Cass. Sez. III n. 14539 del 12 maggio 2020 (UP 18 feb 2020)
Pres. Ramacci Est. Galterio Ric. Lecce
Urbanistica.Manufatti leggeri o prefabbricati
Devono ritenersi escluse dalla nozione di costruzione le installazioni di manufatti leggeri o prefabbricati, purché, come conferma l’utilizzo della disgiuntiva “o” nell’art. 3 delTU edilizia, siano “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” o "ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta ed il soggiorno dei turisti”. Ed invero non sono qualificabili certamente come temporanee le esigenze di ristoro cui è preordinata l’attività esercitata dal titolare della concessione in favore degli utenti del lido balneare per l’intera stagione estiva che, a dispetto della limitazione del periodo temporale di novanta giorni, si ripete ogni anno, e ciò indipendentemente dalla possibilità di agevole rimozione dell'opera dal luogo di ubicazione, né un chiostro adibito a bar sulla spiaggia può rientrare nell’ambito della disciplina limitatrice, prevista per “le strutture ricettive all’aperto per la sosta ed il soggiorno dei turisti…in conformità alle leggi regionali di settore”, locuzione questa inserita dall’art. 52 L. 221/2015, essendo tale norma riferita ai soli manufatti che si trovino all'interno di strutture ricettive all'aperto, destinate cioè ad alloggio degli avventori.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in data 6.3.2019 la Corte di Appello di Lecce ha integralmente confermato la pronuncia resa all’esito del primo grado di giudizio dal Tribunale di Taranto che ha condannato Beniamino Lecce alla pena di un mese e quindici giorni di arresto ritenendolo responsabile dei reati di cui agli artt. 44 lett. c) d.P.R. 380/2001 e 181, primo comma d. lgs. 42/2004 per aver, in qualità di gestore dello stabilimento balneare L’Oasi, realizzato lavori per la costruzione di un chiosco bar avente la superficie di 40 mq., in assenza del prescritto permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica.
2. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 173 disp.att. cod.proc.pen.
2.1. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge processuale riferito agli artt. 517 cod. proc. pen. e 6, par.3 C.E.D.U., la mancata corrispondenza tra l’imputazione in cui veniva contestata la sola violazione dell’art. 181 d. lgs. 42/2004 e la condanna con la quale veniva altresì ascritto all’imputato il rato di cui all’art. 44 d.P.R. 380/2001 senza che fosse intervenuta alcuna contestazione suppletiva da parte del Pubblico Ministero in spregio al generale principio del diritto di difesa, immanente al sistema processuale interno e all’ordinamento sovrannazionale che impone di rendere edotto l’imputato dei fatti materiali che gli vengono contestati e in maniera dettagliata della qualificazione giuridica data a tali fatti come specificamente affermato nella pronuncia C.E.D.U. Drassich c/Italia dell’11.12.2007.
2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all’art. 44 lett. c) d.P.R. 380/2001 e al vizio motivazionale, che l’intervento edilizio in esame era stato regolarmente autorizzato giusta provvedimento in data 10.5.2016 del Comune di Palagiano che concedeva, previa compiuta istruttoria, al richiedente di installare un chiosco bar della superficie di 40 mq, con sottostante pedana in legno o altro materiale eco compatibile, semplicemente posata sulla sabbia, titolo questo valevole anche come permesso di costruire stante il riferimento nel corpo dell’atto al d.p.R. 380/2001 e all’istanza proposta a tale specifico fine dall’interessato, a chiara smentita dell’affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale la concessione demaniale ed il permesso di costruire dovevano essere considerati due titoli ontologicamente distinti.
2.3. Con il terzo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito agli artt. 3, primo comma E5) d.P.R. 380/2001, 10, quinto comma e 14, quattordicesimo comma L.R. Puglia 17/2015, 149 d. lgs. 42/2004, 1 d.P.R. 139/2010 ed A.16, A.17 e B.26 d.P.R.31/2017, che il chiosco puntualmente corrispondente alla concessione demaniale, ovverosia completamente in legno, semplicemente appoggiato sulla sabbia ed utilizzato solo per i novanta giorni all’anno consentiti dal titolo, non richiedeva alcun permesso di costruire rientrando tra le opere escluse dall’art. 3 T.U. Edilizia in presenza di struttura ricettiva all’aperto con temporaneo ancoraggio al suolo e destinato alla sosta occasionale e limitata nel tempo di turisti. Sottolinea che anche alla luce della normativa regionale l’opera doveva ritenersi consentita in presenza della sola concessione demaniale già sotto la vigenza dell’abrogata legge della regione Puglia 17/2006 che così regolamentava i prefabbricati di uso temporaneo, a cui è subentrata la L.R. Puglia 17/2015 che prevede all’art. 10 che costituisce inadempienza agli obblighi derivati dalla concessione turistico-ricreativa l’inosservanza delle vigenti ordinanze regionali in materia di esercizio dei servizi minimi di spiaggia (igienico-sanitari, docce, chiosco-bar), in tal modo escludendosi la punibilità del reato per effetto dell’adempimento di un dovere imposto dalla Pubblica Autorità. A tali previsioni si aggiunge l’art. 1 d.P.R. 139/2010 secondo il quale gli interventi di lieve entità da realizzarsi su aree ed immobili sottoposti alle norme di tutela contenute nella parte III del Codice che comportino un’alterazione dei luoghi, fra cui figurano le strutture stagionali non permanenti collegate ad attività turistiche da considerarsi come attrezzature amovibili, sono soggette a procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica. Deduce che in ogni caso l’intera materia è stata riordinata dal d.P.R. 31/2017 che esclude dall’autorizzazione paesaggistica i manufatti descritti ai punti A.16, A.17 e B.26, lamentando la denegata applicabilità del punto A.16 che secondo la Corte di Appello concerne solo le strutture temporanee realizzate in occasione di eventi o spettacoli, senza considerare che la norma suddetta contempla altresì i manufatti destinati, come nel caso di specie, ad esposizione e vendita di merci
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Il primo motivo è manifestamente infondato.
Com’è noto la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che le norme di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., avendo lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e quindi il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato, non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto da una modificazione dell’imputazione che pregiudichi le possibilità di difesa dell’imputato, dovendo la nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni in esame, essere coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa. Il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Rv. 232423; Sez. 3, n. 36817 del 14/06/2011 - dep. 12/10/2011, Rv. 251081). Né alcun rilievo spiega ai fini della verifica del rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza, la mancata indicazione degli articoli di legge violati, dovendosi avere riguardo alla specificazione del fatto più che all'indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell'esercizio del diritto di difesa (Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013 - dep. 04/02/2014, Russo, Rv. 258920).
Ciò chiarito, deve escludersi che la puntuale descrizione nel capo di imputazione della condotta contestata, consistita nella realizzazione del chiostro in assenza tanto di permesso di costruire quanto di autorizzazione paesaggistica, non abbia consentito all’imputato di svolgere le proprie difese, solo perché il fatto risultava qualificato esclusivamente ai sensi dell’art. 181 d. lgs. 42/2004 e non già, come pure ritenuto sin dalla sentenza di primo grado, anche ai sensi dell’art. 44 lett c) d.P.R. 309/1990: è la stessa imputazione a descrivere due specifiche ed autonome condotte costituite l’una dalla mancanza del titolo edilizio e l’altra dall’assenza del nulla osta ambientale, sulle quali l’imputato si è ampiamente difeso in entrambi i gradi di giudizio, come risulta da entrambe le pronunce di merito.
Del resto, siffatto principio non è affatto in contrasto con l’art. 6 C.E.D.U., tanto meno con riferimento a quanto affermato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'11 dicembre 2007, Drassich c. Italia (ric. 25575/04). La Corte di Strasburgo, infatti, lungi dal ritenere incompatibile con la CEDU la normativa nazionale che attribuisce al giudice il potere di riqualificare giuridicamente d'ufficio il fatto oggetto della contestazione, ha invece riscontrato un'ipotesi in cui tale potere veniva in concreto a confliggere con i principi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, trattando un caso in cui la riqualificazione era avvenuta in sede di legittimità senza che in precedenza il pubblico ministero avesse mai sottolineato l'opportunità della riqualificazione stessa, che secondo la legge nazionale non era sufficientemente prevedibile, non avendo poi avuto l'imputato alcuno spazio per espletare il contraddittorio al riguardo. Da ciò è stata dedotta la necessità di una interpretazione adeguata al decisum della corte comunitaria e costituzionalmente orientata (come già rilevato, l'art. 111 Cost. corrisponde in questi termini all'art. 6 CEDU) dell'art. 521 c.p.p., comma 1, (Cass. sez. 6, 12 novembre 2008 n. 45807), la quale, in ultima analisi, trova come parametro la concreta lesività del conflitto astrattamente configurabile tra il diritto di difesa dell'imputato da un lato e l'esercizio del potere-dovere con cui il giudice ripristina la legalità nella definizione del fatto reato dall'altro.
Tale conflitto non comporta, al contrario, alcuna lesione del diritto di difesa nel caso in cui la riqualificazione avvenga consentendo appunto all'imputato di esercitare al riguardo il contraddittorio, e dunque quando anteriormente alla riqualificazione è esercitata una contestazione da parte del pubblico ministero in tal senso, come pure in difetto di tale contestazione della pubblica accusa, nell'ulteriore caso in cui la riqualificazione è effettuata lasciando comunque all'imputato la facoltà di controdedurre, come avviene quando la sentenza riqualificante è impugnabile (Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 - dep. 17/01/2013, Manara e altro, Rv. 254135), esattamente come è accaduto nel caso di specie. Invero, la violazione, - secondo l’impostazione tutt'altro che formalistica della Corte di Strasburgo - deve aver comportato un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell'addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti.
2. Il secondo motivo, analogamente al terzo, si sostanzia in una sostanziale riedizione dell’atto di appello di cui ripete pedissequamente le doglianze senza contrapporre ai puntuali rilievi spesi, con corrette argomentazioni giuridiche, dalla Corte territoriale in ordine ai singoli profili di censura specifiche confutazioni. Infatti, il motivo di ricorso per cassazione che si limita a riprodurre in termini generici ovvero, come nel caso di specie, pedissequi, il motivo d'appello, per ciò solo si destina all'inammissibilità, venendo meno in radice l'unica funzione per la quale è previsto e ammesso, ovverosia la critica argomentata al provvedimento, posto che la reiterazione dei motivi di censura già articolati rende il provvedimento formalmente 'attaccato', di fatto del tutto ignorato: la doglianza che non viene mediata dalla necessaria specifica ed argomentata denuncia del vizio formalmente lamentato si riduce ad un motivo soltanto apparente (Sez. 4, n.18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012 -, Pezzo Rv. 253849).
In ogni caso entrambi sono manifestamente infondati.
Quanto al secondo motivo va infatti rilevato che in materia edilizia, per le opere eseguite da privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia l'autorizzazione demaniale che il permesso di costruire (art. 8 d.P.R. n. 380 del 2001), assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il controllo urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 5461 del 04/12/2013 - dep. 04/02/2014, Caldaroni, Rv. 258692; Sez. 3, n. 37250 del 11/06/2008 - dep. 01/10/2008, Verzoni e altri, Rv. 241077).
Ne deriva che alcun intervento edilizio, che non sia stato previamente assentito da parte del competente organo comunale possa essere eseguito su area demaniale sicché, per escludere l'antigiuridicità della condotta, è necessario che l’opera che debba essere ivi realizzata sia pure per le specifiche finalità indicate dall’atto concessorio sia conforme agli strumenti urbanistici, nonché provvista, ove si tratti di area al contempo gravata da vincolo paesaggistico, dell’autorizzazione ambientale. L'esistenza del demanio marittimo non esclude affatto la titolarità dei poteri urbanistici comunali e, in tema di costruzioni edilizie nell'ambito demaniale, l'ordinamento giuridico non prevede alcuna deroga alla distribuzione delle attribuzioni e delle competenze, in quanto non sottrae l'esercizio del potere urbanistico-edilizio all’organo comunale ne' l'esercizio del potere destinato a soddisfare gli interessi pubblici relativi agli usi del litorale nonché a perseguire speciali interessi pubblici ad esso inerenti, demandato alla competente autorità demaniale subisce alcuna deroga. Rilievi questi che vanificano alla radice il tentativo perseguito dalla difesa di considerare ricompresa nella licenza suppletiva alla concessione demaniale, già rilasciata nel 2012 al legale rappresentante della società L’Oasi, per la realizzazione del chiosco bar, il permesso di costruire il relativo manufatto.
3. Tanto chiarito, l’indagine è stata di seguito spostata dai giudici del merito, alla luce delle contestazioni svolte dalla difesa puntualmente riprodotte nel terzo motivo, sulla necessità per la realizzazione del manufatto in esame del permesso di costruire.
Sostiene preliminarmente il ricorrente che la normativa di riferimento sia costituita dalla legge regionale pugliese, individuata in una serie di norme succedutesi nel tempo fino alla vigente L.R. Puglia del 10.4.2015 n.17, che consentirebbe l’installazione su suolo pubblico di manufatti destinati a servizi minimi (igienico-sanitari, docce, chiosco-bar, direzione) assentiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica. A prescindere dal rilievo che la suddetta normativa non escluderebbe, neppure secondo la prospettazione difensiva, il reato urbanistico, la doglianza risulta comunque destituita di fondamento. Questa Sezione ha infatti reiteratamente precisato che, in materia urbanistica, le disposizioni introdotte da leggi regionali, anche delle Regioni a Statuto speciale, quantunque munite di competenza legislativa esclusiva in materia urbanistica, devono rispettare i principi generali stabiliti dalla legislazione nazionale, nel cui ambito sono ricomprese le disposizioni che definiscono le categorie degli interventi edilizi, e conseguentemente devono essere interpretate in modo da non collidere con i detti principi (Sez. 3, n. 33039 del 15/06/2006, P.M. in proc. Moltísanti, Rv. 234935; Sez. 3, n. 2017 del 25/10/2007 - dep. 15/01/2008, Giangrasso, Rv. 238555; Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014 - dep. 03/07/2014, Alonzo, Rv. 259938, che ha ritenuto, in fattispecie del tutto similare a quella di cui è causa, configurabile il fumus del reato previsto dall'art. 44, comma primo, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 con riferimento alla traslazione e riallocazione di un padiglione espositivo presentante i connotati della stabilità strutturale ed ubicato su suolo demaniale, effettuate sulla base di un "nulla-osta", e non, invece, previo rilascio di una concessione edilizia, titolo equivalente, nella legislazione regionale siciliana, al permesso di costruire). Ciò in ottemperanza all'intervento della Corte Costituzionale che con due successive pronunce ha affermato dapprima che, in ordine all'attività urbanistico- edilizia, "lo Stato ha mantenuto la disciplina dei titoli abilitativi come appartenente alla potestà di dettare i principi della materia" (sentenza n.303 del 25.9.2003) e poi ulteriormente chiarito, con la successiva sentenza n. 309 del 25.11.2011, che le disposizioni che definiscono le categorie degli interventi edilizi, ovverosia le norme definitorie di cui all'art.3 dpr 380/2001 rappresentano principi fondamentali del governo del territorio, che quantunque ricompresi nella legislazione concorrente, rimangono sottratti alla potestà legislativa regionale e riservati a quella statale ex art.117, comma 3 Cost..
Correttamente la Corte salentina che ritenuto che l'installazione del suddetto manufatto configurasse il reato di cui all'art.44 lett. c) dpr 380/2001, trattandosi di intervento classificabile come nuova costruzione e come tale soggetto al permesso di costruire da parte dell'autorità comunale, nonché, insistendo su territorio soggetto a vincolo paesaggistico, alla prescritta autorizzazione da parte della competente Soprintendenza ai Beni culturali ed Ambientali ravvisando, in mancanza di quest’ultima, il reato di cui all'art.181, comma 1-bis d. Igs 42/2004. Al riguardo la Corte territoriale ha infatti puntualizzato che il suddetto intervento si inserisce, avuto riguardo alle sue caratteristiche strutturali ed alla destinazione d'uso, fra quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio di cui all'art.3 comma 1, lett.e.5) T.U. dell’Edilizia.
Muovendo, infatti, dal dato normativo e segnatamente dall'art.10 D.P.R. 380/2001 che individua tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, gli interventi di nuova costruzione, la norma da prendere in esame nel caso di specie, in ordine al contestato reato edilizio, è costituita dall'art.3 dello stesso T.U. che nel definire alla lett.e) del primo comma i suddetti interventi come quelli di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio non ricompresi nelle categorie di cui alle lettere precedenti, prevede espressamente fra questi al successivo punto 5) «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o siano ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta ed il soggiorno dei turisti, previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, in conformità alle normative regionali di settore».
Come già rilevato da un precedente arresto di questa Corte, la collocazione di tali interventi fra quelli richiedenti il permesso di costruire ha, di fatto, codificato la figura giuridica di «costruzione» già elaborata dalla giurisprudenza prima dell'entrata in vigore del T.U., nella quale rientravano tutti quei manufatti che, comportando una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale, modificavano lo stato dei luoghi in quanto, difettando obiettivamente del carattere di assoluta precarietà, erano destinati almeno potenzialmente a perdurare nel tempo, senza che assumesse alcun rilievo la distinzione tra opere murarie o di altro genere, né l'ancoraggio del manufatto al suolo, né la funzione ad esso assegnata dal costruttore, essendo invece dirimente l'oggettiva destinazione dell'opera a soddisfare un bisogno non temporaneo (così Sez. 3, n. 41067 del 15/09/2015 - dep. 13/10/2015, Pullara, Rv. 264840 Sez. 3, n. 9138 del 7/7/2000, P.M. in proc. Migliorini T ed altro, Rv. 217217 ed altre prec. conf.). Se, dunque, la ratio cui si informa la disposizione in esame è quella, in coerenza con i principi generali fissati dalla disciplina urbanistica, di ritenere consentiti in assenza di permesso di costruire interventi che non comportano una stabile trasformazione rilevante sotto il profilo urbanistico, elemento questo desumibile dalla destinazione dell'opera, la stessa deve essere interpretata, ragionando a contrario, nel senso di ritenere consentite le installazioni che non abbiano, in negativo, destinazione ad abitazione, ad ambienti di lavoro, a depositi o a magazzini e che presentino, in positivo, utilizzo di carattere temporaneo o che siano ricomprese in strutture ricettive all'aperto per la sosta ed il soggiorno e la sosta dei turisti, strutture queste ultime riferite, come si ricava dalla locuzione impiegata, a quelle individuate dall'art. 13 del d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 (c.d. Codice del turismo) e, segnatamente, i villaggi turistici, i campeggi nell'ambito delle attività agrituristiche ed i parchi di vacanza, come deve desumersi dall'utilizzo della disgiuntiva "o". Discende da tale interpretazione che debbano ritenersi escluse dalla nozione di costruzione le installazioni di manufatti leggeri o prefabbricati, caratteristiche che pure presenta il chiosco in esame, purchè, come conferma l’utilizzo della disgiuntiva “o”, siano “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee” o "ricompresi in strutture ricettive all'aperto per la sosta ed il soggiorno dei turisti”, categorie in nessuna delle quali rientra, invece, il manufatto de quo. Ed invero non sono qualificabili certamente come temporanee le esigenze di ristoro cui è preordinata l’attività esercitata dal titolare della concessione in favore degli utenti del lido balneare per l’intera stagione estiva che, a dispetto della limitazione del periodo temporale di novanta giorni, si ripete ogni anno, e ciò indipendentemente dalla possibilità di agevole rimozione dell'opera dal luogo di ubicazione, né un chiostro adibito a bar sulla spiaggia può rientrare nell’ambito della disciplina limitatrice, prevista per “le strutture ricettive all’aperto per la sosta ed il soggiorno dei turisti…in conformità alle leggi regionali di settore”, locuzione questa inserita dall’art. 52 L. 221/2015, essendo tale norma riferita ai soli manufatti che si trovino all'interno di strutture ricettive all'aperto, destinate cioè ad alloggio degli avventori.
Né alcun fondamento può riconoscersi all’eccepita applicabilità della legge regionale pugliese, individuata in una serie di norme succedutesi nel tempo, che consentirebbe l’installazione su suolo pubblico di manufatti destinati a servizi minimi (igienico-sanitari, docce, chiosco-bar, direzione) assentiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica. A prescindere dal rilievo che la suddetta normativa non escluderebbe, sulla scorta dei rilievi sovra effettuati, il reato urbanistico, la doglianza risulta comunque destituita di fondamento atteso che la normativa regionale indicata dalla difesa è stata abrogata dalla L. R. Puglia n.17 del 10.4. 2015.
Quanto alla sussumibilità dell’intervento edilizio in esame nel d.P.R. 13.2.2017 n.31 recante l’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica, specificamente elencati nell’allegato A, la difesa si limita a riportare due punti del suddetto allegato senza neppure chiarire in quale di essi sia ricompresa l’installazione del chiosco bar, né tantomeno individuarne le caratteristiche compatibili. Correttamente in ogni caso i giudici di merito hanno escluso tanto il punto A.16 comprendente le sole strutture provvisoriamente installate in occasione di manifestazioni e per il solo periodo di svolgimento delle stesse, sia che si tratti di installazioni per gli spettacoli o le rappresentazioni, sia che si tratti manufatti per esposizione e vendita di merci (dicitura questa riferita alle cd. “bancarelle”), quanto il punto A.17 che, come osservato dalla sentenza di primo grado, riguarda strutture che, pur riferite ad esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, rientrano in tutt’altra tipologia strutturale (tende, pedane, paratie frangivento, manufatti ornamentali elementi ombreggianti) e che comunque, come puntualizzato dalla pronuncia impugnata, dovevano essere escluse in ragione dei materiali utilizzati costituiti, quanto alla pavimentazione, da lastre in cemento del tutto estranee al concetto di materiali facilmente amovibili.
Il ricorso deve in conclusione essere dichiarato inammissibile, seguendo a tale esito la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuale e, non sussistendo alcun elemento per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento di una somma equitativamente liquidata in favore della Cassa delle Ammende
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso il 18.2.2020