambientali di cui alle lett. c) e d) del par. 1 dell’art. 6, ovvero dette condizioni normative venissero modificate, nel senso di una loro  maggiore severità. Nel primo caso,  la m.p.s. non sarebbe mai venuta ad esistenza; mentre, nel secondo, essa perderebbe la sua qualifica giuridica e dovrebbe tornare ad essere considerata un rifiuto (eventualmente recuperabile con un ulteriore e/o più spinto trattamento).

[45] Da non confondere con quelli indicati nel comma 2 dell’art. 181 bis, i quali si correlavano ad una definizione,  del comma 1 dello stesso disposto,  che risulta non più attuale (oltre che abrogato con la trasposizione dell’art. 6).

[46] Al posto di “caso per caso”, come indicato nella traduzione della direttiva.

[47] Incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo. Si consideri che, nella nuova direttiva, come nella precedente 2000/12/CE (non invece nella direttiva 91/156/CE), nel recupero dei rifiuti, rientra anche la loro “Utilizzazione principale, come combustibile o come altro mezzo per produrre energia”. Vedi anche il considerando n. 20, con riferimento ai rifiuti solidi urbani, e l’All. II, voce R. I, che pone dei limiti di efficienza per gli impianti di incenerimento dei r.s.u.