Cass. Sez. III n. 14728 del 13 maggio 2020 (UP 12 dic 2019)
Pres. Ramacci Est. Aceto Ric. Falliano
Urbanistica. Reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380
Il reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti dalla legge per l'esecuzione di interventi edilizi in zone sismiche e, quindi, anche dal proprietario committente delle opere che abbia omesso di vigilare sull'attività del professionista incaricato del deposito presso gli uffici competenti del progetto antisismico
RITENUTO IN FATTO
1. Il sig. Leo Falliano ricorre per l’annullamento della sentenza del 26/02/2019 del Tribunale di Torino che lo ha condannato alla pena di 400,00 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 95, d.P.R, n. 380 del 2001 (omessa denuncia degli interventi edilizi realizzati in zona sismica meglio descritti al capo A della rubrica), accertato in Torino il 19/10/2015.
1.1. Con il primo motivo deduce l’omessa motivazione della mancata applicazione della causa estintiva del reato di cui all’art. 45, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001.
1.2. Con il secondo motivo deduce la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione, nonché l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 42, u.c., cod. pen., nella parte in cui la sentenza affronta e risolve l’argomento, devoluto in appello, della mancanza di colpa. Allega, sul punto, la carenza e comunque l’erroneità della sentenza nella parte in cui, con motivazione che non tiene conto della specifica posizione dell’imputato e della peculiarità della vicenda, gli addebita la responsabilità soggettiva dell’omissione per semplice dimenticanza o trascuratezza, senza aggiungere altro. Sostiene, al riguardo, che: a) egli, medico pediatra da quaranta anni, si era affidato in tutto e per tutto ad un pool di professionisti specialisti di alto profilo e coerentemente retribuiti per la progettazione e l’esecuzione delle opere; b) alla denuncia delle opere di cui al capo A, presentata il 14/11/2013, ne erano seguite altre tre a titolo di variante depositate, rispettivamente, il 25/06/2014, il 16/03/2015 ed il 17/11/2016; c) l’unica opera non denunciata era una scala metallica esterna non ricompresa tra le opere indicate al capo A, ove viene contestata la realizzazione di scale interne in cemento armato. Il vizio si annida, dunque, proprio, in questo: nella inidoneità della motivazione a giustificare l’addebito per colpa in un contesto nel quale non di omissione di denunzia ‘tout court’ si tratta, bensì di incompletezza, a fronte di più denunce depositate e del proprio affidamento ad un pool di professionisti. La sentenza dunque non spiega da quale dato oggettivo trae il convincimento che un profano come il ricorrente fosse (o potesse essere) consapevole dalla incompletezza delle denunce già presentate.
1.3. Con il terzo motivo deduce la mancanza, l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione e l’inosservanza o l’erronea applicazione dell’art. 131-bis, cod. pen. La spiegazione addotta dal Tribunale per escludere l’applicazione della speciale causa di non punibilità (l’esistenza di molteplici fattori di illiceità penale insiti nell’edificazione delle opere di cui si tratta), oltre ad essere erronea in diritto, non presenta alcun profilo individualizzante. In primo luogo sottolinea, in punto di fatto, di essere stato prosciolto da ogni altro addebito, sicché non si comprende perché gli si faccia carico di molteplici fattori di illiceità penale dei quali rispondono gli altri coimputati. In secondo luogo stigmatizza la circostanza che il Tribunale non ha preso in considerazione la modestia del fatto (sotto il profilo della esiguità del danno e del pericolo; lo stesso Tribunale dà atto della modesta concreta gravità dei fatti), il grado lievissimo della colpa (l’argomento si salda alle deduzioni oggetto del secondo motivo), l’assenza di precedenti penali, le condotte successive alla commissione dei reati (in particolare, la presentazione della denunzia integrativa dei lavori mancanti in epoca addirittura successiva alla emissione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari; questione non affrontata dal Tribunale).
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
3. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3.1. Il ricorrente è stato tratto a giudizio per rispondere dei seguenti reati:
a) artt. 110 cod. pen., 44 lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, perché, quale proprietario committente, in concorso con altre persone (il direttore dei lavori e il legale rappresentate dell’impresa incaricata di eseguirli) aveva realizzato le seguenti opere in assenza di permesso di costruire: i) innalzamento del piano sottotetto sia al piano di imposta (+ mt. 0,90) che al colmo sottotrave (+ mt. 1,15); ii) demolizione e ricostruzione della soletta in cemento armato del piano sottotetto, traslato ad una quota inferiore di circa mt. 0,50; iii) rifacimento dei balconi del primo piano in difformità dalla d.i.a. prot. n. 2010-9-20473; iv) realizzazione di terrazzi al posto dei cornicioni preesistenti e di un abbaino al piano sottotetto; v) realizzazione di scale interne in cemento armato a collegamento dei vari piani in difformità dalla d.i.a. sopra indicata con conseguente aumento interno della superficie di calpestio delle confinanti unità immobiliari e diverso posizionamento dell’ascensore interno; vi) modifiche interne ed esterne ai vari piani;
b) artt. 110 cod. pen., 71 d.P.R. n. 380 del 2001 (realizzazione delle opere in cemento armato di cui al capo A in mancanza di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato iscritto all’albo);
c) (omissis);
d) artt. 110 cod. pen., 95 d.P.R. n. 380 del 2001 (realizzazione delle opere di cui al capo A in zona sismica in assenza di denuncia allo sportello unico);
e) artt. 110 cod. pen., 181 d.lgs. n. 42 del 2004 (realizzazione delle opere i di cui al capo A in zona sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale in assenza della relativa autorizzazione).
3.2. Con la sentenza impugnata il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’odierno ricorrente in ordine ai reati di cui ai capi A ed E in conseguenza del rilascio del permesso di costruire in sanatoria e di accertamento di compatibilità paesaggistica, lo ha assolto dal reato di cui al capo B perché il fatto non sussiste e lo ha condannato per il residuo reato di cui al capo D alla pena di 400,00 euro di ammenda previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
3.3. Il permesso di costruire in sanatoria estingue esclusivamente i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, non quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio che hanno una oggettività giuridica diversa da quella riguardante il corretto assetto del territorio (Sez. 3, n. 54707 del 13/11/2018, Rv. 274212; Sez. 7, n. 11254 del 20/10/2017, Rv. 272546; Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rv. 270792; Sez. F. n. 44015 del 04/09/2014, Rv. 261099; Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Rv. 261099).
4. Anche il secondo motivo è manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.
4.1. Sfrondato dalle inammissibili deduzioni fattuali (non potendo la Corte di cassazione estendere la propria cognizione al contenuto di specifici atti del processo se non nell’ipotesi di un loro travisamento, vizio non dedotto), l’argomentare del ricorrente resta privo di costrutto visto che ricostruisce la vicenda in termini diversi da quel che risulta dalla lettura della sentenza impugnata e propone una interpretazione dell’art. 95 d.P.R. n. 380 del 2001 non contestualizzata e del tutto avulsa dai fatti accertati.
4.2. Dalla lettura della sentenza impugnata risulta, in primo luogo, che tutte le opere di cui al capo A erano state realizzate in assenza della denunzia prescritta dall’art. 93, d.P.R. n. 380 del 2001. Non trova riscontro alcuno la deduzione difensiva secondo la quale la condanna del ricorrente si fonda sul fatto che (e nonostante che) la denunzia non era stata presentata solo per le opere in cemento armato e metalliche interessanti una porzione interna del solaio ed una scala metallica esterna. La sentenza dice tutt’altro. Il Tribunale, infatti, nell’esaminare i profili di responsabilità dei reati di cui ai capi B e C, dopo aver riconosciuto che la realizzazione dei manufatti in cemento armato descritti al capo A è stata preceduta dalla predisposizione di un progetto con le caratteristiche previste dall’art. 64 d.P.R. n. 380 del 2001 (con conseguente insussistenza del reato di cui al capo B, ascritto anche all’odierno ricorrente), afferma subito dopo che «non tutte le opere descritte al capo A, tra le quali opere in cemento armato e metalliche interessanti una porzione interna del solaio ed una scala metallica esterna, [sono] state precedute dalle denunce allo sportello unico del comune da parte del costruttore», il quale è stato condannato per il reato di cui al capo C (non ascritto al ricorrente).
4.3. La limitazione della propria responsabilità alla realizzazione delle sole opere metalliche e in cemento armato è del tutto arbitraria e, come detto, in contrasto con quanto afferma il Tribunale che addebita all’imputato di non aver denunziato, a fini antisismici, tutte, indistintamente le opere di cui al capo A.
4.4. Posta nei giusti termini, la questione posta con il secondo motivo si mostra in tutta la sua fragilità di fatto e di diritto. Il ricorrente evoca una “mole” di denunce e autorizzazioni, a suo dire richieste dal “pool” di esperti ai quali si era affidato completamente, che è platealmente smentita, in primo luogo, dalla natura totalmente abusiva dell’opera nella sua interezza, inizialmente sprovvista anche di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, oltre che di denunzia a fini antisismici. Sostenere, in questo contesto, la mancanza di colpa per aver dimenticato di denunziare solo le scale e alcune strutture metalliche costituisce un fuor d’opera.
4.5. In secondo luogo, la tesi difensiva presuppone che sia possibile trasferire ad altri la responsabilità penale che la fattispecie di reato attribuisce a «chi[unque] intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni» (art. 93, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001). Il destinatario diretto e immediato del precetto penalmente sanzionato è in primo luogo il proprietario dell’immobile e/o il committente dei lavori il quale deve indicare anche il nome del progettista, del direttore dei lavori e dell’appaltatore, le cui responsabilità si affiancano, semmai, a quella del committente, giammai la escludono (Sez. 3, n. 49991 del 10/11/2015, Rv. 266420; Sez. 3, n. 35387 del 24/05/2007, Rv. 237537; Sez. 3, n. 887 del 10/12/1999, dep. 2000, Rv. 215602, secondo cui il reato in questione può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare l'obbligo imposto del preavviso e del deposito dei progetti e degli allegati tecnici, sicché, pur non trattandosi di un reato proprio del proprietario, la configurazione giuridica dello stesso può esser inquadrata in quelli a soggettività ristretta, giacché, oltre che dal proprietario, può esser commesso dal committente, dal titolare della concessione edilizia ed, in genere, da chi ha la disponibilità dell'immobile o dell'area su cui esso sorge, nonché da quei soggetti che esplicano attività tecnica ed hanno iniziato la costruzione senza accertarsi degli intervenuti adempimenti; nello stesso senso, in precedenza, Sez. 3, n. 4438 del 10/04/1997, Rv. 208031, secondo cui il reato "de quo", pur non essendo "proprio" del proprietario, va inquadrato tra quelli a "soggettività ristretta”).
4.6. Trattandosi di contravvenzione, l’autore ne risponde anche a titolo di colpa ed, in particolare, anche di “culpa in eligendo” e “in vigilando”. Deve perciò essere ribadito il principio secondo il quale il reato di cui all'art. 95 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti dalla legge per l'esecuzione di interventi edilizi in zone sismiche e, quindi, anche dal proprietario committente delle opere che abbia omesso di vigilare sull'attività del professionista incaricato del deposito presso gli uffici competenti del progetto antisismico (Sez. 3, n. 43178 del 15/05/2018, Rv. 274206).
7. A non diversi rilievi si espone il terzo motivo il quale dà per scontata una modestia del fatto ed una lievità della colpa escluse dalla mole degli interventi oggetto di addebito e dalla loro natura (inizialmente) totalmente abusiva.
7.1. In relazione alle fattispecie di cui agli artt. 93 e 95 del d.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, la particolare tenuità del fatto va verificata alla luce della concreta entità dell'intervento edilizio realizzato, dello stato, della condizione, della natura e della morfologia dei luoghi, tenendo conto del bene giuridico protetto e dell'interesse sotteso alla specifica disposizione incriminatrice, consistente nella tutela della pubblica incolumità dal rischio sismico (Sez. 3, n. 783 del 20/04/2017, Rv. 271865).
7.2. L’entità dell’intervento, dunque, esclude di per sé la esiguità del pericolo che è concetto ben diverso dalla “modesta gravità concreta” dei fatti valorizzata dal Tribunale per attenuare la pena.
7.3. La natura esigua del danno (o del pericolo) concorre a rendere non punibile un fatto che è comunque offensivo, sicché essa non può essere confusa con le ipotesi di “lieve entità” o di “minore gravità” o modestia del fatto che attenuano il reato, senza escluderne l’offensività. Si tratta di concetti non sovrapponibili che collocano la non punibilità per particolare tenuità del fatto nella angusta area schiacciata tra la totale inoffensività della condotta e il reato attenuato dalla sua lieve entità, modestia o minore gravità. Si tratta, dunque, di accertamento che deve essere effettuato caso per caso, non potendosi escludere l’esiguità del danno (o del pericolo) in base a valutazioni astratte ma nemmeno in base a interpretazioni eccessivamente dilatate dell’istituto e distoniche rispetto alla sua finalità.
7.4. La necessaria offensività del reato è concetto ormai acquisito dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in particolar modo di quella del giudice delle leggi (sentenza n. 263 del 2000 e altre pronunce ivi richiamate: nn. 247 del 1997; 133 del 1992; 333 del 1991, 144 del 1991, 360 del 1995). Come insegnato dalla Corte Costituzionale, «la verifica del rispetto del principio dell'offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili (…) Diverso profilo è quello dell'offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (…), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest'ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.)» (Sentenza n. 360 del 13-24 luglio 1995). L’offensività, è stato precisato, «deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore, salvo talune ipotesi marginali (…) nelle quali, a causa della necessaria astrattezza della norma, può verificarsi divergenza fra tipicità ed offesa» (Sentenza n. 333 del 10-11 luglio 1991). Di rilievo, ai fini della ratio dell'istituto, l'affermazione che «l’art. 25 [Cost.], quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale» (Sentenza n. 263 del 2000; cfr. altresì sentenza n. 225 del 2008 che ha ben sintetizzato lo stato dell’arte ricordando come «l’ampia discrezionalità che – per costante giurisprudenza di questa Corte – va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l'opzione [anche] per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva. Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000). La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte – tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità – procedere alla verifica dell'offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991). Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso – rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva»).
7.5. La non punibilità per particolare tenuità del fatto, dunque, presuppone il positivo superamento del doppio vaglio di offensività (“in astratto” ed “in concreto”) del reato consumato e della condotta posta in essere. L’esiguità, infatti, qualifica il danno o il pericolo concreto cagionati dal reato, ma non lo esclude, pur collocandosi al di sotto delle ipotesi attenuate dalla lieve entità del fatto ovvero della sua minore gravità o modestia.
7.6. L’esiguità del danno (o del pericolo) costituisce requisito per la non punibilità del fatto, che non può essere assorbito dalla non abitualità del comportamento: il reato attenuato occasionale resta pure sempre punibile.
7.7. S’è già detto che l’esiguità del danno presuppone ma non esclude l’offensività del reato, imponendo pertanto l’obbligatorio esercizio dell’azione penale (art. 112, Cost.) cui lo Stato rinuncia non già per l’esiguità - appunto - dell’offesa, bensì perché la tenuità del fatto incide sulla finalità rieducativa della pena (di qui la necessità che il comportamento non sia abituale).
7.8. S'é anche ricordato il principio secondo il quale l'offensività deve persistere dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice. Autorevoli pronunciamenti della Corte di cassazione hanno ulteriormente sottolineato lo stretto legame che deve intercorrere tra la “gravità oggettiva del reato”, la conseguente “proporzionalità della pena” e la “finalità rieducativa” della stessa (Sez. U, n. 46653 del 26/06/2015, Della Fazia; Sez. U, n. 47766 del 26/06/2015, Butera). Il Giudice delle leggi ha ribadito che «la sanzione criminale rappresenta non già la risposta alla mera disobbedienza o infedeltà alla legge, in quanto sintomatica di inclinazioni antisociali del soggetto; quanto piuttosto la reazione alla commissione di fatti offensivi di interessi che il legislatore, interprete della coscienza sociale, reputa oggettivamente meritevoli di essere salvaguardati da determinate forme di aggressione col presidio della pena» (Corte cost.le, Sent. 8 novembre 2006, n. 394). Una sanzione proporzionata alla gravità dell’offesa costituisce espressione del diritto inviolabile della persona (Sez. U, Della Fazia, cit.). Necessaria offensività del reato e finalità rieducativa della pena costituiscono un binomio inscindibile sancito dal combinato disposto di cui agli artt. 2, 3, 13, 25 e 27, Cost.. La finalità rieducativa della pena non appartiene solo alla fase esecutiva: è già nel precetto, nelle modalità stesse con cui è confezionato e nella sanzione prevista per la sua violazione (Corte Cost.le sentenza n. 364 del 1988). Si può affermare che la gravità dell’offesa costituisce, a livello di prevenzione generale, unità di misura della pena, ma non in via esclusiva in sede di prevenzione speciale (artt. 132, 133, cod. pen. e oggi anche 131-bis, cod. pen.). Altri criteri, oltre la gravità dell'offesa, concorrono a definire e a regolare l’an e il quomodo della pretesa punitiva al fine di meglio adeguarla alla finalità rieducativa della pena (perdono giudiziale, sospensione del procedimento con messa alla prova, sospensione condizionale della pena, pene sostitutive, sospensione dell’esecuzione della pena, misure alternative alla detenzione; solo per fare degli esempi).
7.9. Quel che ora preme evidenziare, alla luce delle considerazioni che precedono, è che: a) la finalità rieducativa della pena appartiene (anche) al diritto sostanziale, come pure - significativamente - l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, la cui collocazione codicistica, prima dell’art. 132, cod. pen., fornisce, a tal fine, un criterio interpretativo-sistematico fondamentale; b) la necessità della pena è collegata alla sua finalità rieducativa, sicché l’offesa al bene o comunque all'interesse tutelato può escludere la sua applicazione quando, in concreto, il fatto non esprime alcuna esigenza risocializzante del suo autore; c) solo la mancanza, in concreto, di tale esigenza legittima, sul piano costituzionale, la paralisi dell’azione penale.
7.10. L’istituto della particolare tenuità del fatto si inserisce in un sistema in cui l’azione penale è obbligatoria, sicché esso non può costituire (né essere interpretato alla stregua di un) criterio direttivo di politica criminale volto ad affermare il principio secondo il quale "de minimis non curat praetor”. Esso riguarda piuttosto il rimprovero per il singolo fatto, che non si giustifica quando, per la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, la pena non assolverebbe in alcun modo alla finalità rieducativa che la legittima (non a caso l’istituto in questione si collocava nella legge delega n. 67 del 28 aprile 2014 in un più ampio contesto di riforma del sistema sanzionatorio, non attuato dal Governo). La non punibilità per particolare tenuità del fatto, incidendo sui presupposti del rimprovero, si colloca a pieno titolo nell'ambito della colpevolezza, esaltando ancor più il principio di extrema ratio del diritto penale. Un diverso argomentare, che valorizzasse, per esempio, le esigenze deflattive dell'istituto, tradirebbe la centralità che la 'persona' assume nella Costituzione repubblicana, trasformandola da fine a mezzo di politiche criminali ispirate a logiche del tutto estranee anche all'obbligatorietà dell'azione penale.
7.11. In conclusione, la modesta gravità del fatto non esclude la offensività della condotta né la natura esigua del pericolo derivante dalla condotta addebitata all’imputato, sanzionata dal Giudice con una pena superiore al minimo edittale.
12. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso (che osta alla rilevabilità della prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata) consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 12/12/2019.