TAR Piemonte SEz. I sent. 1563 del 5 giugno 2009
Rifiuti. Definizione di biomasse
Là dove si verta in tema di procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 per l’installazione di una centrale elettrica a biomasse, non potrà che definirsi la biomassa alla luce della definizione che si ricava direttamente dalla direttiva 77/2001/CE di cui tale decreto legislativo è attuativo e che si occupa specificamente di fonti energetiche rinnovabili; quindi verrà in considerazione la definizione dettata dall’art. 2 della direttiva. In sede definitoria anche l’art. 2 del d.lgs. 387/2003 riprende testualmente la direttiva e stabilisce “.. per biomassa si intende: la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Questa è, si ribadisce, l’unica definizione di biomassa presente nella legislazione italiana rilevante e congruente con la pertinente direttiva al fine di stabilire cosa possa intendersi per biomassa nel contesto di disciplina afferente le fonti rinnovabili di energia, che qui interessa; essa, come chiarito nei considerando della direttiva di cui è attuazione, può poi convivere con altre e solo parzialmente coincidenti definizioni.
Rifiuti. Definizione di biomasse
Là dove si verta in tema di procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 per l’installazione di una centrale elettrica a biomasse, non potrà che definirsi la biomassa alla luce della definizione che si ricava direttamente dalla direttiva 77/2001/CE di cui tale decreto legislativo è attuativo e che si occupa specificamente di fonti energetiche rinnovabili; quindi verrà in considerazione la definizione dettata dall’art. 2 della direttiva. In sede definitoria anche l’art. 2 del d.lgs. 387/2003 riprende testualmente la direttiva e stabilisce “.. per biomassa si intende: la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”. Questa è, si ribadisce, l’unica definizione di biomassa presente nella legislazione italiana rilevante e congruente con la pertinente direttiva al fine di stabilire cosa possa intendersi per biomassa nel contesto di disciplina afferente le fonti rinnovabili di energia, che qui interessa; essa, come chiarito nei considerando della direttiva di cui è attuazione, può poi convivere con altre e solo parzialmente coincidenti definizioni.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1628 del 2007, proposto da:
Silvateam New Tech Srl, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Munari, Paolo Scaparone, Andrea Blasi, con domicilio eletto presso l’avv.to Paolo Scaparone in Torino, via S. Francesco D'Assisi, 14;
contro
Provincia di Asti, in persona del dirigente del servizio ambiente Angelo Marengo, rappresentata e difesa dall'avv.to Carlo Berruti, con domicilio eletto presso la Segreteria Tar Piemonte in Torino, corso Stati Uniti, 45;
Comune di Castagnole delle Lanze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv.to Patrizia Polliotto, con domicilio eletto presso l’avv.to Patrizia Polliotto in Torino, via Roma, 366;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
- della determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5.10.2005, ricevuta in data 11.10.2007, con la quale è stato disposto di non attivare le procedure previste dall'art. 12 del Dlgs. n. 387/2003 e conseguentemente di archiviare l'istanza di autorizzazione presentata da Silvateam New Tech s.r.l. per la costruzione e l'esercizio di un impianto di energia elettrica alimentato a cippato di legno nel Comune di Castagnole Lanze, nonché della nota del 5.10.2007, prot. 61691, ricevuta in data 11.10.2007, con la quale sono state trasmesse la suddetta determinazione dirigenziale n. 7602 e le Linee Guida;
- delle Linee Guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse - indirizzi per la formazione del parere provinciale nell'ambito della Conferenza di Servizi ex art. 12 del Dlgs. n. 387/2003 e della relativa deliberazione del Consiglio Provinciale di Asti n. 50 del 25.9.2007 di approvazione delle medesime, comunicate con la citata nota del 5.10.2007, prot. 61691, ricevuta in data 11.10.2007;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente, ivi compreso, per quanto occorra, il parere tecnico formulato dall'ARPA e trasmesso alla Provincia di Asti con note prot. 105868 del 6.8.2007, prot. 107620 del 9.8.2007 e prot. 111556 del 21.8.2007 (non noto), la nota della Provincia di Asti del 14.8.2007 prot. 52071 del 14.8.2007 con la quale la Provincia ha comunicato i motivi ritenuti ostativi all'accoglimento dell'istanza presentata dalla ricorrente; la nota dell'ARPA del 4.10.2007 prot. 129303 (non nota).
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Provincia di Asti;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Castagnole delle Lanze;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 07/05/2009 la dott.ssa Paola Malanetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Parte ricorrente ha adito l’intestato TAR deducendo che il Comune di Castagnole delle Lanze ha individuato nel proprio piano di insediamenti produttivi (PIP) un’area da destinare a nuovo insediamento denominata PIP “Valle Tanaro”, situata in prossimità del casello autostradale; nell’aprile 2006 Silvateam s.r.l. prendeva contatti con il Comune per rappresentare la propria intenzione di realizzare presso tale area una centrale termoelettrica alimentata con fonti rinnovabili, e in particolare biomasse combustibili, in specifico “cippato di legno”. In seguito a trattative con il Comune la ricorrente otteneva l’assegnazione di un’area nella zona produttiva PIP Valle Tanaro della superficie di 23.511 mq per la realizzazione della centrale a biomasse “attraverso l’uso di legno di scarto naturale”; con deliberazione del 27 febbraio 2007 il Consiglio comunale approvava all’unanimità la convenzione “per la progettazione, realizzazione ed esercizio di una centrale termoelettrica funzionante a legna”, nella quale il Comune si impegnava a cooperare con la ricorrente per una pronta definizione degli ulteriori iter amministrativi di competenza della medesima amministrazione comunale”; con successiva deliberazione n. 19 del 14 maggio 2007, il Consiglio Comunale, aderendo alle richieste di un “Comitato di difesa della Valle Tanaro” , deliberava di “sospendere l’efficacia della propria precedente delibera n. 1 del 27.2.2007 con la quale aveva approvato la bozza di convenzione tra il Comune di Castagnole delle Lanze e la Silvateam New Tech s.r.l.” e ciò fino all’emanazione delle “Linee Guida da parte della Provincia di Asti”. La deliberazione n. 19 del 2007 veniva impugnata con separato ricorso innanzi a questo TAR.
In data 19 luglio 2007 la ricorrente presentava alla Provincia di Asti la “domanda di autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003” per la realizzazione della centrale, domanda munita degli allegati tecnici previsti dalla vigente normativa; la centrale, per la quale era prevista una potenza termica nominale al focolare di 48,5 MWt e una potenza elettrica netta di 13,5 MWe, è destinata ad essere alimentata con legno naturale, in particolare cippato di legno detannizzato, segatura, cortecce e scarti di legno. Il legno detannizzato è legno risultante da un processo industriale di estrazione del tannino effettuato esclusivamente con aria e acqua calda. Il progetto risulta avere un impatto ambientale positivo in quanto sito, dal punto di vista strutturale, in prossimità del casello autostradale e destinato a produrre energia con l’impiego di legno già proveniente da altro processo produttivo, e dunque senza incidere sul patrimonio boschivo. La Provincia comunicava alla ricorrente, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di autorizzazione, evidenziando che non sussistevano le condizioni per avviare il procedimento ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, in quanto il cippato non rientra nella definizione di “biomassa combustibile” di cui al d.lgs. 152/2006 poichè viene sottoposto ad un trattamento sia meccanico che termico. La ricorrente presentava osservazioni ma la Provincia, con argomentazioni contraddittorie, determinava di “archiviare la domanda di autorizzazione presentata in data 19 luglio 2007, prot. 47458 della Società Silvateam New Tech”. Con nota prot. 61691, ricevuta in data 11 ottobre 2007, la Provincia trasmetteva copia delle “Linee Guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse” e della relativa deliberazione di approvazione del Consiglio Provinciale n.50 del 25 settembre 2007. Anche tali linee guida presentano profili di illegittimità in quanto contrastanti con gli obblighi di diritto comunitario, poiché impediscono in fatto lo sfruttamento dell’energia proveniente da fonti rinnovabili sul territorio della Provincia di Asti; a seguito dell’adozione delle “Linee Guida” il Comune avviava il procedimento volto a revocare la deliberazione n. 1 del 27 febbraio 2007, con la quale era stata approvata la Convenzione, motivando appunto sulla scorta delle “Linee Guida” provinciali.
Lamenta parte ricorrente l’illegittimità della determinazione n. 7602/07 per violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 17 del d.lgs. n. 387/2003, del d.lgs. 152/2006, dell’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, dell’art. 183 del d.lgs. 152/2006, nonché dell’art. 6 della Direttiva n. 2001/77/CE; la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e comunque l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione.
La Provincia infatti sostiene che il legno detannizzato non rientra nella nozione di biomassa combustibile prevista dall’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, in particolare nella sua parte II sez. 4 punto 1.d), in quanto il legno detannizzato subisce un trattamento chimico-fisico e non meccanico; per tali motivi non sarebbe applicabile il regime autorizzatorio previsto dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003, letto in combinato disposto con l’art. 17 del d.lgs. 387/2003. Tali argomentazioni riprendono il contenuto del parere ARPA del 6 agosto 2007 e quanto già anticipato nella comunicazione ex art. 10 bis della l. 241/1990.
Insiste parte ricorrente che la biomassa di cui trattasi è costituita da legno vergine tagliato a pezzi (cd. cippatura), lavato con acqua calda, successivamente strizzato meccanicamente ed essiccato a vapore; tale trattamento deve considerarsi esclusivamente meccanico. La qualificazione del materiale come biomassa è evincibile dalle norme dettate dal Comitato Europeo di Standardizzazione che definisce come “trattamento chimico” qualsiasi trattamento con sostanze chimiche diverse da aria e acqua; a sua volta il d.lgs. 152/2006 definisce la biomassa come materiale vegetale non contaminato da inquinanti e non individua né l’aria né l’acqua nell’elenco delle sostanza inquinanti.
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, inoltre, ha chiarito che una sostanza non può essere considerata rifiuto se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta, senza la necessità che essa soddisfi il fabbisogno dello stesso operatore o sia utilizzata dal medesimo produttore; in ogni caso una sostanza non può essere rifiuto se può essere utilizzata in termini commercialmente vantaggiosi, rappresentando per il produttore un valore economico e non un onere. In particolare la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sottoprodotti dal 21 febbraio 2007, effettuata dalla Commissione al Consiglio e al Parlamento europei, ha chiarito che un materiale non va considerato rifiuto quando: è di fatto utilizzabile, è il risultato di una scelta produttiva, può essere utilizzato con ricavo o profitto; viene preparato come parte integrante del processo di produzione del prodotto principale, ferme le caratteristiche di cui sopra.
Tali orientamenti sono stati recepiti dall’art. 183 lett. n. del d.lgs. 152/2006.
D’altro canto una interpretazione che escluda il cippato dalle biomasse si porrebbe in insanabile contrasto con la direttiva 2001/77/CE, che impone agli stati membri di eliminare gli ostacoli normativi alla produzione di energia da fonti rinnovabili e di garantire norme trasparenti, non discriminatorie e rispettose delle nuove tecnologie.
Si contesta inoltre la illegittimità delle Linee Guida per incompetenza della Provincia ad adottarle, nonché per violazione e falsa applicazione del d.lgs. 387/2003, artt. 10 e 12, dell’art. 29 d.lgs. 112/98, dell’art. 52 LR Piemonte 44/2000 e degli artt. 2 e 3 L.R. Piemonte n. 23/2002, nonché per violazione e falsa applicazione della direttiva 2001/77/CE e violazione del principio dell’effetto utile del diritto comunitario; violazione e falsa applicazione dell’art.1 della l. n. 239/2004 e del d.lgs. 79/99. In particolare la Provincia non ha alcuna competenza ad adottare linee guida che pregiudichino o vanifichino l’effetto utile della normativa comunitaria e statale, restringendo le possibilità di sfruttamento delle energie rinnovabili poiché, ai sensi dell’art. 10 d.lgs. 387/2003, le Regioni possono adottare misure per promuovere l’aumento di consumo di energia proveniente da fonti rinnovabili e non per limitarlo; la legge regionale inoltre colloca in capo alle Regioni le funzioni amministrative che richiedono un unitario esercizio sul territorio e consente l’adozione di norme di indirizzo e coordinamento che incentivino le fonti rinnovabili.
Inoltre, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 387/2003, il procedimento autorizzatorio per la costruzione e l’esercizio di impianti alimentati a biomasse deve essere concentrato in seno ad una conferenza di servizi; erroneamente le linee guida adottate partono dalla vetusta idea che lo sfruttamento delle biomasse debba necessariamente collegarsi alla filiera agricola; se pure ciò è ovviamente possibile, non è corretto legare lo sfruttamento di biomasse al solo specifico settore agricolo, posto che la Commissione europea tende ad incoraggiare tutte le possibili forme di sfruttamento delle biomasse; erroneamente dunque le linee guida privilegiano forme di utilizzo delle biomasse provenienti per lo più dalle risorse locali dell’agricoltura e con ricadute su quest’ultima positive in termini di certificati verdi; esse inoltre, del tutto impropriamente, dettano disposizioni sulla definizione di bacini di approvvigionamento ottimali e dimensionamento degli impianti, così consentendo la realizzazione di impianti con potenza termica di soli 7 MWt per unità territoriale e complessiva per provincia di 50 Mwt ed impongono l’obbligo di approvvigionamento dal territorio locale.
Tutte le suddette limitazioni, oltre ad essere prive di base normativa, non sono giustificate da ragioni di sostenibilità ambientale, non essendo questa valutabile in maniera generalizzata e avulsa dal singolo progetto; infine le linee guida contengono prescrizioni di dettaglio e vincolanti circa gli impianti ammessi e la loro localizzazione, fornendo una sorta di aprioristica valutazione negativa di determinati impianti, ad esempio già chiarendo di privilegiare gli impianti medio-piccoli, con ciò contravvenendo le direttive dettate dalla Commissione Europea che incoraggia indistintamente tutte le forme di produzione di elettricità mediante biomassa economicamente efficienti; ad esempio l’approvvigionamento della biomassa, anche al di fuori di quello che le linee guida considerano bacino di approvvigionamento ottimale, potrebbe dare luogo ad un impatto ambientale positivo, così come gli impianti di grandi dimensioni presentano vantaggi di sostenibilità economica; senza contare che la limitazione delle fonti di approvvigionamento si pone in contrasto con le libertà fondamentali del Trattato CE, tra cui la libera circolazione delle merci. Infine le limitazioni di ordine geografico violano i principi vigenti in ambito OMC-WTO, cui l’Italia aderisce.
Le Linee Guida considerano fonte di biomassa pressocchè esclusivamente il patrimonio boschivo, il verde pubblico e l’attività agricola; ignorano invece il considerevole numero di aziende operanti nell’industria del legno e agroalimentare; esse appaiono illegittime anche là dove impongono che gli impianti alimentati a biomasse garantiscano l’uso produttivo della maggior parte del calore residuo associato alla produzione di energia elettrica, circostanza da documentarsi con appositi contratti o accordi stipulati con aziende. Non sussiste alcuna previsione normativa in tal senso; d’altro canto il beneficio ambientale di questa tipologia di impianto non è di per sé vanificato dall’eventuale impossibilità della cogenerazione; in ogni caso pare difficile, se non impossibile, che, a livello puramente progettuale, si possano ottenere contratti o accordi con aziende in un sito industriale di nuova realizzazione e come tale ancora privo delle stesse aziende con cui accordarsi.
Infine le linee guida prevedono la non commutabilità della tipologia di biomassa combustibile per almeno 10 anni dal rilascio dell’autorizzazione; anche tale limitazione pone un termine eccessivamente lungo e non considera che l’eventuale impiego di biomasse legnose diverse da quelle originariamente prospettate può presentarsi ad impatto ambientale neutro.
Si è costituita la Provincia di Asti deducendo che l’impianto prospettato nell’istanza presentata alla Provincia da Silvateam in data 19.7.2007, prot. n. 47458, prevedeva la combustione di cippato di legno detannizzato (proveniente dal sito industriale di San Michele Mondovì, gestito dalla società Ledoga s.r.l., la quale realizza l’estrazione del tannino con il lavaggio di cippato di legno combustibile e di castagno con acqua surriscaldata a 112°), cortecce e scarti di taglialegna, segatura e taglialegna provenienti dal sito industriale di San Michele Mondovì, e segatura, cippato e altri scarti legnosi provenienti dalla Provincia di Asti. La Provincia chiedeva parere tecnico al Dipartimento Provinciale ARPA Piemonte per qualificare giuridicamente il materiale utilizzato per alimentare l’impianto; L’ARPA con note prot. n. 105868 del 6.8.2007 e n. 107620 del 9.8.2007 e n. 111556 del 21.8.2007 rispondeva affermando che “i rifiuti consistenti in legna trattata con acqua calda per estrarre il tannino non rientrano nella definizione di biomassa combustibile di cui all’allegato X, parte II, Sezione 4, alla parte V del d.lgs. 152/2006, utilizzabile negli impianti di cui ai Titoli I e II della parte V del d.lgs. citato, in quanto il materiale non viene sottoposto ad un trattamento “esclusivamente meccanico”, come previsto dalla normativa ambientale.
La Provincia comunicava, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241/90, con nota prot. 520/1 del 14.8.2007, l’intendimento di archiviare l’istanza; parte ricorrente presentava osservazioni chiedendo di attivare la procedura di autorizzazione ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 387/2003; in data 17.9.2007 si teneva un incontro con la società ricorrente e, in data 1.10.2007, udite le controdeduzioni, la Provincia chiedeva all’Arpa di confermare il precedente parere del 9.8.2007. L’ARPA rispondeva con nota n. 129303 del 4.10.2007 nella quale trasmetteva il parere rilasciato dalla SC 03 “area delle attività regionali per l’indirizzo e il coordinamento delle attività per il rischio industriale e sviluppo compatibile” dando atto che, stante la complessità dell’argomento, si era ritenuto anche di chiedere un chiarimento all’Ufficio legale dell’ARPA Piemonte.
In data 3.10.2007 con nota prot. n. 128664 l’ARPA trasmetteva il parere del responsabile SS03.01, interlocutorio, nel quale si evidenziava come la normativa nazionale orienterebbe verso la classificazione del materiale (cippato di legno detannizzato) quale sottoprodotto, dall’altra la giurisprudenza comunitaria e nazionale stigmatizzerebbe il contrasto della norma italiana con il diritto comunitario; una interpretazione precauzionale porterebbe a classificare il materiale come sottoprodotto solo se utilizzato nell’ambito del medesimo ciclo produttivo; in ogni caso l’ARPA dichiarava di non ritenersi competente alla classificazione del materiale come fonte rinnovabile di energia e dunque a valutare l’applicabilità del d.lgs. 387/2003.
La Provincia archiviava l’istanza classificando il materiale come rifiuto. Evidenzia in particolare che il lavaggio del legno con acqua calda esclude che il trattamento possa definirsi “esclusivamente meccanico”; l’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, nella parte II sez. 4 lett. d), individua la biomassa combustibile come “materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati, cascami di sughero vergine, tondelli, non contaminati da inquinanti”. Mancherebbe nel caso di specie il requisito della lavorazione esclusivamente meccanica. D’altro canto l’elenco delle biomasse combustibili di cui al d.p.c.m. 8.3.2002 è stato integrato con il d.p.c.m. 8.10.2004 per inserire tra le biomasse vegetali la sansa di oliva disoleata; tale materiale effettivamente subisce un trattamento meccanico-fisico ma, in mancanza dell’espressa previsione resasi perciò necessaria, non avrebbe potuto rientrare nella nozione di “trattamento meccanico”. Il mero fatto che il legno detannizzato non risulti sottoposto ad un trattamento inquinante, in assenza del requisito del trattamento solo meccanico, non sarebbe dunque idoneo ad annoverare il prodotto tra le biomasse. Inoltre la Comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo relativa ai rifiuti e ai sottoprodotti, del 21.2.2007, prevede la possibilità che un materiale sia considerato sottoprodotto e non rifiuto nei seguenti casi: legalità di utilizzo, riutilizzo certo e non eventuale, assenza di trasformazioni preliminari al riutilizzo e riutilizzo nel corso del processo di produzione; per tali motivi il materiale in questione, non essendo utilizzato nel medesimo processo di produzione, non può essere considerato “sottoprodotto”. In tal senso l’articolo 183 del d.lgs. 152/06, come modificato dal D. Lgs. 4/2008, ha visto espunta la parte del disposto normativo che qualificava i sottoprodotti tali anche quando semplicemente “commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa”, di tal che residua la sola possibilità di utilizzare i sottoprodotti all’interno dello stesso ciclo di produzione. Ancora il sottoprodotto è tale se non richiede alcuna operazione di recupero; per contro il DM 5/2/98 configura le operazioni di lavaggio e cippatura come operazioni di recupero.
Quanto al lamentato rigetto immotivato dell’istanza evidenzia parte resistente di avere tenuto in debita considerazione le osservazioni formulate dall’istante, che per altro si era limitata a riproporre le argomentazioni già addotte in prima battuta; quanto alla violazione della normativa comunitaria, ed in particolare della direttiva 2001/77/CE, afferma che destinatario della medesima deve ritenersi lo Stato italiano, che ha provveduto al recepimento con il d.lgs. 387/2003, per cui per la Provincia si è posta solo più la questione di una corretta interpretazione delle esclusioni previste dall’art. 17 del d.lg. 387/2003.
Difende altresì la scelta di omettere del tutto la convocazione della conferenza di servizi in quanto ciò presuppone la previa valutazione dei requisiti di procedibilità dell’istanza da parte del responsabile del procedimento e, solo superato tale preliminare vaglio, deve convocarsi la conferenza di servizi. L’esito negativo della preistruttoria da parte della Provincia ha inevitabilmente precluso la convocazione della Conferenza di Servizi.
Quanto alle doglianze mosse avverso le “Linee Guida” evidenzia la Provincia come il sistema decentrato ed integrato delle regioni ed enti locali in materia energetica contempli un ruolo di programmazione sul territorio degli enti locali; in particolare l’art. 31 del d.lgs. 112/98 attribuisce alla Province la redazione e l’adozione dei programmi di intervento per la promozione di fonti rinnovabili e la competenza in tema di autorizzazione alla installazione ed all’esercizio degli impianti di produzione di energia. La legge Regione Piemonte n. 44/2000 all’art. 3 attribuisce alle Province la competenza in ordine alla attuazione del Piano Regionale Energetico-Ambientale, il controllo e l’uso razionale dell’energia, il rilascio di autorizzazioni per l’installazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica, compresi gli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui al d.lgs. 387/03, e l’assunzione del procedimento unico delineato dall’art. 12 del d.lgs. 387/03. In tale contesto la Provincia ha adottato le linee guida. Esse costituiscono atto interno alla pubblica amministrazione, che ivi esaurisce la sua portata ed è privo di efficacia esterna e valenza immediatamente lesiva delle posizioni giuridiche dei soggetti estranei all’amministrazione; trattasi di indicazioni neppure vincolanti per l’amministrazione emanante, che resta libera di modificarle in ogni momento; in ogni caso le linee guida non hanno trovato alcuna applicazione alla ricorrente.
Sul punto il ricorso è dunque inammissibile in quanto carente del prescritto interesse ad agire.
In ogni caso legittimamente la Provincia di Asti ha ritenuto di promuovere e favorire la produzione di energia elettrica da biomasse provenienti dall’agricoltura locale; le linee guida, espressamente riferite alle biomasse legnose, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, contemplano anche gli scarti delle industrie del legno; gli obiettivi comunitari e nazionali in tema di incentivazioni delle energie rinnovabili devono essere attuati nel rispetto dei principi di sostenibilità economica, ambientale e sociale degli interventi essendo evidente che, tanto più lontane sono le fonti di approvvigionamento, tanto maggiore sarà l’inquinamento prodotto nel trasporto, dato che consiglia di limitare il bacino di approvvigionamento a quindi le dimensioni degli impianti in ragione delle esigenze locali, scelte per altro compatibili con il Piano Energetico Regionale predisposto dalla Regione Piemonte e anche con la Strategia UE per i biocarburanti COM 34/2006; insiste infine la Provincia sui riconosciuti vantaggi della cogenerazione; in particolare il d.lgs. n. 20/2007, attuativo della direttiva 2004/8/CE, promuove la cogenerazione sicchè il piano energetico ambientale della Regione Piemonte indirizza le amministrazioni verso la massima incentivazione della cogenerazione; il vincolo decennale di non commutabilità dell’impianto è infine finalizzato ad impedire che impianti originariamente finalizzati all’utilizzo di fonti rinnovabili possano essere utilizzati per soluzioni a più elevato impatto ambientale.
Ribadita l’inammissibilità delle censure mosse avverso le linee guida, parte resistente Provincia di Asti chiedeva respingersi il ricorso.
Si costituiva altresì il Comune di Castagnole delle Lanze il quale, dopo aver riassunto l’iter dell’istanza presentata dalla ricorrente presso la Provincia, esponeva che, preso atto che la Provincia aveva ritenuto di considerare il cippato quale rifiuto e non quale biomassa, aveva adottato la deliberazione n. 19 del 14.5.2007 con la quale aveva sospeso la firma della Convenzione precedentemente predisposta ed afferente i rapporti tra Comune e Silvateam relativi alla centrale a biomasse, e ciò in attesa che la Provincia approvasse le pertinenti “Linee Guida”; con successiva deliberazione n. 38 del 30.10.2007, preso atto del provvedimento negativo emesso dalla Provincia in relazione all’istanza di autorizzazione all’insatallazione presentata da Silvateam, il Comune aveva revocato il perfezionamento della Convenzione con Silvateam.
Nel merito si associava alle difese della Provincia, in particolare evidenziando come già il d.lgs. n. 22 del 5.2.1997 inquadrasse ogni residuo di lavorazione nella categoria dei rifiuti; secondo il d.lgs. 16.3.1999 n. 79 tra le fonti rinnovabili rientrerebbe a pieno titolo la “trasformazione in energia elettrica di prodotti vegetali non trattati chimicamente”; il decreto n. 401 del 1999, recante norme sulla concessione di aiuti a favore della produzione e utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili nel settore agricolo, stabiliva in maniera tassativa ciò che si dovesse intendere per “biomassa” elencando: legna da ardere, residui lignocellulosici puri, sottoprodotti di coltivazioni agricole ed ittiche, colture agricole forestali dedicate, liquami e reflui zootecnici e acquicoli. Il d.p.c.m. 8.10.2004, in modifica del d.p.c.m. 8.3.2002, elenca in modo tassativo le biomasse combustibili all’art. 3 co. 1 lett. m) e 6 co. 1 lett. h) ed in particolare, al numero 4), include il “materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura e trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di legno vergine.” Per tale ragione il legno detannizzato non può includersi tra le biomasse. D’altro canto la stessa Corte di Giustizia delle Comunità europee ha sempre difeso una interpretazione ampia della nozione di rifiuto, in coerenza con gli obiettivi della direttiva 2006/12/CE e con l’art. 174, paragrafo 2, del trattato CE, che impone alla Comunità di adottare un elevato livello di tutela ambientale. La Corte di Giustizia ha ritenuto qualificabile come rifiuto qualsiasi sostanza di cui l’interessato intende “disfarsi” ed ha affermato che sono le circostanze specifiche a fare di una sostanza un rifiuto. Secondo la Corte di Giustizia può essere inteso quale sintomo del fatto che una sostanza non sia rifiuto la circostanza che la sua produzione sia il risultato di una deliberata scelta produttiva, che l’imprenditore avrebbe anche potuto evitare; tuttavia occorre che il riutilizzo del materiale avvenga nel corso del processo di produzione. Inoltre, per il legislatore ambientale, un prodotto, per essere definito biomassa, deve essere il risultato di una lavorazione esclusivamente meccanica e non deve essere contaminato da inquinanti; nel caso di specie mancherebbe il requisito della lavorazione esclusivamente meccanica.
Corretta doveva poi ritenersi la scelta della Provincia di non convocare la conferenza di servizi, preso atto dell’esito negativo della preistruttoria e della mancanza delle condizioni di ammissibilità della domanda.
Evidenziava infine il Comune come gli atti dal medesimo adottati in seguito al diniego espresso dalla Provincia ne fossero necessaria conseguenza; in particolare la deliberazione n. 19 del 14.5.2007, con la quale era stata sospesa la firma della convenzione, la deliberazione n. 38 del 30.10.2007, con la quale era stato revocato il perfezionamento della Convenzione con la società Silvateam, la deliberazione n. 1 del 29.1.2008, con quale il Comune aveva revocato l’originaria deliberazione sospendendo l’intera procedura convenzionatoria, e la determinazione n. 18 del 27.10.2008, di revoca dell’assegnazione dei terreni, nelle more intervenuta nell’ambito del PIP, e collegato trattenimento della caparra, risultavano essere tutti atti dovuti alla luce delle posizioni assunte dalla Provincia. Si associava infine alle difese della Provincia in punto inammissibilità delle censure mosse avverso le linee guida, per non avere queste trovato applicazione alla ricorrente, essendosi il procedimento arrestato prima.
Con memoria depositata il 24.4.2009 Silvateam ha ribadito le proprie tesi difensive evidenziando che, in data 12.3.2008, la Commissione Europea - DG ambiente - ha emesso, in risposta ad un quesito posto dal Consiglio Nazionale dei Chimici italiano, il parere prot. D(2008)3842 chiarendo che il legno risultante dal processo di estrazione del tannino è un prodotto e non un rifiuto ed in ogni caso beneficia della disciplina dettata dalla direttiva 77/2001/CE, e quindi, in Italia, dal d.lgs. n. 387/2003 che vi ha dato attuazione, poiché la direttiva chiarisce che anche la parte biodegradabile dei rifiuti può essere inclusa nella biomassa. Pertanto il legno detannizzato deve classificarsi prodotto e non rifiuto e, anche a prescindere dalla sua qualificazione, il medesimo può beneficiare della disciplina dalla Direttiva 77/2001/CE; nel corso del 2008 la Commissione europea ha presentato una proposta di Direttiva volta ad ulteriormente rafforzare lo sfruttamento di fonti rinnovabili di energia e, nella relazione accompagnatoria della medesima, sottolinea come le maggiori difficoltà nello sfruttamento delle biomasse derivino dagli ostacoli amministrativi e autorizzatori frapposti in molti Stati e, in particolare come l’Italia sia ancora lontana dagli obiettivi tanto nazionali che europei fissati in materia.
Inoltre la direttiva 2008/98/CE del 19.11.2008, relativa ai rifiuti, ha definito i sottoprodotti come non assimilabili ai rifiuti e quindi esclusi dall’applicazione della direttiva medesima ed ha chiarito, codificando principi giurisprudenziali, che una sostanza è sottoprodotto se è certo che sarà ulteriormente utilizzata, può essere utilizzata senza alcun ulteriore trattamento, è prodotta come parte integrante del processo di produzione, e il suo utilizzo è legale, nel senso che rispetta tutti i requisiti prescritti per la protezione della salute e dell’ambiente. Ne deriva l’obbligo di una interpretazione complessivamente conforme alla disciplina comunitaria del diritto nazionale.
Infine parte ricorrente evidenzia ulteriormente che, in data 2.3.2009, il GSE Gestore Servizi Elettrici, in seguito ad apposita domanda presentata da Silvateam ha qualificato l’impianto come “alimentato da fonti rinnovabili” e quindi legittimato a beneficiare delle relative agevolazioni.
Il d.lgs. 133/2005 ha escluso dalla normativa in tema di rifiuti tutte le biomasse avviate a combustione; anche poi a voler considerare, a fini interpretativi, il superato d.m. 5.2.1998, citato dalle parti resistenti e travolto dal d.lgs. 133/2005, risulta comunque che detto d.m. individua possibili attività finalizzate all’esclusivo recupero di scarti quali lavaggio, cernita, adeguamento volumetrico e cippatura; nel caso del legno detannizzato, per contro, tanto il lavaggio che la cippatura, in quanto già parte integrante del processo di estrazione del tannino, non possono ricondursi ad operazioni di recupero né si rendono ulteriormente necessari al termine dell’unico processo produttivo.
In ogni caso, proprio alla luce dei parametri di classificazione dei sottoprodotti dettati dalla giurisprudenza comunitaria, il processo produttivo di estrazione del tannino posto in essere da Ledoga s.r.l. utilizza deliberatamente acqua surriscaldata per ottenere il tannino, quindi adotta una scelta produttiva per poter produrre anche il cippato di legno detannizzato, il cui reimpiego è certo in quanto ampiamente richiesto sia come combustibile sia per le centrali a biomasse. Il suo reimpiego procura ricavi al produttore e non necessita di alcun ulteriore trattamento né ha alcun impatto ambientale negativo. Infine la più recente giurisprudenza comunitaria ha evidenziato l’irrilevanza del reimpiego del sottoprodotto necessariamente nel medesimo ciclo produttivo, fermo il rispetto delle condizioni sopra elencate.
Quanto all’impugnativa delle linee guida parte ricorrente ne afferma in principalità la non applicabilità alla propria istanza di autorizzazione, in quanto presentata diversi mesi prima della loro adozione, prendendo anche atto del fatto che, nelle proprie difese, la stessa Provincia le qualifica non vincolanti; in ogni caso insiste per l’immediata lesività e quindi annullabilità di quelle prescrizioni che paiono puntuali e vincolanti, là dove ad esempio impongono di utilizzare biomasse di una determinata provenienza; in ogni caso ribadisce l’assunto per cui la Provincia potrebbe incentivare e promuovere lo sviluppo di fonti rinnovabili e non ostacolarlo. Ribadisce inoltre l’inadeguatezza di un sistema di valutazione aprioristica dell’impatto ambientale dell’impianto, considerata l’impossibilità di affermare a priori e in astratto che tale impatto sia sempre minore qualora le biomasse provengano dall’agricoltura locale; evidenzia per contro i pregi dell’impianto proposto; ribadisce la frizione tra l’impostazione evincibile dalle linee guida provinciali e la libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 del Trattato CE, in quanto impedirebbero a biomasse di provenienza comunitaria (in particolare molta biomassa è prodotta nei paesi scandinavi) di essere utilizzata negli impianti della Provincia di Asti; insiste per l’accoglimento del ricorso con annullamento anche delle linee guida.
DIRITTO
I presupposti in fatto della presente vertenza sono pacifici tra le parti: è infatti pacifico che Silvateam New Tech s.r.l. ha presentato alla Provincia di Asti istanza per ottenere, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003, l’autorizzazione ad installare una centrale a biomasse nel Comune di Castagnole delle Lanze; la ricorrente prospetta nel progetto di alimentare la centrale in particolare con cippato di legno detannizzato. Le parti concordemente affermano che tale cippato di legno deriva da un processo di estrazione del tannino portato a termine attraverso il solo impiego di acqua e aria calda; il cippato di legno di castagno viene successivamente lavato con acqua surriscaldata a 112° e poi strizzato meccanicamente ed essiccato mediante vapore. E altresì pacifico che nessun additivo chimico è utilizzato nel processo produttivo e che il cippato residuo altro non è che cippato di legno privato del tannino.
Per una corretta impostazione della causa occorre prendere le mosse dal diritto comunitario di cui il d.lgs. 387/2003 è diretta attuazione, ossia la direttiva 77/2001/CE, finalizzata a promuovere lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabili.
Il diniego oggetto principale della presente impugnativa afferisce in particolare al procedimento di autorizzazione unica all’installazione della centrale a biomasse semplificato ex lege con il modulo della conferenza di servizi come previsto dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003; la Provincia ha ritenuto di non attivare neppure il procedimento formulando un negativo vaglio preliminare di ammissibilità dell’istanza in quanto il cippato non sarebbe qualificabile biomassa bensì rifiuto.
Il primo parametro interpretativo utilizzabile per l’intelligenza del significato di una norma nazionale di diretta derivazione comunitaria è ovviamente la normativa comunitaria stessa, per la necessità imprescindibile di garantire la primazia del diritto comunitario, il suo effetto utile, nonché di interpretare la normativa nazionale in senso conforme alle regole di cui costituisce attuazione; scorretta risulterebbe l’inversione dell’iter logico procedendo ad esempio secondo la centralità della sola legge nazionale magari letta, con una vera inversione di gerarchia delle fonti, alla luce di parametri normativi secondari quali i decreti ministeriali che ne devono costituire attuazione e non ostacolo.
La direttiva 77/2001/CE evidenzia, nei considerando introduttivi, la preoccupazione che la politica comunitaria di incentivazione della produzione energetica da biomasse non vanifichi l’altrettanto fondamentale politica comunitaria di “gestione” dei rifiuti; tuttavia il nono considerando della direttiva specifica: “la definizione di biomassa utilizzata nella presente direttiva lascia impregiudicato l'utilizzo di una definizione diversa nelle legislazioni nazionali per fini diversi da quelli della presente direttiva.”
L’articolo 2 lett. b) della direttiva definisce biomassa: “b) "biomassa" la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Dall’insieme dei due assunti, che in sé riassumono il cuore della presente vicenda, si evincono due fondamentali considerazioni: è “fisiologico” che la problematica dei rifiuti e quella delle biomasse si intersechino, al punto che nella definizione di “biomassa” dettata dalla direttiva 77/2001 entra tout court la parte biodegradabile dei rifiuti; d’altro canto è “fisiologico” che nel sistema coesistano più definizioni di biomassa, dettate nel contesto di diverse discipline, magari tutte di derivazione comunitaria, tant’è che la direttiva 77/2001 si preoccupa espressamente di fare salve le eventuali preesistenti e diverse definizioni di biomassa.
Ne risulta di immediata evidenza la possibile inutilità di tentare la ricostruzione di un’unica e universalmente valida definizione di biomassa, proprio perché tale tentativo si scontrerebbe con la molteplicità di definizioni prevista e tollerata dal sistema.
Diviene allora preliminarmente necessario comprendere a quale fine e in quale contesto la definizione di biomassa deve essere ricostruita, per poter procedere all’individuazione della giusta definizione. Ne deriva infine la fisiologica possibilità che, ciò che in un determinato contesto è soltanto un “rifiuto”, in un altro possa assumere il valore di fonte rinnovabile di energia.
Ora è evidente che, là dove si verta in tema di procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 per l’installazione di una centrale elettrica a biomasse, non potrà che definirsi la biomassa alla luce della definizione che si ricava direttamente dalla direttiva 77/2001/CE di cui tale decreto legislativo è attuativo e che si occupa specificamente di fonti energetiche rinnovabili; quindi verrà in considerazione la definizione dettata dall’art. 2 della direttiva.
In sede definitoria anche l’art. 2 del d.lgs. 387/2003 riprende testualmente la direttiva e stabilisce “.. per biomassa si intende: la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Questa è, si ribadisce, l’unica definizione di biomassa presente nella legislazione italiana rilevante e congruente con la pertinente direttiva al fine di stabilire cosa possa intendersi per biomassa nel contesto di disciplina afferente le fonti rinnovabili di energia, che qui interessa; essa, come chiarito nei considerando della direttiva di cui è attuazione, può poi convivere con altre e solo parzialmente coincidenti definizioni.
Non del tutto pertinente è allora l’eventualmente diversa definizione ricavabile dal d.lgs. 152/2006 e relativo allegato X alla parte V (ovvero dal d.p.c.m. 8.3.2002, come modificato dal d.p.c.m 8.10.2004, in tema di “disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonche' delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione”, dal contenuto sostanzialmente sovrapponibile all’allegato X del d.lgs. 152/2006), non dettata in attuazione specifica della direttiva in materia di fonti rinnovabili di energia e dunque tale da scontare il possibile equivoco di presupporre diverse definizioni di biomassa. E’ infatti pur vero che l’art. 267 co. 4 del d.lgs. 152/2006 formula espresso richiamo alla direttiva 2001/77/CE e al d.lgs. 387/2003, ciò tuttavia avviene senza per altro modificare il contenuto di quest’ultimo, inclusa la definizione di cui all’art. 2, che dunque continua a sussistere; la definizione di biomassa che in tale ultima norma resta così cristallizzata ben può definirsi “speciale” alla luce di quanto evincibile dai considerando della direttiva; vero è allora che, se nell’allegato X del d.lgs. 152/2006 si riprende una pregressa definizione di biomassa anche non del tutto congruente con quella evincibile dalla direttiva 77/2001, per le ragioni già esposte, quest’ultima e solo questa sarà la norma rilevante quando venga in causa l’applicabilità della disciplina promozionale dettata dal d.lgs. 387/2003. D’altro canto la configurabilità come “rifiuto” di una sostanza non esclude l’applicabilità alla medesima, in una fase successiva, della normativa afferente le fonti di energia rinnovabili per quella parte di “rifiuti biodegradabili” che sono infatti espressamente contemplati dalla direttiva 77/2001 e quindi dal d.lgs. 387/2003.
Se quanto sopra si ritiene valido ai fini del coordinamento del significato di disposizioni tutte di pari rango a maggior ragione ovviamente nessuna vanificazione della portata delle definizione di cui all’art. 2 del d.lgs. 387/2003 potrà derivare dai vari d.p.c.m. prima menzionati.
Fuorvianti a fini interpretativi si ritengono poi i richiami al d.m. 5.2.1998 relativo alla “individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero” effettuati dalle amministrazioni resistenti; basti pensare che, a tacer d’altro, il d.m. 5.2.1998 al punto 9.2 annovera tra i “rifiuti di legno e sughero” gli “scarti di legno e sughero, imballaggi di legno” provenienti dalla lavorazione del “legno vergine” e descrive le caratteristiche del rifiuto come “legno vergine in scarti di diverse dimensioni e segatura, con possibili presenze di polveri di natura inerte”. A seguire allora fino in fondo le suggestioni interpretative mosse dalle parti resistenti sulla scorta di questo argomento, e considerando il d.m. parametro interpretativo idoneo ad escludere l’utilizzabilità quale “biomassa-fonte di produzione energetica” le sostanze ivi indicate, si potrebbe arrivare alla conclusione paradossale che i semplici scarti di legno vergine, sulla cui idoneità a costituire biomasse nulla hanno da eccepire le amministrazioni resistenti, essendo annoverati ad altri fini quali “rifiuti” al punto 9.2. del d.m. in questione non possono costituire biomassa per l’alimentazione di una centrale elettrica.
Ragioni di confusione interpretativa, per altro, sono state indotte dallo stesso legislatore italiano con alcuni passaggi incerti del d.lgs. 387/2003; con tale decreto legislativo, infatti, in prima battuta, nell’ambito del “regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili” sono stati inseriti anche rifiuti che, a differenza di quelli biodegradabili citati dalla direttiva 77/2001/CE, certamente non possono rientrarvi secondo la direttiva; l’originaria versione dell’art. 17 del d.lgs. 387/2003, infatti, ammetteva a trattamento “similare” a quello delle fonti rinnovabili sic et simpliciter i “rifiuti, ivi compresa la loro frazione non biodegradabile e i combustibili derivanti da rifiuti”. In tal senso disponeva il co. 1 dell’art. 17 del d.lgs. 387/2003; esso è stato oggetto di attenzione anche da parte della Comunità Europea per l’evidente scorretta trasposizione della direttiva ed è poi stato abrogato dall'articolo 1, comma 1120 lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Dell’originario articolo 17 sopravvive oggi il solo co. 2 che, in particolare alla lett. c), esclude dal regime riservato alle fonti rinnovabili “i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2002, e successive modifiche ed integrazioni.”
Su tale esclusione nuovamente appuntano la loro attenzione le amministrazioni resistenti evidenziando come il d.m. 8.3.2002, già citato, ha sul punto contenuto identico all’allegato X alla parte quinta del d.lgs. 152/2006, nella sua parte II, sez, 4 lett. d); in particolare in tali norme si definisce biomassa combustibile “il materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di sughero vergine, tondelli non contaminati da inquinanti.”
Il rinvio innanzitutto non può essere correttamente compreso avulso dal contesto originario in cui era stato previsto, cioè una disposizione che “assimilava” alle fonti energetiche rinnovabili tutti i rifiuti, anche non biodegradabili, poi procedendo ad escluderne quelli privi di determinate caratteristiche.
In ogni caso già si è visto come, ai fini per cui è causa, non possa rilevare l’eventuale più restrittiva definizione di biomassa ricavabile dal d.lgs. 152/2006; né il rinvio al d.p.c.m. potrebbe restringere la nozione di biomassa desunta direttamente dalla direttiva e correttamente recepita dall’art. 2 del d.lgs. 387/2003. Anche allora leggendo la disposizione dell’art. 17 d.lgs. 387/2003 come oggi residua, non può non evidenziarsi che una eventuale definizione ricavabile dal combinato disposto della legge e del d.p.c.m. 8.3.2002 (per di più anteriore al d.lgs. 387/2003) in termini restrittivi o contraddittori rispetto alla definizione legislativa di cui all’art. 2 del d.lgs. 387/2003, letterale trasposizione del disposto della normativa 77/2001/CE, non potrebbe che soccombere, prima ancora per la gerarchia tra le norme nazionali, interpretate in senso conforme al diritto comunitario, che per la necessità di disapplicare la disposizione nazionale eventualmente contrastante con la direttiva comunitaria.
Risulta a questo punto in parte superfluo valutare se il cippato di legno detannizzato possa o meno rientrare nel concetto di sottoprodotto di cui all’art. 183 del d.lgs. 152/2006, come modificato dal d.lgs. 4/2008, e con ciò sfuggire comunque all’inquadramento quale rifiuto, concetto da leggersi a sua volta alla luce delle disposizioni e della giurisprudenza comunitaria di cui è precipitato; ciò perché, come già più volte evidenziato, secondo la direttiva 77/2001/CE, e quindi il d.lgs. 387/2003, anche veri e propri “rifiuti”, purchè biodegradabili, sono certamente suscettibili di utilizzazione quali biomasse in centrali di produzione di energia.
Per completezza, tuttavia, e considerato che le amministrazioni resistenti evidenziano come la direttiva 77/2001/CE precisi, nei considerando, l’esigenza di coordinarsi con la politica comunitaria in materia dei rifiuti, si procede all’analisi di questo ulteriore profilo per il quale comunque pare più persuasiva la tesi di parte ricorrente.
Il concetto di “sottoprodotto” è un concetto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria formatasi in tema di rifiuti; anche in questo caso la disposizione espressa dal legislatore italiano non può essere compresa se non sulla scorta della normativa comunitaria da cui trae origine.
Le parti sono in contrasto in particolare circa un requisito del sottoprodotto che sarebbe necessario secondo il diritto comunitario e che mancherebbe al cippato in questione, quello del “reimpiego nel medesimo ciclo produttivo”. La Corte di Giustizia ha enucleato anche una serie di altri requisiti dei sottoprodotti dei quali non si può seriamente dubitare che sussistano in relazione al cippato di legno detannizzato per cui è causa: esso deriva da un processo produttivo che non è principalmente destinato a produrlo (infatti il prodotto principale è il tannino estratto), è destinato alla riutilizzazione (nel contesto per cui è causa la riutilizzazione è per forza certa, poiché il cippato viene in considerazione non sul fronte di chi deve eventualmente disfarsene ma sul fronte di chi già lo ha acquistato per utilizzarlo quale fonte di energia nella centrale, quindi è identificata, certa ed attuale la sua riutilizzazione), non occorrono trasformazioni preliminari, poiché, come pacifico in causa, il trattamento con acqua e aria calda del legno vergine, privo di qualsivoglia additivo chimico, produce contestualmente il tannino e il cippato di legno detannizzato il quale, per essere utilizzato come combustibile, non necessita più di alcun tipo di trattamento.
Il contrasto tra le parti in causa si appunta invece, come detto, principalmente, sul concetto di reimpiego nel “medesimo ciclo produttivo”.
Al riguardo la giurisprudenza comunitaria ha subito un’evoluzione il cui punto di svolta viene fissato normalmente nella causa C 235-02 Saetti e Freudiani, ordinanza del 15.1.2004, in cui la Corte ammette che il reimpiego del sottoprodotto può attenere ad un ciclo produttivo diverso; quindi nella sentenza 8.9.2005, in causa C 416-02 Commissione delle Comunità Europee contro Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord, la Corte statuisce che i sottoprodotti possono essere riutilizzati per il fabbisogno di operatori economici diversi da quelli che li hanno prodotti. Si riporta il passo significativo: “In determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Non vi è, in tal caso, alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni della detta direttiva, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che, dal punto di vista economico, hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti, a condizione che tale riutilizzo non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione. La Corte ha così giudicato che detriti o sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera sfuggono alla qualifica di rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 quando il detentore li utilizzi legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie sufficienti sull’identificazione e sull’utilizzazione effettiva di queste sostanze (v., in questo senso, sentenza 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punto 43). La Corte ha anche dichiarato che non costituisce un rifiuto ai sensi della detta direttiva il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie (ordinanza 15 gennaio 2004, causa C- 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I, 1005, punto 47). Come afferma giustamente il governo del Regno Unito nella sua memoria di intervento, gli effluenti di allevamento possono, alle medesime condizioni, sfuggire alla qualifica di rifiuti, se vengono utilizzati come fertilizzanti dei terreni nell’ambito di una pratica legale di spargimento su terreni ben individuati e se lo stoccaggio del quale sono oggetto è limitato alle esigenze di queste operazioni di spargimento. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non occorre limitare quest’analisi agli effluenti d’allevamento utilizzati come fertilizzanti sui terreni che appartengono allo stesso stabilimento agricolo che li ha prodotti. Infatti, come la Corte ha già giudicato, una sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta (v., in questo senso, ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 47).”
L’evoluzione giurisprudenziale è il risultato fisiologico di una modalità di procedere casistica tipica della Corte di Giustizia che va progressivamente enucleando i distinguo attinenti fattispecie concrete. Anche le più recenti pronunce della Corte di Giustizia riassumo e ribadiscono l’iter logico percorso e l’approdo già evidenziato.
Nella sentenza CGCE 18.12.2007 in causa C 195-05 Commissione contro Repubblica italiana (identica la sentenza 18.12.2007 in causa C 263-05 Commissione contro Repubblica italiana): “38 La Corte ha precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v. in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuti non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C 304/94, C 330/94, C 342/94 e C 224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I 3561, punti 47 e 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende infatti riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C 9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I 3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29). 39 Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare - altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto - a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, non richieda una trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, cit., punti 34 36; 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33 38; Niselli, cit., punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61). 40 Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. citate sentenze Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46). 41 Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in via di principio, come rifiuto (v., in tal senso, citate sentenze Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39).”
Sul punto pare ulteriormente opportuno chiarire, riportando sempre la citata pronuncia che: “42 L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I 1005, punto 40).”
Emerge cioè dalla disciplina comunitaria l’esigenza, richiamata anche dalle parti resistenti, da una parte di non restringere eccessivamente il concetto di rifiuto e di farne una applicazione conforme al principio comunitario di precauzione, onde evitare facili elusioni della relativa disciplina; d’altro canto di evolversi alla luce dell’implemento delle conoscenze e delle tecnologie; basti pensare che la stessa direttiva 77/2001/CE all’articolo 6 precisa che gli stati membri valutano il vigente quadro legislativo e regolamentare in tema di fonti energetiche rinnovabili allo scopo di “garantire che le norme siano oggettive, trasparenti e non discriminatorie e tengano pienamente conto delle particolarità delle varie tecnologie per le fonti energetiche rinnovabili”, con espresso richiamo all’evoluzione e varietà della tecnologia.
Nelle pronunce riportate e qui rilevanti si accentua il criterio “soggettivo” di individuazione del rifiuto ancorato alla necessità/intenzione o meno del titolare di “disfarsene” rispetto al criterio “oggettivo” di mera e rigida catalogazione delle categorie dei rifiuti.
Ora è pur vero che, come evidenziato dalle parti resistenti, i considerando della direttiva 77/2001/CE, richiamano l’attenzione degli stati membri sulla normativa in materia di “gestione” dei rifiuti, di cui riconoscono la preminenza, ed in particolare ribadiscono che la politica di incentivazione delle fonti di energia rinnovabili non può vanificare la politica di corretta gestione dei rifiuti; vero è anche che il coordinamento delle due politiche non si realizza ipotizzando, come sembra emergere dalla difese delle parti resistenti, una reciproca esclusione tra il concetto di biomassa fonte di energia rinnovabile e il concetto di rifiuto, posto che ciò è da subito smentito dalla stessa direttiva 77/2001/CE.
Il coordinamento delle due politiche meglio si comprende come possibile nella sua dinamica se si considera il concetto “soggettivo”di rifiuto ricavabile dalla giurisprudenza comunitaria che può garantire e spiegare la coesistenza parallela delle due politiche. A tal fine sono illuminanti le considerazioni dell’avvocato generale Jan Mazák presentate il 22 marzo 2007 nelle conclusioni in causa C 195/05 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana: “36 Il problema connesso con il tentativo di definire il termine «rifiuti» nasce dal fatto che si tratta di una nozione molto relativa. Consideriamo comunemente «rifiuti» le sostanze o i materiali che non vogliamo più perchè hanno perduto la loro utilità o, più in generale, il loro valore, ovvero che, per qualche ragione, non hanno mai avuto un valore per noi. In ogni caso, proprio perché il valore dei materiali e degli oggetti non è «intrinseco» ad essi ma, per così dire, dipende dalle considerazioni di chi li detiene, non esiste in pratica una sostanza che possa essere considerata generalmente ed in ogni circostanza un rifiuto… La questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere piuttosto risolta alla luce del complesso delle circostanze.”
Ora è evidente che, quando la giurisprudenza comunitaria apprezza l’importanza del reimpiego certo di un sottoprodotto per qualificarlo tale, ha ben presente che un “sottoprodotto” astrattamente utilizzabile in un qualche ciclo produttivo potrebbe concretamente non trovare accesso a quel ciclo, perché chi lo produce non riesce ad indirizzarvelo e così si trova con un bene che, potenzialmente è suscettibile di riutilizzazione economica, ma nel concreto diviene per lui un problema di cui disfarsi; è chiaro tuttavia che tutte queste considerazioni hanno pregio se si ha riguardo al produttore del bene che non sia neppure utilizzatore del medesimo, poiché se egli direttamente se ne avvale azzera sostanzialmente il rischio che il bene resti inutilizzato; ed è perciò che nelle prime enucleazioni del concetto di sottoprodotto la Corte di Giustizia ha escluso dalla disciplina dei rifiuti ciò che il produttore dei medesimi riusciva a reimpiegare direttamente. Analogo ragionamento, tuttavia, potrà applicarsi al riutilizzatore, anche diverso dal produttore, una volta che il bene sarà entrato nel suo ciclo produttivo; è evidente che colui che ha acquistato il “sottoprodotto”già lo ha con certezza destinato alla riutilizzazione e quindi, quantomeno in capo a costui, il problema del reimpiego sarà nuovamente azzerato.
Se si dovessero applicare al caso di specie i principi così enucleati non potrebbe che osservarsi che, al limite, il problema di stabilire se il cippato di legno possa in certi casi assumere la veste di “rifiuto” si porrebbe nel ciclo produttivo dalla Ledoga s.r.l., non certo in quello della Silvateam che lo ha acquistato e certamente e direttamente lo reimpiega.
Ciò ancora spiega il perché di quella giurisprudenza solo apparentemente distonica rispetto a quanto qui si sostiene, citata dalle parti resistenti, ed in particolare delle statuizioni della Cassazione penale nella sentenza 11.4.2007 n. 14557, che ha ampiamente richiamato la sentenza della Corte di Giustizia Niselli in causa C 457/02, ricordando come un sottoprodotto per essere tale deve essere riutilizzato con certezza; il giudice si occupava di una fattispecie in cui erano stati abbandonati per diversi mesi alcuni metri cubi di residui di imballaggi e nella quale il responsabile dell’abbandono si difendeva sostenendo che essi erano destinati al reimpiego, cosa in effetti accaduta a notevole distanza di tempo. Replica in tal caso la Suprema Corte che “la circostanza che la società avesse intenzione di rivendere i materiali a terzi produttori per un eventuale riutilizzo non basta per far perdere agli stessi la qualità di rifiuto. Ciò perché anche l'art. 14, comma 2, per escludere la qualità di rifiuto, richiede che il riutilizzo produttivo della sostanza sia oggettivamente certo ed effettivo, e tale non può dirsi nel caso di specie, in cui le sostanze - peraltro non tutte riutilizzabili "tal quali" - giacevano in deposito incontrollato da circa sei mesi/un anno di tempo”; ciò che in definitiva mancava nel caso in questione, seguendo i parametri della giurisprudenza comunitaria, era la certezza del reimpiego. Così ancora si comprende il perché delle censure comunitarie ad una normativa italiana che, nella originaria versione dell’art. 183 del d.lgs. 152/2006, pareva qualificare una sostanza sottoprodotto sulla sola base della sua astratta commerciabilità o del suo potenziale valore economico; non basta infatti, come visto, che il bene possa teoricamente essere commercializzato (anche se ciò ovviamente aumenta le sue possibilità di reimpiego) occorre che esso concretamente venga destinato al reimpiego. Ancora correttamente l’ultima versione dell’art. 183 lett. p) del d.lgs. 152/2006, nel qualificare il sottoprodotto, non puntualizza che esso deve reimpiegarsi nel “medesimo” processo produttivo ma in un processo di produzione e utilizzazione preventivamente individuato e definito, quindi certo.
Resta il fatto che, nel caso che qui occupa, ancor più se si considera il destino del “sottoprodotto” dal punto di vista del diretto riutilizzatore, quale è Silvateam, non vi è alcuna incertezza o indeterminatezza nel reimpiego del cippato di legno; ciò dà anche ragione del perché la direttiva 77/2001 si dichiari contemporaneamente necessariamente conforme alla politica comunitaria della gestione dei rifiuti e pur tuttavia inserisca direttamente i rifiuti biodegradabili tra le possibili fonti di energia rinnovabile, chiaro essendo che, una volta che l’eventuale rifiuto biodegradabile di un ciclo produttivo, utilizzabile come combustibile in altro ciclo produttivo, sia pervenuto al certo riutilizzatore (fermi gli ulteriori parametri, ad esempio in tema di emissioni degli impianti, dettati dalla normativa sulle energie rinnovabili) esce dal ciclo di gestione dei rifiuti ed entra in quello di produzione di energia.
Parte ricorrente si è vista contestare, in astratto, la non appartenenza del cippato di legno detannizzato alle fonti idonee ad alimentare centrali a biomasse; alla luce della pertinente normativa dettata dalla direttiva 77/2001/CE e dal d.lgs. 387/2003 nonché della citata giurisprudenza comunitaria si ritiene di aver dimostrato che tale conclusione è radicalmente errata; addirittura pare corretto nel caso di specie, alla luce della giurisprudenza comunitaria, qualificare il cippato quale sottoprodotto, almeno quando il medesimo sia pervenuto al riutilizzatore Silvateam e così appalesi il suo certo reimpiego. E’ congruente con tali conclusioni la risposta fornita al quesito posto dall’Ordine Nazionale dei chimici dalla Commissione Europea - direzione ambientale - in data 12.3.2008 prodotta sub. doc. 16 di parte ricorrente; in essa, ribadito che si tratta di una “opinione” della Commissione non vincolante legalmente dal punto di vista interpretativo, si afferma tuttavia, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che il cippato soddisfi i requisiti del sottoprodotto (by-product) in quanto: il metodo di estrazione del tannino è frutto di una deliberata scelta produttiva, il reimpiego del legno è certo, il legno è già pronto per il reimpiego senza necessità di ulteriori processi, l’uso del cippato è legale.
Devono pertanto trovare accoglimento le domande di annullamento della determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5 ottobre 2007 con la quale è stata preliminarmente negata l’attivazione delle procedure previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la costruzione ed esercizio di un impianto di energia elettrica alimentato a cippato di legno, nonché di ogni altro atto presupposto connesso e conseguente. Non occorre alcun formale annullamento dei meri pareri acquisiti presso diversi organi, anche impugnati in ricorso, semplicemente espressione di attività consultiva e non vincolante e comunque sintomatici della complessità della vicenda e dello sforzo in ogni caso compiuto dalla Provincia per un corretto inquadramento della questione.
Parte ricorrente contesta inoltre le “Linee guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse - indirizzi per la formazione del parere provinciale nell’ambito della Conferenza di servizi ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003” e la relativa deliberazione del Consiglio Provinciale n. 50 del 25 settembre 2007 di approvazione delle medesime.
La stessa parte ricorrente, nella memoria depositata in data 24.4.2009, asserisce tuttavia che le medesime non le sarebbero opponibili/applicabili essendo la sua istanza alla Provincia stata inoltra in epoca antecedente all’approvazione delle Linee Guida. La circostanza è vera e pacifica ed appalesa, nelle stesse difese di cui al ricorso, il difetto di interesse ad agire in relazione a tale tipo di impugnativa così come contestato dalle amministrazioni resistenti; queste ultime rilevano inoltre che si tratta di meri atti di indirizzo non vincolanti, né mai direttamente applicati all’istanza della ricorrente che, essendo stata ritenuta in limine improcedibile, non ha neppure attinto il vaglio di merito che le linee guida dovrebbero servire ad indirizzare.
Per tali ragioni il ricorso sul punto deve dichiararsi inammissibile.
Parte ricorrente evidenzia come taluni punti delle linee guida paiano vincolanti per l’esito della valutazione e come tali già immediatamente lesivi; in termini generali si può osservare che non può negarsi in radice una competenza ad emanare linee guida sul punto prevista dalla legge statale e regionale in capo alla Provincia; tale competenza è però finalizzata ad una funzione di “promozione” ed incentivazione della produzione di energia tramite biomasse; qualora tale competenza venisse esercitata per porre vincoli più stringenti di quelli dettati dalla normativa nazionale, ed in conflitto con la medesima, con il paradossale risultato di ostacolare e non di incentivare la politica di matrice comunitaria e nazionale in tema di produzione energetica da biomasse, essa sarebbe certamente priva di qualsivoglia supporto normativo; altro è dire che l’ente locale, in una politica promozionale, possa privilegiare sul proprio territorio determinate soluzioni rispetto ad altre, pur sempre autorizzabili e possibili, così limitandosi ad esercitare un scelta e selezione nell’applicazione di eventuali incentivi da sé medesimo posti, altro è pensare che l’ente possa ad esempio proporre una “sua” definizione di biomassa in contrasto con quella statale e di derivazione comunitaria, ovvero, ad esempio, sempre in contrasto con la ratio semplificatrice del modulo della conferenza di servizi previsto a fini autorizzatori dal d.lgs. 387/2003, procedere ad una “rimoltiplicazione” delle autorizzazioni e dei passaggi burocratici. Resta il fatto che, nel caso di specie, le linee guida non hanno trovato alcuna concreta applicazione all’istanza presentata dalla ricorrente, e risultano pure astrattamente inapplicabili ratione temporis, ragione per cui da una parte non è dato comprendere come verranno intese e concretamente applicate, dall’altra il ricorso manca sul punto della concretezza ed attualità dell’interesse ad agire che lo dovrebbe suffragare.
Stante la novità e complessità della vertenza sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte - sezione prima -
Accoglie il ricorso nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e per l’effetto annulla la determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5.10.2007 ed ogni altro atto presupposto connesso e consequenziale; dichiara inammissibile il ricorso limitatamente alla impugnazione delle “Linee Guida” approvate con deliberazione del Consiglio Provinciale n. 50 del 25.9.2007.
Compensa le spese di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 07/05/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Franco Bianchi, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Primo Referendario
Paola Malanetto, Referendario, Estensore
IL PRESIDENTE
L'ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/06/2009
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1628 del 2007, proposto da:
Silvateam New Tech Srl, rappresentata e difesa dagli avv.ti Francesco Munari, Paolo Scaparone, Andrea Blasi, con domicilio eletto presso l’avv.to Paolo Scaparone in Torino, via S. Francesco D'Assisi, 14;
contro
Provincia di Asti, in persona del dirigente del servizio ambiente Angelo Marengo, rappresentata e difesa dall'avv.to Carlo Berruti, con domicilio eletto presso la Segreteria Tar Piemonte in Torino, corso Stati Uniti, 45;
Comune di Castagnole delle Lanze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv.to Patrizia Polliotto, con domicilio eletto presso l’avv.to Patrizia Polliotto in Torino, via Roma, 366;
per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia,
- della determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5.10.2005, ricevuta in data 11.10.2007, con la quale è stato disposto di non attivare le procedure previste dall'art. 12 del Dlgs. n. 387/2003 e conseguentemente di archiviare l'istanza di autorizzazione presentata da Silvateam New Tech s.r.l. per la costruzione e l'esercizio di un impianto di energia elettrica alimentato a cippato di legno nel Comune di Castagnole Lanze, nonché della nota del 5.10.2007, prot. 61691, ricevuta in data 11.10.2007, con la quale sono state trasmesse la suddetta determinazione dirigenziale n. 7602 e le Linee Guida;
- delle Linee Guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse - indirizzi per la formazione del parere provinciale nell'ambito della Conferenza di Servizi ex art. 12 del Dlgs. n. 387/2003 e della relativa deliberazione del Consiglio Provinciale di Asti n. 50 del 25.9.2007 di approvazione delle medesime, comunicate con la citata nota del 5.10.2007, prot. 61691, ricevuta in data 11.10.2007;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguente, ivi compreso, per quanto occorra, il parere tecnico formulato dall'ARPA e trasmesso alla Provincia di Asti con note prot. 105868 del 6.8.2007, prot. 107620 del 9.8.2007 e prot. 111556 del 21.8.2007 (non noto), la nota della Provincia di Asti del 14.8.2007 prot. 52071 del 14.8.2007 con la quale la Provincia ha comunicato i motivi ritenuti ostativi all'accoglimento dell'istanza presentata dalla ricorrente; la nota dell'ARPA del 4.10.2007 prot. 129303 (non nota).
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Provincia di Asti;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Castagnole delle Lanze;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 07/05/2009 la dott.ssa Paola Malanetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
Parte ricorrente ha adito l’intestato TAR deducendo che il Comune di Castagnole delle Lanze ha individuato nel proprio piano di insediamenti produttivi (PIP) un’area da destinare a nuovo insediamento denominata PIP “Valle Tanaro”, situata in prossimità del casello autostradale; nell’aprile 2006 Silvateam s.r.l. prendeva contatti con il Comune per rappresentare la propria intenzione di realizzare presso tale area una centrale termoelettrica alimentata con fonti rinnovabili, e in particolare biomasse combustibili, in specifico “cippato di legno”. In seguito a trattative con il Comune la ricorrente otteneva l’assegnazione di un’area nella zona produttiva PIP Valle Tanaro della superficie di 23.511 mq per la realizzazione della centrale a biomasse “attraverso l’uso di legno di scarto naturale”; con deliberazione del 27 febbraio 2007 il Consiglio comunale approvava all’unanimità la convenzione “per la progettazione, realizzazione ed esercizio di una centrale termoelettrica funzionante a legna”, nella quale il Comune si impegnava a cooperare con la ricorrente per una pronta definizione degli ulteriori iter amministrativi di competenza della medesima amministrazione comunale”; con successiva deliberazione n. 19 del 14 maggio 2007, il Consiglio Comunale, aderendo alle richieste di un “Comitato di difesa della Valle Tanaro” , deliberava di “sospendere l’efficacia della propria precedente delibera n. 1 del 27.2.2007 con la quale aveva approvato la bozza di convenzione tra il Comune di Castagnole delle Lanze e la Silvateam New Tech s.r.l.” e ciò fino all’emanazione delle “Linee Guida da parte della Provincia di Asti”. La deliberazione n. 19 del 2007 veniva impugnata con separato ricorso innanzi a questo TAR.
In data 19 luglio 2007 la ricorrente presentava alla Provincia di Asti la “domanda di autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003” per la realizzazione della centrale, domanda munita degli allegati tecnici previsti dalla vigente normativa; la centrale, per la quale era prevista una potenza termica nominale al focolare di 48,5 MWt e una potenza elettrica netta di 13,5 MWe, è destinata ad essere alimentata con legno naturale, in particolare cippato di legno detannizzato, segatura, cortecce e scarti di legno. Il legno detannizzato è legno risultante da un processo industriale di estrazione del tannino effettuato esclusivamente con aria e acqua calda. Il progetto risulta avere un impatto ambientale positivo in quanto sito, dal punto di vista strutturale, in prossimità del casello autostradale e destinato a produrre energia con l’impiego di legno già proveniente da altro processo produttivo, e dunque senza incidere sul patrimonio boschivo. La Provincia comunicava alla ricorrente, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di autorizzazione, evidenziando che non sussistevano le condizioni per avviare il procedimento ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, in quanto il cippato non rientra nella definizione di “biomassa combustibile” di cui al d.lgs. 152/2006 poichè viene sottoposto ad un trattamento sia meccanico che termico. La ricorrente presentava osservazioni ma la Provincia, con argomentazioni contraddittorie, determinava di “archiviare la domanda di autorizzazione presentata in data 19 luglio 2007, prot. 47458 della Società Silvateam New Tech”. Con nota prot. 61691, ricevuta in data 11 ottobre 2007, la Provincia trasmetteva copia delle “Linee Guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse” e della relativa deliberazione di approvazione del Consiglio Provinciale n.50 del 25 settembre 2007. Anche tali linee guida presentano profili di illegittimità in quanto contrastanti con gli obblighi di diritto comunitario, poiché impediscono in fatto lo sfruttamento dell’energia proveniente da fonti rinnovabili sul territorio della Provincia di Asti; a seguito dell’adozione delle “Linee Guida” il Comune avviava il procedimento volto a revocare la deliberazione n. 1 del 27 febbraio 2007, con la quale era stata approvata la Convenzione, motivando appunto sulla scorta delle “Linee Guida” provinciali.
Lamenta parte ricorrente l’illegittimità della determinazione n. 7602/07 per violazione e falsa applicazione degli artt. 12 e 17 del d.lgs. n. 387/2003, del d.lgs. 152/2006, dell’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, dell’art. 183 del d.lgs. 152/2006, nonché dell’art. 6 della Direttiva n. 2001/77/CE; la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e comunque l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione.
La Provincia infatti sostiene che il legno detannizzato non rientra nella nozione di biomassa combustibile prevista dall’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, in particolare nella sua parte II sez. 4 punto 1.d), in quanto il legno detannizzato subisce un trattamento chimico-fisico e non meccanico; per tali motivi non sarebbe applicabile il regime autorizzatorio previsto dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003, letto in combinato disposto con l’art. 17 del d.lgs. 387/2003. Tali argomentazioni riprendono il contenuto del parere ARPA del 6 agosto 2007 e quanto già anticipato nella comunicazione ex art. 10 bis della l. 241/1990.
Insiste parte ricorrente che la biomassa di cui trattasi è costituita da legno vergine tagliato a pezzi (cd. cippatura), lavato con acqua calda, successivamente strizzato meccanicamente ed essiccato a vapore; tale trattamento deve considerarsi esclusivamente meccanico. La qualificazione del materiale come biomassa è evincibile dalle norme dettate dal Comitato Europeo di Standardizzazione che definisce come “trattamento chimico” qualsiasi trattamento con sostanze chimiche diverse da aria e acqua; a sua volta il d.lgs. 152/2006 definisce la biomassa come materiale vegetale non contaminato da inquinanti e non individua né l’aria né l’acqua nell’elenco delle sostanza inquinanti.
La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, inoltre, ha chiarito che una sostanza non può essere considerata rifiuto se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta, senza la necessità che essa soddisfi il fabbisogno dello stesso operatore o sia utilizzata dal medesimo produttore; in ogni caso una sostanza non può essere rifiuto se può essere utilizzata in termini commercialmente vantaggiosi, rappresentando per il produttore un valore economico e non un onere. In particolare la Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sottoprodotti dal 21 febbraio 2007, effettuata dalla Commissione al Consiglio e al Parlamento europei, ha chiarito che un materiale non va considerato rifiuto quando: è di fatto utilizzabile, è il risultato di una scelta produttiva, può essere utilizzato con ricavo o profitto; viene preparato come parte integrante del processo di produzione del prodotto principale, ferme le caratteristiche di cui sopra.
Tali orientamenti sono stati recepiti dall’art. 183 lett. n. del d.lgs. 152/2006.
D’altro canto una interpretazione che escluda il cippato dalle biomasse si porrebbe in insanabile contrasto con la direttiva 2001/77/CE, che impone agli stati membri di eliminare gli ostacoli normativi alla produzione di energia da fonti rinnovabili e di garantire norme trasparenti, non discriminatorie e rispettose delle nuove tecnologie.
Si contesta inoltre la illegittimità delle Linee Guida per incompetenza della Provincia ad adottarle, nonché per violazione e falsa applicazione del d.lgs. 387/2003, artt. 10 e 12, dell’art. 29 d.lgs. 112/98, dell’art. 52 LR Piemonte 44/2000 e degli artt. 2 e 3 L.R. Piemonte n. 23/2002, nonché per violazione e falsa applicazione della direttiva 2001/77/CE e violazione del principio dell’effetto utile del diritto comunitario; violazione e falsa applicazione dell’art.1 della l. n. 239/2004 e del d.lgs. 79/99. In particolare la Provincia non ha alcuna competenza ad adottare linee guida che pregiudichino o vanifichino l’effetto utile della normativa comunitaria e statale, restringendo le possibilità di sfruttamento delle energie rinnovabili poiché, ai sensi dell’art. 10 d.lgs. 387/2003, le Regioni possono adottare misure per promuovere l’aumento di consumo di energia proveniente da fonti rinnovabili e non per limitarlo; la legge regionale inoltre colloca in capo alle Regioni le funzioni amministrative che richiedono un unitario esercizio sul territorio e consente l’adozione di norme di indirizzo e coordinamento che incentivino le fonti rinnovabili.
Inoltre, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 387/2003, il procedimento autorizzatorio per la costruzione e l’esercizio di impianti alimentati a biomasse deve essere concentrato in seno ad una conferenza di servizi; erroneamente le linee guida adottate partono dalla vetusta idea che lo sfruttamento delle biomasse debba necessariamente collegarsi alla filiera agricola; se pure ciò è ovviamente possibile, non è corretto legare lo sfruttamento di biomasse al solo specifico settore agricolo, posto che la Commissione europea tende ad incoraggiare tutte le possibili forme di sfruttamento delle biomasse; erroneamente dunque le linee guida privilegiano forme di utilizzo delle biomasse provenienti per lo più dalle risorse locali dell’agricoltura e con ricadute su quest’ultima positive in termini di certificati verdi; esse inoltre, del tutto impropriamente, dettano disposizioni sulla definizione di bacini di approvvigionamento ottimali e dimensionamento degli impianti, così consentendo la realizzazione di impianti con potenza termica di soli 7 MWt per unità territoriale e complessiva per provincia di 50 Mwt ed impongono l’obbligo di approvvigionamento dal territorio locale.
Tutte le suddette limitazioni, oltre ad essere prive di base normativa, non sono giustificate da ragioni di sostenibilità ambientale, non essendo questa valutabile in maniera generalizzata e avulsa dal singolo progetto; infine le linee guida contengono prescrizioni di dettaglio e vincolanti circa gli impianti ammessi e la loro localizzazione, fornendo una sorta di aprioristica valutazione negativa di determinati impianti, ad esempio già chiarendo di privilegiare gli impianti medio-piccoli, con ciò contravvenendo le direttive dettate dalla Commissione Europea che incoraggia indistintamente tutte le forme di produzione di elettricità mediante biomassa economicamente efficienti; ad esempio l’approvvigionamento della biomassa, anche al di fuori di quello che le linee guida considerano bacino di approvvigionamento ottimale, potrebbe dare luogo ad un impatto ambientale positivo, così come gli impianti di grandi dimensioni presentano vantaggi di sostenibilità economica; senza contare che la limitazione delle fonti di approvvigionamento si pone in contrasto con le libertà fondamentali del Trattato CE, tra cui la libera circolazione delle merci. Infine le limitazioni di ordine geografico violano i principi vigenti in ambito OMC-WTO, cui l’Italia aderisce.
Le Linee Guida considerano fonte di biomassa pressocchè esclusivamente il patrimonio boschivo, il verde pubblico e l’attività agricola; ignorano invece il considerevole numero di aziende operanti nell’industria del legno e agroalimentare; esse appaiono illegittime anche là dove impongono che gli impianti alimentati a biomasse garantiscano l’uso produttivo della maggior parte del calore residuo associato alla produzione di energia elettrica, circostanza da documentarsi con appositi contratti o accordi stipulati con aziende. Non sussiste alcuna previsione normativa in tal senso; d’altro canto il beneficio ambientale di questa tipologia di impianto non è di per sé vanificato dall’eventuale impossibilità della cogenerazione; in ogni caso pare difficile, se non impossibile, che, a livello puramente progettuale, si possano ottenere contratti o accordi con aziende in un sito industriale di nuova realizzazione e come tale ancora privo delle stesse aziende con cui accordarsi.
Infine le linee guida prevedono la non commutabilità della tipologia di biomassa combustibile per almeno 10 anni dal rilascio dell’autorizzazione; anche tale limitazione pone un termine eccessivamente lungo e non considera che l’eventuale impiego di biomasse legnose diverse da quelle originariamente prospettate può presentarsi ad impatto ambientale neutro.
Si è costituita la Provincia di Asti deducendo che l’impianto prospettato nell’istanza presentata alla Provincia da Silvateam in data 19.7.2007, prot. n. 47458, prevedeva la combustione di cippato di legno detannizzato (proveniente dal sito industriale di San Michele Mondovì, gestito dalla società Ledoga s.r.l., la quale realizza l’estrazione del tannino con il lavaggio di cippato di legno combustibile e di castagno con acqua surriscaldata a 112°), cortecce e scarti di taglialegna, segatura e taglialegna provenienti dal sito industriale di San Michele Mondovì, e segatura, cippato e altri scarti legnosi provenienti dalla Provincia di Asti. La Provincia chiedeva parere tecnico al Dipartimento Provinciale ARPA Piemonte per qualificare giuridicamente il materiale utilizzato per alimentare l’impianto; L’ARPA con note prot. n. 105868 del 6.8.2007 e n. 107620 del 9.8.2007 e n. 111556 del 21.8.2007 rispondeva affermando che “i rifiuti consistenti in legna trattata con acqua calda per estrarre il tannino non rientrano nella definizione di biomassa combustibile di cui all’allegato X, parte II, Sezione 4, alla parte V del d.lgs. 152/2006, utilizzabile negli impianti di cui ai Titoli I e II della parte V del d.lgs. citato, in quanto il materiale non viene sottoposto ad un trattamento “esclusivamente meccanico”, come previsto dalla normativa ambientale.
La Provincia comunicava, ai sensi dell’art. 10 bis della legge n. 241/90, con nota prot. 520/1 del 14.8.2007, l’intendimento di archiviare l’istanza; parte ricorrente presentava osservazioni chiedendo di attivare la procedura di autorizzazione ai sensi dell’art. 12 d.lgs. 387/2003; in data 17.9.2007 si teneva un incontro con la società ricorrente e, in data 1.10.2007, udite le controdeduzioni, la Provincia chiedeva all’Arpa di confermare il precedente parere del 9.8.2007. L’ARPA rispondeva con nota n. 129303 del 4.10.2007 nella quale trasmetteva il parere rilasciato dalla SC 03 “area delle attività regionali per l’indirizzo e il coordinamento delle attività per il rischio industriale e sviluppo compatibile” dando atto che, stante la complessità dell’argomento, si era ritenuto anche di chiedere un chiarimento all’Ufficio legale dell’ARPA Piemonte.
In data 3.10.2007 con nota prot. n. 128664 l’ARPA trasmetteva il parere del responsabile SS03.01, interlocutorio, nel quale si evidenziava come la normativa nazionale orienterebbe verso la classificazione del materiale (cippato di legno detannizzato) quale sottoprodotto, dall’altra la giurisprudenza comunitaria e nazionale stigmatizzerebbe il contrasto della norma italiana con il diritto comunitario; una interpretazione precauzionale porterebbe a classificare il materiale come sottoprodotto solo se utilizzato nell’ambito del medesimo ciclo produttivo; in ogni caso l’ARPA dichiarava di non ritenersi competente alla classificazione del materiale come fonte rinnovabile di energia e dunque a valutare l’applicabilità del d.lgs. 387/2003.
La Provincia archiviava l’istanza classificando il materiale come rifiuto. Evidenzia in particolare che il lavaggio del legno con acqua calda esclude che il trattamento possa definirsi “esclusivamente meccanico”; l’allegato X alla parte V del d.lgs. 152/2006, nella parte II sez. 4 lett. d), individua la biomassa combustibile come “materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati, cascami di sughero vergine, tondelli, non contaminati da inquinanti”. Mancherebbe nel caso di specie il requisito della lavorazione esclusivamente meccanica. D’altro canto l’elenco delle biomasse combustibili di cui al d.p.c.m. 8.3.2002 è stato integrato con il d.p.c.m. 8.10.2004 per inserire tra le biomasse vegetali la sansa di oliva disoleata; tale materiale effettivamente subisce un trattamento meccanico-fisico ma, in mancanza dell’espressa previsione resasi perciò necessaria, non avrebbe potuto rientrare nella nozione di “trattamento meccanico”. Il mero fatto che il legno detannizzato non risulti sottoposto ad un trattamento inquinante, in assenza del requisito del trattamento solo meccanico, non sarebbe dunque idoneo ad annoverare il prodotto tra le biomasse. Inoltre la Comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio e al Parlamento Europeo relativa ai rifiuti e ai sottoprodotti, del 21.2.2007, prevede la possibilità che un materiale sia considerato sottoprodotto e non rifiuto nei seguenti casi: legalità di utilizzo, riutilizzo certo e non eventuale, assenza di trasformazioni preliminari al riutilizzo e riutilizzo nel corso del processo di produzione; per tali motivi il materiale in questione, non essendo utilizzato nel medesimo processo di produzione, non può essere considerato “sottoprodotto”. In tal senso l’articolo 183 del d.lgs. 152/06, come modificato dal D. Lgs. 4/2008, ha visto espunta la parte del disposto normativo che qualificava i sottoprodotti tali anche quando semplicemente “commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l’impresa”, di tal che residua la sola possibilità di utilizzare i sottoprodotti all’interno dello stesso ciclo di produzione. Ancora il sottoprodotto è tale se non richiede alcuna operazione di recupero; per contro il DM 5/2/98 configura le operazioni di lavaggio e cippatura come operazioni di recupero.
Quanto al lamentato rigetto immotivato dell’istanza evidenzia parte resistente di avere tenuto in debita considerazione le osservazioni formulate dall’istante, che per altro si era limitata a riproporre le argomentazioni già addotte in prima battuta; quanto alla violazione della normativa comunitaria, ed in particolare della direttiva 2001/77/CE, afferma che destinatario della medesima deve ritenersi lo Stato italiano, che ha provveduto al recepimento con il d.lgs. 387/2003, per cui per la Provincia si è posta solo più la questione di una corretta interpretazione delle esclusioni previste dall’art. 17 del d.lg. 387/2003.
Difende altresì la scelta di omettere del tutto la convocazione della conferenza di servizi in quanto ciò presuppone la previa valutazione dei requisiti di procedibilità dell’istanza da parte del responsabile del procedimento e, solo superato tale preliminare vaglio, deve convocarsi la conferenza di servizi. L’esito negativo della preistruttoria da parte della Provincia ha inevitabilmente precluso la convocazione della Conferenza di Servizi.
Quanto alle doglianze mosse avverso le “Linee Guida” evidenzia la Provincia come il sistema decentrato ed integrato delle regioni ed enti locali in materia energetica contempli un ruolo di programmazione sul territorio degli enti locali; in particolare l’art. 31 del d.lgs. 112/98 attribuisce alla Province la redazione e l’adozione dei programmi di intervento per la promozione di fonti rinnovabili e la competenza in tema di autorizzazione alla installazione ed all’esercizio degli impianti di produzione di energia. La legge Regione Piemonte n. 44/2000 all’art. 3 attribuisce alle Province la competenza in ordine alla attuazione del Piano Regionale Energetico-Ambientale, il controllo e l’uso razionale dell’energia, il rilascio di autorizzazioni per l’installazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica, compresi gli impianti alimentati da fonti rinnovabili di cui al d.lgs. 387/03, e l’assunzione del procedimento unico delineato dall’art. 12 del d.lgs. 387/03. In tale contesto la Provincia ha adottato le linee guida. Esse costituiscono atto interno alla pubblica amministrazione, che ivi esaurisce la sua portata ed è privo di efficacia esterna e valenza immediatamente lesiva delle posizioni giuridiche dei soggetti estranei all’amministrazione; trattasi di indicazioni neppure vincolanti per l’amministrazione emanante, che resta libera di modificarle in ogni momento; in ogni caso le linee guida non hanno trovato alcuna applicazione alla ricorrente.
Sul punto il ricorso è dunque inammissibile in quanto carente del prescritto interesse ad agire.
In ogni caso legittimamente la Provincia di Asti ha ritenuto di promuovere e favorire la produzione di energia elettrica da biomasse provenienti dall’agricoltura locale; le linee guida, espressamente riferite alle biomasse legnose, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, contemplano anche gli scarti delle industrie del legno; gli obiettivi comunitari e nazionali in tema di incentivazioni delle energie rinnovabili devono essere attuati nel rispetto dei principi di sostenibilità economica, ambientale e sociale degli interventi essendo evidente che, tanto più lontane sono le fonti di approvvigionamento, tanto maggiore sarà l’inquinamento prodotto nel trasporto, dato che consiglia di limitare il bacino di approvvigionamento a quindi le dimensioni degli impianti in ragione delle esigenze locali, scelte per altro compatibili con il Piano Energetico Regionale predisposto dalla Regione Piemonte e anche con la Strategia UE per i biocarburanti COM 34/2006; insiste infine la Provincia sui riconosciuti vantaggi della cogenerazione; in particolare il d.lgs. n. 20/2007, attuativo della direttiva 2004/8/CE, promuove la cogenerazione sicchè il piano energetico ambientale della Regione Piemonte indirizza le amministrazioni verso la massima incentivazione della cogenerazione; il vincolo decennale di non commutabilità dell’impianto è infine finalizzato ad impedire che impianti originariamente finalizzati all’utilizzo di fonti rinnovabili possano essere utilizzati per soluzioni a più elevato impatto ambientale.
Ribadita l’inammissibilità delle censure mosse avverso le linee guida, parte resistente Provincia di Asti chiedeva respingersi il ricorso.
Si costituiva altresì il Comune di Castagnole delle Lanze il quale, dopo aver riassunto l’iter dell’istanza presentata dalla ricorrente presso la Provincia, esponeva che, preso atto che la Provincia aveva ritenuto di considerare il cippato quale rifiuto e non quale biomassa, aveva adottato la deliberazione n. 19 del 14.5.2007 con la quale aveva sospeso la firma della Convenzione precedentemente predisposta ed afferente i rapporti tra Comune e Silvateam relativi alla centrale a biomasse, e ciò in attesa che la Provincia approvasse le pertinenti “Linee Guida”; con successiva deliberazione n. 38 del 30.10.2007, preso atto del provvedimento negativo emesso dalla Provincia in relazione all’istanza di autorizzazione all’insatallazione presentata da Silvateam, il Comune aveva revocato il perfezionamento della Convenzione con Silvateam.
Nel merito si associava alle difese della Provincia, in particolare evidenziando come già il d.lgs. n. 22 del 5.2.1997 inquadrasse ogni residuo di lavorazione nella categoria dei rifiuti; secondo il d.lgs. 16.3.1999 n. 79 tra le fonti rinnovabili rientrerebbe a pieno titolo la “trasformazione in energia elettrica di prodotti vegetali non trattati chimicamente”; il decreto n. 401 del 1999, recante norme sulla concessione di aiuti a favore della produzione e utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili nel settore agricolo, stabiliva in maniera tassativa ciò che si dovesse intendere per “biomassa” elencando: legna da ardere, residui lignocellulosici puri, sottoprodotti di coltivazioni agricole ed ittiche, colture agricole forestali dedicate, liquami e reflui zootecnici e acquicoli. Il d.p.c.m. 8.10.2004, in modifica del d.p.c.m. 8.3.2002, elenca in modo tassativo le biomasse combustibili all’art. 3 co. 1 lett. m) e 6 co. 1 lett. h) ed in particolare, al numero 4), include il “materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura e trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di legno vergine.” Per tale ragione il legno detannizzato non può includersi tra le biomasse. D’altro canto la stessa Corte di Giustizia delle Comunità europee ha sempre difeso una interpretazione ampia della nozione di rifiuto, in coerenza con gli obiettivi della direttiva 2006/12/CE e con l’art. 174, paragrafo 2, del trattato CE, che impone alla Comunità di adottare un elevato livello di tutela ambientale. La Corte di Giustizia ha ritenuto qualificabile come rifiuto qualsiasi sostanza di cui l’interessato intende “disfarsi” ed ha affermato che sono le circostanze specifiche a fare di una sostanza un rifiuto. Secondo la Corte di Giustizia può essere inteso quale sintomo del fatto che una sostanza non sia rifiuto la circostanza che la sua produzione sia il risultato di una deliberata scelta produttiva, che l’imprenditore avrebbe anche potuto evitare; tuttavia occorre che il riutilizzo del materiale avvenga nel corso del processo di produzione. Inoltre, per il legislatore ambientale, un prodotto, per essere definito biomassa, deve essere il risultato di una lavorazione esclusivamente meccanica e non deve essere contaminato da inquinanti; nel caso di specie mancherebbe il requisito della lavorazione esclusivamente meccanica.
Corretta doveva poi ritenersi la scelta della Provincia di non convocare la conferenza di servizi, preso atto dell’esito negativo della preistruttoria e della mancanza delle condizioni di ammissibilità della domanda.
Evidenziava infine il Comune come gli atti dal medesimo adottati in seguito al diniego espresso dalla Provincia ne fossero necessaria conseguenza; in particolare la deliberazione n. 19 del 14.5.2007, con la quale era stata sospesa la firma della convenzione, la deliberazione n. 38 del 30.10.2007, con la quale era stato revocato il perfezionamento della Convenzione con la società Silvateam, la deliberazione n. 1 del 29.1.2008, con quale il Comune aveva revocato l’originaria deliberazione sospendendo l’intera procedura convenzionatoria, e la determinazione n. 18 del 27.10.2008, di revoca dell’assegnazione dei terreni, nelle more intervenuta nell’ambito del PIP, e collegato trattenimento della caparra, risultavano essere tutti atti dovuti alla luce delle posizioni assunte dalla Provincia. Si associava infine alle difese della Provincia in punto inammissibilità delle censure mosse avverso le linee guida, per non avere queste trovato applicazione alla ricorrente, essendosi il procedimento arrestato prima.
Con memoria depositata il 24.4.2009 Silvateam ha ribadito le proprie tesi difensive evidenziando che, in data 12.3.2008, la Commissione Europea - DG ambiente - ha emesso, in risposta ad un quesito posto dal Consiglio Nazionale dei Chimici italiano, il parere prot. D(2008)3842 chiarendo che il legno risultante dal processo di estrazione del tannino è un prodotto e non un rifiuto ed in ogni caso beneficia della disciplina dettata dalla direttiva 77/2001/CE, e quindi, in Italia, dal d.lgs. n. 387/2003 che vi ha dato attuazione, poiché la direttiva chiarisce che anche la parte biodegradabile dei rifiuti può essere inclusa nella biomassa. Pertanto il legno detannizzato deve classificarsi prodotto e non rifiuto e, anche a prescindere dalla sua qualificazione, il medesimo può beneficiare della disciplina dalla Direttiva 77/2001/CE; nel corso del 2008 la Commissione europea ha presentato una proposta di Direttiva volta ad ulteriormente rafforzare lo sfruttamento di fonti rinnovabili di energia e, nella relazione accompagnatoria della medesima, sottolinea come le maggiori difficoltà nello sfruttamento delle biomasse derivino dagli ostacoli amministrativi e autorizzatori frapposti in molti Stati e, in particolare come l’Italia sia ancora lontana dagli obiettivi tanto nazionali che europei fissati in materia.
Inoltre la direttiva 2008/98/CE del 19.11.2008, relativa ai rifiuti, ha definito i sottoprodotti come non assimilabili ai rifiuti e quindi esclusi dall’applicazione della direttiva medesima ed ha chiarito, codificando principi giurisprudenziali, che una sostanza è sottoprodotto se è certo che sarà ulteriormente utilizzata, può essere utilizzata senza alcun ulteriore trattamento, è prodotta come parte integrante del processo di produzione, e il suo utilizzo è legale, nel senso che rispetta tutti i requisiti prescritti per la protezione della salute e dell’ambiente. Ne deriva l’obbligo di una interpretazione complessivamente conforme alla disciplina comunitaria del diritto nazionale.
Infine parte ricorrente evidenzia ulteriormente che, in data 2.3.2009, il GSE Gestore Servizi Elettrici, in seguito ad apposita domanda presentata da Silvateam ha qualificato l’impianto come “alimentato da fonti rinnovabili” e quindi legittimato a beneficiare delle relative agevolazioni.
Il d.lgs. 133/2005 ha escluso dalla normativa in tema di rifiuti tutte le biomasse avviate a combustione; anche poi a voler considerare, a fini interpretativi, il superato d.m. 5.2.1998, citato dalle parti resistenti e travolto dal d.lgs. 133/2005, risulta comunque che detto d.m. individua possibili attività finalizzate all’esclusivo recupero di scarti quali lavaggio, cernita, adeguamento volumetrico e cippatura; nel caso del legno detannizzato, per contro, tanto il lavaggio che la cippatura, in quanto già parte integrante del processo di estrazione del tannino, non possono ricondursi ad operazioni di recupero né si rendono ulteriormente necessari al termine dell’unico processo produttivo.
In ogni caso, proprio alla luce dei parametri di classificazione dei sottoprodotti dettati dalla giurisprudenza comunitaria, il processo produttivo di estrazione del tannino posto in essere da Ledoga s.r.l. utilizza deliberatamente acqua surriscaldata per ottenere il tannino, quindi adotta una scelta produttiva per poter produrre anche il cippato di legno detannizzato, il cui reimpiego è certo in quanto ampiamente richiesto sia come combustibile sia per le centrali a biomasse. Il suo reimpiego procura ricavi al produttore e non necessita di alcun ulteriore trattamento né ha alcun impatto ambientale negativo. Infine la più recente giurisprudenza comunitaria ha evidenziato l’irrilevanza del reimpiego del sottoprodotto necessariamente nel medesimo ciclo produttivo, fermo il rispetto delle condizioni sopra elencate.
Quanto all’impugnativa delle linee guida parte ricorrente ne afferma in principalità la non applicabilità alla propria istanza di autorizzazione, in quanto presentata diversi mesi prima della loro adozione, prendendo anche atto del fatto che, nelle proprie difese, la stessa Provincia le qualifica non vincolanti; in ogni caso insiste per l’immediata lesività e quindi annullabilità di quelle prescrizioni che paiono puntuali e vincolanti, là dove ad esempio impongono di utilizzare biomasse di una determinata provenienza; in ogni caso ribadisce l’assunto per cui la Provincia potrebbe incentivare e promuovere lo sviluppo di fonti rinnovabili e non ostacolarlo. Ribadisce inoltre l’inadeguatezza di un sistema di valutazione aprioristica dell’impatto ambientale dell’impianto, considerata l’impossibilità di affermare a priori e in astratto che tale impatto sia sempre minore qualora le biomasse provengano dall’agricoltura locale; evidenzia per contro i pregi dell’impianto proposto; ribadisce la frizione tra l’impostazione evincibile dalle linee guida provinciali e la libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 del Trattato CE, in quanto impedirebbero a biomasse di provenienza comunitaria (in particolare molta biomassa è prodotta nei paesi scandinavi) di essere utilizzata negli impianti della Provincia di Asti; insiste per l’accoglimento del ricorso con annullamento anche delle linee guida.
DIRITTO
I presupposti in fatto della presente vertenza sono pacifici tra le parti: è infatti pacifico che Silvateam New Tech s.r.l. ha presentato alla Provincia di Asti istanza per ottenere, ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003, l’autorizzazione ad installare una centrale a biomasse nel Comune di Castagnole delle Lanze; la ricorrente prospetta nel progetto di alimentare la centrale in particolare con cippato di legno detannizzato. Le parti concordemente affermano che tale cippato di legno deriva da un processo di estrazione del tannino portato a termine attraverso il solo impiego di acqua e aria calda; il cippato di legno di castagno viene successivamente lavato con acqua surriscaldata a 112° e poi strizzato meccanicamente ed essiccato mediante vapore. E altresì pacifico che nessun additivo chimico è utilizzato nel processo produttivo e che il cippato residuo altro non è che cippato di legno privato del tannino.
Per una corretta impostazione della causa occorre prendere le mosse dal diritto comunitario di cui il d.lgs. 387/2003 è diretta attuazione, ossia la direttiva 77/2001/CE, finalizzata a promuovere lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabili.
Il diniego oggetto principale della presente impugnativa afferisce in particolare al procedimento di autorizzazione unica all’installazione della centrale a biomasse semplificato ex lege con il modulo della conferenza di servizi come previsto dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003; la Provincia ha ritenuto di non attivare neppure il procedimento formulando un negativo vaglio preliminare di ammissibilità dell’istanza in quanto il cippato non sarebbe qualificabile biomassa bensì rifiuto.
Il primo parametro interpretativo utilizzabile per l’intelligenza del significato di una norma nazionale di diretta derivazione comunitaria è ovviamente la normativa comunitaria stessa, per la necessità imprescindibile di garantire la primazia del diritto comunitario, il suo effetto utile, nonché di interpretare la normativa nazionale in senso conforme alle regole di cui costituisce attuazione; scorretta risulterebbe l’inversione dell’iter logico procedendo ad esempio secondo la centralità della sola legge nazionale magari letta, con una vera inversione di gerarchia delle fonti, alla luce di parametri normativi secondari quali i decreti ministeriali che ne devono costituire attuazione e non ostacolo.
La direttiva 77/2001/CE evidenzia, nei considerando introduttivi, la preoccupazione che la politica comunitaria di incentivazione della produzione energetica da biomasse non vanifichi l’altrettanto fondamentale politica comunitaria di “gestione” dei rifiuti; tuttavia il nono considerando della direttiva specifica: “la definizione di biomassa utilizzata nella presente direttiva lascia impregiudicato l'utilizzo di una definizione diversa nelle legislazioni nazionali per fini diversi da quelli della presente direttiva.”
L’articolo 2 lett. b) della direttiva definisce biomassa: “b) "biomassa" la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Dall’insieme dei due assunti, che in sé riassumono il cuore della presente vicenda, si evincono due fondamentali considerazioni: è “fisiologico” che la problematica dei rifiuti e quella delle biomasse si intersechino, al punto che nella definizione di “biomassa” dettata dalla direttiva 77/2001 entra tout court la parte biodegradabile dei rifiuti; d’altro canto è “fisiologico” che nel sistema coesistano più definizioni di biomassa, dettate nel contesto di diverse discipline, magari tutte di derivazione comunitaria, tant’è che la direttiva 77/2001 si preoccupa espressamente di fare salve le eventuali preesistenti e diverse definizioni di biomassa.
Ne risulta di immediata evidenza la possibile inutilità di tentare la ricostruzione di un’unica e universalmente valida definizione di biomassa, proprio perché tale tentativo si scontrerebbe con la molteplicità di definizioni prevista e tollerata dal sistema.
Diviene allora preliminarmente necessario comprendere a quale fine e in quale contesto la definizione di biomassa deve essere ricostruita, per poter procedere all’individuazione della giusta definizione. Ne deriva infine la fisiologica possibilità che, ciò che in un determinato contesto è soltanto un “rifiuto”, in un altro possa assumere il valore di fonte rinnovabile di energia.
Ora è evidente che, là dove si verta in tema di procedura autorizzatoria prevista dall’art. 12 del d.lgs. 387/2003 per l’installazione di una centrale elettrica a biomasse, non potrà che definirsi la biomassa alla luce della definizione che si ricava direttamente dalla direttiva 77/2001/CE di cui tale decreto legislativo è attuativo e che si occupa specificamente di fonti energetiche rinnovabili; quindi verrà in considerazione la definizione dettata dall’art. 2 della direttiva.
In sede definitoria anche l’art. 2 del d.lgs. 387/2003 riprende testualmente la direttiva e stabilisce “.. per biomassa si intende: la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”.
Questa è, si ribadisce, l’unica definizione di biomassa presente nella legislazione italiana rilevante e congruente con la pertinente direttiva al fine di stabilire cosa possa intendersi per biomassa nel contesto di disciplina afferente le fonti rinnovabili di energia, che qui interessa; essa, come chiarito nei considerando della direttiva di cui è attuazione, può poi convivere con altre e solo parzialmente coincidenti definizioni.
Non del tutto pertinente è allora l’eventualmente diversa definizione ricavabile dal d.lgs. 152/2006 e relativo allegato X alla parte V (ovvero dal d.p.c.m. 8.3.2002, come modificato dal d.p.c.m 8.10.2004, in tema di “disciplina delle caratteristiche merceologiche dei combustibili aventi rilevanza ai fini dell'inquinamento atmosferico, nonche' delle caratteristiche tecnologiche degli impianti di combustione”, dal contenuto sostanzialmente sovrapponibile all’allegato X del d.lgs. 152/2006), non dettata in attuazione specifica della direttiva in materia di fonti rinnovabili di energia e dunque tale da scontare il possibile equivoco di presupporre diverse definizioni di biomassa. E’ infatti pur vero che l’art. 267 co. 4 del d.lgs. 152/2006 formula espresso richiamo alla direttiva 2001/77/CE e al d.lgs. 387/2003, ciò tuttavia avviene senza per altro modificare il contenuto di quest’ultimo, inclusa la definizione di cui all’art. 2, che dunque continua a sussistere; la definizione di biomassa che in tale ultima norma resta così cristallizzata ben può definirsi “speciale” alla luce di quanto evincibile dai considerando della direttiva; vero è allora che, se nell’allegato X del d.lgs. 152/2006 si riprende una pregressa definizione di biomassa anche non del tutto congruente con quella evincibile dalla direttiva 77/2001, per le ragioni già esposte, quest’ultima e solo questa sarà la norma rilevante quando venga in causa l’applicabilità della disciplina promozionale dettata dal d.lgs. 387/2003. D’altro canto la configurabilità come “rifiuto” di una sostanza non esclude l’applicabilità alla medesima, in una fase successiva, della normativa afferente le fonti di energia rinnovabili per quella parte di “rifiuti biodegradabili” che sono infatti espressamente contemplati dalla direttiva 77/2001 e quindi dal d.lgs. 387/2003.
Se quanto sopra si ritiene valido ai fini del coordinamento del significato di disposizioni tutte di pari rango a maggior ragione ovviamente nessuna vanificazione della portata delle definizione di cui all’art. 2 del d.lgs. 387/2003 potrà derivare dai vari d.p.c.m. prima menzionati.
Fuorvianti a fini interpretativi si ritengono poi i richiami al d.m. 5.2.1998 relativo alla “individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero” effettuati dalle amministrazioni resistenti; basti pensare che, a tacer d’altro, il d.m. 5.2.1998 al punto 9.2 annovera tra i “rifiuti di legno e sughero” gli “scarti di legno e sughero, imballaggi di legno” provenienti dalla lavorazione del “legno vergine” e descrive le caratteristiche del rifiuto come “legno vergine in scarti di diverse dimensioni e segatura, con possibili presenze di polveri di natura inerte”. A seguire allora fino in fondo le suggestioni interpretative mosse dalle parti resistenti sulla scorta di questo argomento, e considerando il d.m. parametro interpretativo idoneo ad escludere l’utilizzabilità quale “biomassa-fonte di produzione energetica” le sostanze ivi indicate, si potrebbe arrivare alla conclusione paradossale che i semplici scarti di legno vergine, sulla cui idoneità a costituire biomasse nulla hanno da eccepire le amministrazioni resistenti, essendo annoverati ad altri fini quali “rifiuti” al punto 9.2. del d.m. in questione non possono costituire biomassa per l’alimentazione di una centrale elettrica.
Ragioni di confusione interpretativa, per altro, sono state indotte dallo stesso legislatore italiano con alcuni passaggi incerti del d.lgs. 387/2003; con tale decreto legislativo, infatti, in prima battuta, nell’ambito del “regime riservato alle fonti energetiche rinnovabili” sono stati inseriti anche rifiuti che, a differenza di quelli biodegradabili citati dalla direttiva 77/2001/CE, certamente non possono rientrarvi secondo la direttiva; l’originaria versione dell’art. 17 del d.lgs. 387/2003, infatti, ammetteva a trattamento “similare” a quello delle fonti rinnovabili sic et simpliciter i “rifiuti, ivi compresa la loro frazione non biodegradabile e i combustibili derivanti da rifiuti”. In tal senso disponeva il co. 1 dell’art. 17 del d.lgs. 387/2003; esso è stato oggetto di attenzione anche da parte della Comunità Europea per l’evidente scorretta trasposizione della direttiva ed è poi stato abrogato dall'articolo 1, comma 1120 lettera a), della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Dell’originario articolo 17 sopravvive oggi il solo co. 2 che, in particolare alla lett. c), esclude dal regime riservato alle fonti rinnovabili “i prodotti energetici che non rispettano le caratteristiche definite nel decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 8 marzo 2002, e successive modifiche ed integrazioni.”
Su tale esclusione nuovamente appuntano la loro attenzione le amministrazioni resistenti evidenziando come il d.m. 8.3.2002, già citato, ha sul punto contenuto identico all’allegato X alla parte quinta del d.lgs. 152/2006, nella sua parte II, sez, 4 lett. d); in particolare in tali norme si definisce biomassa combustibile “il materiale vegetale prodotto dalla lavorazione esclusivamente meccanica di legno vergine e costituito da cortecce, segatura, trucioli, chips, refili e tondelli di legno vergine, granulati e cascami di sughero vergine, tondelli non contaminati da inquinanti.”
Il rinvio innanzitutto non può essere correttamente compreso avulso dal contesto originario in cui era stato previsto, cioè una disposizione che “assimilava” alle fonti energetiche rinnovabili tutti i rifiuti, anche non biodegradabili, poi procedendo ad escluderne quelli privi di determinate caratteristiche.
In ogni caso già si è visto come, ai fini per cui è causa, non possa rilevare l’eventuale più restrittiva definizione di biomassa ricavabile dal d.lgs. 152/2006; né il rinvio al d.p.c.m. potrebbe restringere la nozione di biomassa desunta direttamente dalla direttiva e correttamente recepita dall’art. 2 del d.lgs. 387/2003. Anche allora leggendo la disposizione dell’art. 17 d.lgs. 387/2003 come oggi residua, non può non evidenziarsi che una eventuale definizione ricavabile dal combinato disposto della legge e del d.p.c.m. 8.3.2002 (per di più anteriore al d.lgs. 387/2003) in termini restrittivi o contraddittori rispetto alla definizione legislativa di cui all’art. 2 del d.lgs. 387/2003, letterale trasposizione del disposto della normativa 77/2001/CE, non potrebbe che soccombere, prima ancora per la gerarchia tra le norme nazionali, interpretate in senso conforme al diritto comunitario, che per la necessità di disapplicare la disposizione nazionale eventualmente contrastante con la direttiva comunitaria.
Risulta a questo punto in parte superfluo valutare se il cippato di legno detannizzato possa o meno rientrare nel concetto di sottoprodotto di cui all’art. 183 del d.lgs. 152/2006, come modificato dal d.lgs. 4/2008, e con ciò sfuggire comunque all’inquadramento quale rifiuto, concetto da leggersi a sua volta alla luce delle disposizioni e della giurisprudenza comunitaria di cui è precipitato; ciò perché, come già più volte evidenziato, secondo la direttiva 77/2001/CE, e quindi il d.lgs. 387/2003, anche veri e propri “rifiuti”, purchè biodegradabili, sono certamente suscettibili di utilizzazione quali biomasse in centrali di produzione di energia.
Per completezza, tuttavia, e considerato che le amministrazioni resistenti evidenziano come la direttiva 77/2001/CE precisi, nei considerando, l’esigenza di coordinarsi con la politica comunitaria in materia dei rifiuti, si procede all’analisi di questo ulteriore profilo per il quale comunque pare più persuasiva la tesi di parte ricorrente.
Il concetto di “sottoprodotto” è un concetto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria formatasi in tema di rifiuti; anche in questo caso la disposizione espressa dal legislatore italiano non può essere compresa se non sulla scorta della normativa comunitaria da cui trae origine.
Le parti sono in contrasto in particolare circa un requisito del sottoprodotto che sarebbe necessario secondo il diritto comunitario e che mancherebbe al cippato in questione, quello del “reimpiego nel medesimo ciclo produttivo”. La Corte di Giustizia ha enucleato anche una serie di altri requisiti dei sottoprodotti dei quali non si può seriamente dubitare che sussistano in relazione al cippato di legno detannizzato per cui è causa: esso deriva da un processo produttivo che non è principalmente destinato a produrlo (infatti il prodotto principale è il tannino estratto), è destinato alla riutilizzazione (nel contesto per cui è causa la riutilizzazione è per forza certa, poiché il cippato viene in considerazione non sul fronte di chi deve eventualmente disfarsene ma sul fronte di chi già lo ha acquistato per utilizzarlo quale fonte di energia nella centrale, quindi è identificata, certa ed attuale la sua riutilizzazione), non occorrono trasformazioni preliminari, poiché, come pacifico in causa, il trattamento con acqua e aria calda del legno vergine, privo di qualsivoglia additivo chimico, produce contestualmente il tannino e il cippato di legno detannizzato il quale, per essere utilizzato come combustibile, non necessita più di alcun tipo di trattamento.
Il contrasto tra le parti in causa si appunta invece, come detto, principalmente, sul concetto di reimpiego nel “medesimo ciclo produttivo”.
Al riguardo la giurisprudenza comunitaria ha subito un’evoluzione il cui punto di svolta viene fissato normalmente nella causa C 235-02 Saetti e Freudiani, ordinanza del 15.1.2004, in cui la Corte ammette che il reimpiego del sottoprodotto può attenere ad un ciclo produttivo diverso; quindi nella sentenza 8.9.2005, in causa C 416-02 Commissione delle Comunità Europee contro Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord, la Corte statuisce che i sottoprodotti possono essere riutilizzati per il fabbisogno di operatori economici diversi da quelli che li hanno prodotti. Si riporta il passo significativo: “In determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l’impresa non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni ad essa favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Non vi è, in tal caso, alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni della detta direttiva, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che, dal punto di vista economico, hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti, a condizione che tale riutilizzo non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare, e nel corso del processo di produzione. La Corte ha così giudicato che detriti o sabbia di scarto da operazioni di arricchimento di minerale provenienti dallo sfruttamento di una miniera sfuggono alla qualifica di rifiuti ai sensi della direttiva 75/442 quando il detentore li utilizzi legalmente per il necessario riempimento delle gallerie della detta miniera e fornisca garanzie sufficienti sull’identificazione e sull’utilizzazione effettiva di queste sostanze (v., in questo senso, sentenza 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punto 43). La Corte ha anche dichiarato che non costituisce un rifiuto ai sensi della detta direttiva il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie (ordinanza 15 gennaio 2004, causa C- 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I, 1005, punto 47). Come afferma giustamente il governo del Regno Unito nella sua memoria di intervento, gli effluenti di allevamento possono, alle medesime condizioni, sfuggire alla qualifica di rifiuti, se vengono utilizzati come fertilizzanti dei terreni nell’ambito di una pratica legale di spargimento su terreni ben individuati e se lo stoccaggio del quale sono oggetto è limitato alle esigenze di queste operazioni di spargimento. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, non occorre limitare quest’analisi agli effluenti d’allevamento utilizzati come fertilizzanti sui terreni che appartengono allo stesso stabilimento agricolo che li ha prodotti. Infatti, come la Corte ha già giudicato, una sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta (v., in questo senso, ordinanza Saetti e Frediani, cit., punto 47).”
L’evoluzione giurisprudenziale è il risultato fisiologico di una modalità di procedere casistica tipica della Corte di Giustizia che va progressivamente enucleando i distinguo attinenti fattispecie concrete. Anche le più recenti pronunce della Corte di Giustizia riassumo e ribadiscono l’iter logico percorso e l’approdo già evidenziato.
Nella sentenza CGCE 18.12.2007 in causa C 195-05 Commissione contro Repubblica italiana (identica la sentenza 18.12.2007 in causa C 263-05 Commissione contro Repubblica italiana): “38 La Corte ha precisato, da un lato, che l’esecuzione di una delle operazioni di smaltimento o di recupero di cui agli allegati II A o II B alla direttiva non consente di per sé di qualificare come rifiuto una sostanza o un oggetto trattato in tale operazione (v. in tal senso, in particolare, sentenza Niselli, cit., punti 36 e 37) e, dall’altro, che la nozione di rifiuti non deve intendersi nel senso che essa esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica (v., in tal senso, in particolare, sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C 304/94, C 330/94, C 342/94 e C 224/95, Tombesi e a., Racc. pag. I 3561, punti 47 e 48). Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva intende infatti riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (v., in particolare, sentenza 18 aprile 2002, causa C 9/00, Palin Granit e Vehmassalon kansanterveystyön kuntayhtymän hallitus, Racc. pag. I 3533; in prosieguo: la sentenza «Palin Granit», punto 29). 39 Tuttavia, emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che, in determinate situazioni, un bene, un materiale o una materia prima che deriva da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale il detentore non cerca di «disfarsi» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva, ma che intende sfruttare o commercializzare - altresì eventualmente per il fabbisogno di operatori economici diversi da quello che l’ha prodotto - a condizioni ad esso favorevoli, in un processo successivo, a condizione che tale riutilizzo sia certo, non richieda una trasformazione preliminare e intervenga nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (v., in tal senso, sentenze Palin Granit, cit., punti 34 36; 11 settembre 2003, causa C 114/01, AvestaPolarit Chrome, Racc. pag. I 8725, punti 33 38; Niselli, cit., punto 47, nonché 8 settembre 2005, causa C 416/02, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7487, punti 87 e 90, e causa C 121/03, Commissione/Spagna, Racc. pag. I 7569, punti 58 e 61). 40 Pertanto, oltre al criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un secondo criterio utile ai fini di valutare se essa sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un autentico prodotto (v. citate sentenze Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46). 41 Tuttavia, se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore ed essere potenzialmente fonte di quel danno per l’ambiente che la direttiva mira specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo ed è prevedibile solo a più o meno lungo termine, cosicché la sostanza di cui trattasi deve essere considerata, in via di principio, come rifiuto (v., in tal senso, citate sentenze Palin Granit, punto 38, e AvestaPolarit Chrome, punto 39).”
Sul punto pare ulteriormente opportuno chiarire, riportando sempre la citata pronuncia che: “42 L’effettiva esistenza di un «rifiuto» ai sensi della direttiva va pertanto accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto della finalità della direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia (v. citate sentenze ARCO Chemie Nederland e a., punto 88, e KVZ retec, punto 63, nonché ordinanza 15 gennaio 2004, causa C 235/02, Saetti e Frediani, Racc. pag. I 1005, punto 40).”
Emerge cioè dalla disciplina comunitaria l’esigenza, richiamata anche dalle parti resistenti, da una parte di non restringere eccessivamente il concetto di rifiuto e di farne una applicazione conforme al principio comunitario di precauzione, onde evitare facili elusioni della relativa disciplina; d’altro canto di evolversi alla luce dell’implemento delle conoscenze e delle tecnologie; basti pensare che la stessa direttiva 77/2001/CE all’articolo 6 precisa che gli stati membri valutano il vigente quadro legislativo e regolamentare in tema di fonti energetiche rinnovabili allo scopo di “garantire che le norme siano oggettive, trasparenti e non discriminatorie e tengano pienamente conto delle particolarità delle varie tecnologie per le fonti energetiche rinnovabili”, con espresso richiamo all’evoluzione e varietà della tecnologia.
Nelle pronunce riportate e qui rilevanti si accentua il criterio “soggettivo” di individuazione del rifiuto ancorato alla necessità/intenzione o meno del titolare di “disfarsene” rispetto al criterio “oggettivo” di mera e rigida catalogazione delle categorie dei rifiuti.
Ora è pur vero che, come evidenziato dalle parti resistenti, i considerando della direttiva 77/2001/CE, richiamano l’attenzione degli stati membri sulla normativa in materia di “gestione” dei rifiuti, di cui riconoscono la preminenza, ed in particolare ribadiscono che la politica di incentivazione delle fonti di energia rinnovabili non può vanificare la politica di corretta gestione dei rifiuti; vero è anche che il coordinamento delle due politiche non si realizza ipotizzando, come sembra emergere dalla difese delle parti resistenti, una reciproca esclusione tra il concetto di biomassa fonte di energia rinnovabile e il concetto di rifiuto, posto che ciò è da subito smentito dalla stessa direttiva 77/2001/CE.
Il coordinamento delle due politiche meglio si comprende come possibile nella sua dinamica se si considera il concetto “soggettivo”di rifiuto ricavabile dalla giurisprudenza comunitaria che può garantire e spiegare la coesistenza parallela delle due politiche. A tal fine sono illuminanti le considerazioni dell’avvocato generale Jan Mazák presentate il 22 marzo 2007 nelle conclusioni in causa C 195/05 Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana: “36 Il problema connesso con il tentativo di definire il termine «rifiuti» nasce dal fatto che si tratta di una nozione molto relativa. Consideriamo comunemente «rifiuti» le sostanze o i materiali che non vogliamo più perchè hanno perduto la loro utilità o, più in generale, il loro valore, ovvero che, per qualche ragione, non hanno mai avuto un valore per noi. In ogni caso, proprio perché il valore dei materiali e degli oggetti non è «intrinseco» ad essi ma, per così dire, dipende dalle considerazioni di chi li detiene, non esiste in pratica una sostanza che possa essere considerata generalmente ed in ogni circostanza un rifiuto… La questione di stabilire se una determinata sostanza sia un rifiuto deve essere piuttosto risolta alla luce del complesso delle circostanze.”
Ora è evidente che, quando la giurisprudenza comunitaria apprezza l’importanza del reimpiego certo di un sottoprodotto per qualificarlo tale, ha ben presente che un “sottoprodotto” astrattamente utilizzabile in un qualche ciclo produttivo potrebbe concretamente non trovare accesso a quel ciclo, perché chi lo produce non riesce ad indirizzarvelo e così si trova con un bene che, potenzialmente è suscettibile di riutilizzazione economica, ma nel concreto diviene per lui un problema di cui disfarsi; è chiaro tuttavia che tutte queste considerazioni hanno pregio se si ha riguardo al produttore del bene che non sia neppure utilizzatore del medesimo, poiché se egli direttamente se ne avvale azzera sostanzialmente il rischio che il bene resti inutilizzato; ed è perciò che nelle prime enucleazioni del concetto di sottoprodotto la Corte di Giustizia ha escluso dalla disciplina dei rifiuti ciò che il produttore dei medesimi riusciva a reimpiegare direttamente. Analogo ragionamento, tuttavia, potrà applicarsi al riutilizzatore, anche diverso dal produttore, una volta che il bene sarà entrato nel suo ciclo produttivo; è evidente che colui che ha acquistato il “sottoprodotto”già lo ha con certezza destinato alla riutilizzazione e quindi, quantomeno in capo a costui, il problema del reimpiego sarà nuovamente azzerato.
Se si dovessero applicare al caso di specie i principi così enucleati non potrebbe che osservarsi che, al limite, il problema di stabilire se il cippato di legno possa in certi casi assumere la veste di “rifiuto” si porrebbe nel ciclo produttivo dalla Ledoga s.r.l., non certo in quello della Silvateam che lo ha acquistato e certamente e direttamente lo reimpiega.
Ciò ancora spiega il perché di quella giurisprudenza solo apparentemente distonica rispetto a quanto qui si sostiene, citata dalle parti resistenti, ed in particolare delle statuizioni della Cassazione penale nella sentenza 11.4.2007 n. 14557, che ha ampiamente richiamato la sentenza della Corte di Giustizia Niselli in causa C 457/02, ricordando come un sottoprodotto per essere tale deve essere riutilizzato con certezza; il giudice si occupava di una fattispecie in cui erano stati abbandonati per diversi mesi alcuni metri cubi di residui di imballaggi e nella quale il responsabile dell’abbandono si difendeva sostenendo che essi erano destinati al reimpiego, cosa in effetti accaduta a notevole distanza di tempo. Replica in tal caso la Suprema Corte che “la circostanza che la società avesse intenzione di rivendere i materiali a terzi produttori per un eventuale riutilizzo non basta per far perdere agli stessi la qualità di rifiuto. Ciò perché anche l'art. 14, comma 2, per escludere la qualità di rifiuto, richiede che il riutilizzo produttivo della sostanza sia oggettivamente certo ed effettivo, e tale non può dirsi nel caso di specie, in cui le sostanze - peraltro non tutte riutilizzabili "tal quali" - giacevano in deposito incontrollato da circa sei mesi/un anno di tempo”; ciò che in definitiva mancava nel caso in questione, seguendo i parametri della giurisprudenza comunitaria, era la certezza del reimpiego. Così ancora si comprende il perché delle censure comunitarie ad una normativa italiana che, nella originaria versione dell’art. 183 del d.lgs. 152/2006, pareva qualificare una sostanza sottoprodotto sulla sola base della sua astratta commerciabilità o del suo potenziale valore economico; non basta infatti, come visto, che il bene possa teoricamente essere commercializzato (anche se ciò ovviamente aumenta le sue possibilità di reimpiego) occorre che esso concretamente venga destinato al reimpiego. Ancora correttamente l’ultima versione dell’art. 183 lett. p) del d.lgs. 152/2006, nel qualificare il sottoprodotto, non puntualizza che esso deve reimpiegarsi nel “medesimo” processo produttivo ma in un processo di produzione e utilizzazione preventivamente individuato e definito, quindi certo.
Resta il fatto che, nel caso che qui occupa, ancor più se si considera il destino del “sottoprodotto” dal punto di vista del diretto riutilizzatore, quale è Silvateam, non vi è alcuna incertezza o indeterminatezza nel reimpiego del cippato di legno; ciò dà anche ragione del perché la direttiva 77/2001 si dichiari contemporaneamente necessariamente conforme alla politica comunitaria della gestione dei rifiuti e pur tuttavia inserisca direttamente i rifiuti biodegradabili tra le possibili fonti di energia rinnovabile, chiaro essendo che, una volta che l’eventuale rifiuto biodegradabile di un ciclo produttivo, utilizzabile come combustibile in altro ciclo produttivo, sia pervenuto al certo riutilizzatore (fermi gli ulteriori parametri, ad esempio in tema di emissioni degli impianti, dettati dalla normativa sulle energie rinnovabili) esce dal ciclo di gestione dei rifiuti ed entra in quello di produzione di energia.
Parte ricorrente si è vista contestare, in astratto, la non appartenenza del cippato di legno detannizzato alle fonti idonee ad alimentare centrali a biomasse; alla luce della pertinente normativa dettata dalla direttiva 77/2001/CE e dal d.lgs. 387/2003 nonché della citata giurisprudenza comunitaria si ritiene di aver dimostrato che tale conclusione è radicalmente errata; addirittura pare corretto nel caso di specie, alla luce della giurisprudenza comunitaria, qualificare il cippato quale sottoprodotto, almeno quando il medesimo sia pervenuto al riutilizzatore Silvateam e così appalesi il suo certo reimpiego. E’ congruente con tali conclusioni la risposta fornita al quesito posto dall’Ordine Nazionale dei chimici dalla Commissione Europea - direzione ambientale - in data 12.3.2008 prodotta sub. doc. 16 di parte ricorrente; in essa, ribadito che si tratta di una “opinione” della Commissione non vincolante legalmente dal punto di vista interpretativo, si afferma tuttavia, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che il cippato soddisfi i requisiti del sottoprodotto (by-product) in quanto: il metodo di estrazione del tannino è frutto di una deliberata scelta produttiva, il reimpiego del legno è certo, il legno è già pronto per il reimpiego senza necessità di ulteriori processi, l’uso del cippato è legale.
Devono pertanto trovare accoglimento le domande di annullamento della determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5 ottobre 2007 con la quale è stata preliminarmente negata l’attivazione delle procedure previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 387/2003 per la costruzione ed esercizio di un impianto di energia elettrica alimentato a cippato di legno, nonché di ogni altro atto presupposto connesso e conseguente. Non occorre alcun formale annullamento dei meri pareri acquisiti presso diversi organi, anche impugnati in ricorso, semplicemente espressione di attività consultiva e non vincolante e comunque sintomatici della complessità della vicenda e dello sforzo in ogni caso compiuto dalla Provincia per un corretto inquadramento della questione.
Parte ricorrente contesta inoltre le “Linee guida in materia di produzione di energia elettrica da biomasse - indirizzi per la formazione del parere provinciale nell’ambito della Conferenza di servizi ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003” e la relativa deliberazione del Consiglio Provinciale n. 50 del 25 settembre 2007 di approvazione delle medesime.
La stessa parte ricorrente, nella memoria depositata in data 24.4.2009, asserisce tuttavia che le medesime non le sarebbero opponibili/applicabili essendo la sua istanza alla Provincia stata inoltra in epoca antecedente all’approvazione delle Linee Guida. La circostanza è vera e pacifica ed appalesa, nelle stesse difese di cui al ricorso, il difetto di interesse ad agire in relazione a tale tipo di impugnativa così come contestato dalle amministrazioni resistenti; queste ultime rilevano inoltre che si tratta di meri atti di indirizzo non vincolanti, né mai direttamente applicati all’istanza della ricorrente che, essendo stata ritenuta in limine improcedibile, non ha neppure attinto il vaglio di merito che le linee guida dovrebbero servire ad indirizzare.
Per tali ragioni il ricorso sul punto deve dichiararsi inammissibile.
Parte ricorrente evidenzia come taluni punti delle linee guida paiano vincolanti per l’esito della valutazione e come tali già immediatamente lesivi; in termini generali si può osservare che non può negarsi in radice una competenza ad emanare linee guida sul punto prevista dalla legge statale e regionale in capo alla Provincia; tale competenza è però finalizzata ad una funzione di “promozione” ed incentivazione della produzione di energia tramite biomasse; qualora tale competenza venisse esercitata per porre vincoli più stringenti di quelli dettati dalla normativa nazionale, ed in conflitto con la medesima, con il paradossale risultato di ostacolare e non di incentivare la politica di matrice comunitaria e nazionale in tema di produzione energetica da biomasse, essa sarebbe certamente priva di qualsivoglia supporto normativo; altro è dire che l’ente locale, in una politica promozionale, possa privilegiare sul proprio territorio determinate soluzioni rispetto ad altre, pur sempre autorizzabili e possibili, così limitandosi ad esercitare un scelta e selezione nell’applicazione di eventuali incentivi da sé medesimo posti, altro è pensare che l’ente possa ad esempio proporre una “sua” definizione di biomassa in contrasto con quella statale e di derivazione comunitaria, ovvero, ad esempio, sempre in contrasto con la ratio semplificatrice del modulo della conferenza di servizi previsto a fini autorizzatori dal d.lgs. 387/2003, procedere ad una “rimoltiplicazione” delle autorizzazioni e dei passaggi burocratici. Resta il fatto che, nel caso di specie, le linee guida non hanno trovato alcuna concreta applicazione all’istanza presentata dalla ricorrente, e risultano pure astrattamente inapplicabili ratione temporis, ragione per cui da una parte non è dato comprendere come verranno intese e concretamente applicate, dall’altra il ricorso manca sul punto della concretezza ed attualità dell’interesse ad agire che lo dovrebbe suffragare.
Stante la novità e complessità della vertenza sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte - sezione prima -
Accoglie il ricorso nei sensi e nei limiti di cui in motivazione e per l’effetto annulla la determinazione dirigenziale della Provincia di Asti n. 7602 del 5.10.2007 ed ogni altro atto presupposto connesso e consequenziale; dichiara inammissibile il ricorso limitatamente alla impugnazione delle “Linee Guida” approvate con deliberazione del Consiglio Provinciale n. 50 del 25.9.2007.
Compensa le spese di lite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 07/05/2009 con l'intervento dei Magistrati:
Franco Bianchi, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Primo Referendario
Paola Malanetto, Referendario, Estensore
IL PRESIDENTE
L'ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/06/2009
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL SEGRETARIO