Cass. Sez. III n. 35888 del 26 ottobre 2006 (ud. 3 ott. 2006)
Pres. Lupo Est. Fiale Ric. De Marco
Rifiuti. Differenza tra scarico e rifiuto liquido
1. L’attività di lavaggio di betoniere e
successiva essiccazione naturale del conglomerato cementizio
costituisce, quantomeno, operazione di “trattamento
preventivo” recante un rilevante pregiudizio connesso al
deflusso in corpi idrici delle residue acque inquinanti, né
risulta applicabile il disposto dell’art. 183 lettera m)
D.Lv. 152-2006
2. Lo scarico non necessita della presenza di tubazioni o
apparecchiature speciali costituenti una vera e propria condotta,
poiché integra uno scarico in senso giuridico qualsiasi
sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza,
senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno) i
reflui dal luogo di produzione al corpo ricettore. Tale interpretazione
non risulta contraddetta dal tenore letterale dell’articolo
74 lettera ff) del D.Lv. 152-2006
Svolgimento del processo
Con sentenza del 24 febbraio 2005 il Tribunale monocratico di Cassino
affermava la responsabilità penale di De Marco Angelo
Antonio in ordine ai reati di cui:
- all’art. 51, 2° comma, del D.Lgs. n. 22/1997 (per
avere - nella qualità di amministratore unico della s.r.l.
“IN FRA L.G.” - abbandonato in modo incontrollato,
su un’area di mq. 2000, rifiuti speciali non pericolosi
consistenti in residui della lavorazione del calcestruzzo - acc. in
Roccasecca, il 6 maggio 2002);
- all’art. 59, 1° comma, del D.Lgs. n. 152/1999 (per
avere - nella qualità anzidetta - effettuato senza la
prescritta autorizzazione lo scarico diretto nel fiume Melfa di acque
reflue industriali derivanti dal lavaggio degli automezzi utilizzati
per il trasporto del cemento) e, riconosciute circostanze attenuanti
generiche, unificati i reati nel vincolo della continuazione, lo
condannava alla pena complessiva di euro 5.000,00 di ammenda.
Avverso tale sentenza ha proposto “appello” il
difensore del De Marco, il quale ha eccepito:
- la erronea qualificazione come “rifiuti” dei
residui cementizi rinvenuti dai verbalizzanti, alla stregua delle
disposizioni introdotte. dall’art. 14 del D.L. 8 luglio 2002,
n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178, poiché
gli stessi “venivano interamente recuperati e nuovamente
immessi nel ciclo produttivo”;
- la insussistenza del reato di scarico abusivo, prospettando che,
nella specie, l’acqua di lavaggio delle betoniere veniva
scaricata sul suolo e non in un corpo idrico ed in ogni caso egli
avrebbe potuto presentare richiesta di autorizzazione entro il termine
del 31 dicembre 2003, non ancora scaduto alla data di accertamento dei
fatti per i quali è intervenuta condanna;
- la eccessività della pena.
Il gravame è stato trasmesso a questa Corte ai sensi
dell’art. 568, 5° comma, c.p.p.
Motivi della decisione
Il ricorso deve essere rigettato, perché infondato.
1. Il giudice del merito ha accertato, in punto di fatto, che - in
un’area di pertinenza dell’impianto per la
produzione di calcestruzzo gestito dalla società legalmente
rappresentata dall’imputato - era stato creato un punto fisso
di lavaggio delle betoniere: queste, allorquando rientravano nello
stabilimento, venivano risciacquate, con sversamento
dell’acqua frammista a cemento direttamente sul terreno; qui
la parte più consistente dello scarico era lasciata a
solidificare mentre la parte liquida si incanalava in un fossato
infrapoderale confluente nell’alveo del fiume Melfa.
2. Quanto alla contestata violazione del D.Lgs. n. 22/1997,
correttamente risulta esclusa, nella specie,
l’applicabilità dell’art. 14 del D.L. 8
luglio 2002, n. 138, convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178,
mancando la dimostrazione che i residui cementizi potessero essere o
fossero effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo ciclo
produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di
trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente, ovvero
dopo avere subito un trattamento preventivo, ma senza la
necessità di alcuna operazione di recupero tra quelle
individuate nell’Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.
Nella specie, nel procedimento di lavaggio delle autobetoniere e di
successiva essiccazione naturale del conglomerato di cemento da esso
derivato va identificata quanto meno una operazione di trattamento
preventivo ed essa arreca un rilevante pregiudizio ambientale connesso
al deflusso in corpi idrici delle residue acque inquinanti.
Né - come esattamente evidenziato dal giudice del merito -
sussistono elementi che rendano applicabile il disposto
dell’art. 6, comma 1, lett. m), del D.Lgs. n. 22/1997 (con le
modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 389/1997) ed attualmente
dell’art. 183, lett. m), del recente D.Lgs. 3 aprile 2006, n.
152 (“Norme in materia ambientale”), al fine di
argomentare che non si verterebbe in tema di “gestione di
rifiuti”, bensì sarebbe configurabile soltanto una
legittima operazione preliminare all’attività di
gestione, preparatoria al recupero.
Le norme anzidette definiscono il deposito temporaneo dei rifiuti quale
“raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta
nel luogo in cui gli stessi sono prodotti” nel rispetto di
specifiche condizioni riferite: ai limiti della presenza di determinate
sostanze; alle cadenze temporali di raccolta e di avviamento alle
operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini massimi di durata;
alle modalità del deposito stesso.
Nella specie, però, è stata verificata la
insussistenza di dette condizioni.
3. L’art. 2, lett. bb), del D.Lgs. n. 152/1999, definisce
“scarico” “qualsiasi immissione diretta
tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque
convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in
rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche
sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, alla stregua dalla
nozione anzidetta, deve ritenersi rientrante in tema di tutela delle
acque lo scarico di acque reflue liquide, semiliquide o comunque
convogliabili, dirette in corpi idrici recettori specificamente
individuati.
Le violazioni in materia di scarico trovano applicazione soltanto se il
recapito dei reflui nel corpo ricettore sia
“diretto”; se presenta, invece, momenti di
soluzione di continuità (si pensi, ad esempio, al caso dello
scarico delle acque reflue in vasche ed al successivo trasporto in
altro luogo tramite autobotte), si è in presenza di un
rifiuto-liquido, il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato
(vedi, da ultimo, Cass., Sez. III, 17 giugno 2005, n. 22864).
Va ribadito però, al riguardo, l’orientamento,
già espresso da questa Corte, secondo il quale la
definizione di “scarico” contenuta nel D.Lgs. n.
152/1999 non prevede, come mezzo essenziale per l’esecuzione
dello stesso, la presenza di tubazioni o apparecchiature speciali
costituenti vera e propria “condotta”, dovendo
ritenersi che integra scarico in senso giuridico qualsiasi sistema di
deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza (senza soluzione
di continuità, in modo artificiale o meno) i reflui dal
luogo di produzione al corpo recettore e, nella fattispecie in esame,
è stato riscontrato appunto un collegamento non interrotto e
non occasionale tra fonte di riversamento e corpo ricettore.
Né tale interpretazione è contraddetta dal
recente D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (“Norme in materia
ambientale”) ove la definizione dì
“scarico” è fornita dall’art.
74, lett. ff), come “qualsiasi immissione di acque reflue in
acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a
preventivo trattamento di depurazione”.
E’ stato eliminato, infatti, nel nuovo testo normativo, il
precedente riferimento alla “immissione diretta mediante
condotta”.
4. La violazione in materia di acque oggetto del presente procedimento
è stata accertata il 6 maggio 2002 e l’art. 62,
11° comma, del D.Lgs. n. 152/1999 consentiva, sia nella
formulazione originaria sia dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 18
agosto 2000, n. 258:
- ai titolari degli “scarichi esistenti” (ed ai
titolari di scarichi per i quali l’obbligo di autorizzazione
preventiva era di nuova introduzione) di adeguarsi alla nuova
disciplina entro tre anni (ossia entro il 13 giugno 2002) dalla data di
entrata in vigore dello stesso D.Lgs. (13 giugno 1999);
- ai titolari degli “scarichi esisterti ed
autorizzati” di procedere alla richiesta di autorizzazione in
conformità alla nuova normativa allo scadere
dell’autorizzazione e comunque non oltre quattro anni dal 13
giugno 1999 (13 giugno 2003).
Un orientamento giurisprudenziale di questa Corte Suprema
affermò che dovevano considerarsi “scarichi
nuovi” non soltanto quelli realizzati in senso fisico dopo
l’entrata in vigore della nuova legge ma anche quelli
“mai autorizzati anche se preesistenti”, mentre
dovevano considerarsi “esistenti” solo quegli
scarichi che, alla data del 13 giugno l999 fossero in regola con la
disciplina autorizzatoria previgente (vedi Cass., Sez. III: 14 giugno
1999, Masiello; 14 giugno 1999, Scrocca; 6 luglio 1999, Saggese; 28
settembre 1999, Di Liddo; 8 novembre 1999, Porcu; 16 febbraio 2000,
Scaramozza).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato recepito,
quindi, dal legislatore e, con il D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258, la
definizione di “scarico esistente” è
stata inserita tra quelle di cui all’art. 2 del D.Lgs. n.
152/1999, alla lettera cc-bis), ricomprendendo in essa gli scarichi:
- di acque reflue urbane che alla data del 13 giugno 1999 erano in
esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente;
- di impianti di trattamento di acque reflue urbane per i quali alla
stessa data erano già state completate tutte le procedure
relative alle gare di appalto e all’assegnazione lavori;
- di acque reflue domestiche che alla data del 13 giugno 1999 erano in
esercizio e conformi al regime autorizzativo previgente;
- di acque reflue industriali che alla data del 13 giugno 1999 erano in
esercizio e già autorizzati.
Il legislatore, dunque, ha distinto la “esistenza
giuridica” da quella meramente fisica e materiale degli
scarichi e considera “non esistenti” al momento di
entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/1999, anche quelli in esercizio ma
non autorizzati.
Ne consegue che:
- gli scarichi che, alla data del 13 giugno 1999, erano in violazione
di legge sotto il regime della pregressa normativa sono stati
considerati “nuovi” ai fini del D.Lgs. n. 152/1999,
sì da non potere beneficiare di alcun periodo di mora di
adeguamento e con l’obbligo di porsi immediatamente in regola
con il nuovo regime per ciò che concerne sia i livelli
tabellari sia i divieti di scarico sul suolo e sottosuolo;
- ai titolari di scarichi già esistenti fisicamente ma per i
quali l’obbligo di autorizzazione è sorto solo con
il D.Lgs. n. 152/1999 sono stati concessi tre anni di tempo per
ottenerla;
- per gli scarichi già esistenti fisicamente ed autorizzati
(quindi esistenti anche giuridicamente) si poteva aspettare, per
l’adeguamento alla nuova normativa, fino alla scadenza
dell’autorizzazione e, comunque, non oltre quattro anni dalla
data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 152/1999.
Quanto alla vicenda in oggetto, non risulta che lo scarico fosse
già esistente alla data del 13 giugno 1999 ed esso comunque
certamente non era autorizzato.
5. L’art. 10 bis della legge 1 agosto 2003, n. 200 (che ha
convertito il D.L. n. 147/2003 recante “proroga di termini e
disposizioni urgenti ordinamentali), entrata in vigore il 3 agosto
2003, ha previsto, poi, che “i termini di cui
all’art. 62, comma 11, del decreto legislativo 11 maggio
1999, n. 152, relativi agli scarichi esistenti, ancorché non
autorizzati, sono differiti fino ad un anno a decorrere dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente
decreto” (cioè fino al 3 agosto 2004).
Questa previsione non era presente nel testo governativo ma
è stata introdotta dal Parlamento in sede di conversione in
legge del decreto.
Il differimento di termini scaduti che intrinsecamente costituisce una
contraddizione in termini, sembra diventata una prassi nella
più recente produzione legislativa e da essa discendono
immancabilmente dubbi interpretativi, che non mancano di emergere anche
in relazione alla disposizione in esame e con particolare riferimento
all’espressione “ancorché non
autorizzati”. Detta espressione, infatti, sembra non tenere
conto che, dopo l’entrata in vigore del D.Lgs n. 258/2000,
gli scarichi non autorizzati non possono considerarsi
“esistenti”, poiché per tali devono
intendersi solo quelli in esercizio e già autorizzati.
Possono confìgurarsi, allora, due ipotesi alternative,
secondo le quali - rispettivamente - il legislatore:
a) avrebbe inteso introdurre una vera e propria sanatoria per gli
scarichi idrici abusivi - mimetizzandola però in un testo
normativo non specifico attraverso una deroga sostanziale alla
definizione di “scarichi esistenti” di cui alla
lettera cc-bis) dell’art. 2 del D.Lgs. n. 152/1999, sia pure
ai soli fini del differimento dei termini di cui al comma 11
dell’art. 62 - con il conferimento postumo, addirittura ai
titolari di scarichi già abusivi per la legge
“Merli”, di quella possibilità di godere
del regime transitorio di adeguamento che era stata esplicitamente
negata dal D.Lgs n. 258/2000;
b) ovvero, avrebbe differito i termini di adeguamento (oltre che per
gli scarichi esistenti ed autorizzati) soltanto per quegli scarichi in
esercizio al giugno 1999 e non autorizzati in quanto la legge del tempo
non precedeva la loro preventiva autorizzazione.
In relazione alle due ipotesi dianzi enunciate va rilevato che la prima
non appare sorretta da alcuna giustificazione razionale e, in quanto
contraddice palesemente le esigenze di tutela dei valori
dell’ambiente e della salute anche nei profili
costituzionali, risulta non rispondente (quanto meno) al principio di
ragionevolezza.
Deve tenersi presente, allora, il principio generale - più
volte ribadito dalla Consulta - secondo cui, nel caso siano
ipotizzabili più interpretazioni di una legge, si deve
scegliere, se esiste, quella consona ai principi della Costituzione
piuttosto che sollevare, sulla base di una possibile interpretazione
non conforme, la questione di legittimità costituzionale.
Questa Corte si è già espressa, in proposito,
affermando (Cass., Sez. III: 6 aprile 2004, Ardito; 20 gennaio 2004, n.
985, Marziano) che l’inciso “ancorché
non autorizzati” concerne esclusivamente quegli scarichi,
esistenti il 13 giugno 1999, per i quali l’obbligo di
autorizzazione è sorto solo in virtù della nuova
disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 152 del 1999.
Tale conclusione è stata tratta sul rilievi che la stessa
rubrica della disposizione di proroga è riferita
all’adeguamento degli scarichi e che “in tema di
eccezioni ad una regola generale non è possibile fornire
un’interpretazione estensiva, ma occorre preferirne una
restrittiva. Peraltro, in assenza di un’abrogazione espressa
della nozione di scarico esistente di cui all’art. 2, lett.
cc- bis), del D.Lgs. in esame, non è possibile attribuire ad
una disposizione con un contenuto specifico e limitato la
possibilità di introdurre un’abrogazione
implicita, mentre la locuzione su riferita sembra una cattiva sincresi
di una pluralità di situazioni, disciplinate in maniera
uniforme dall’art. 62, 11° e 12° comma,
D.Lgs. citato”.
Questo Collegio condivide le argomentazioni dianzi enunciate, proprio
perché gli scarichi fisicamente già esistenti
alla data del 13 giugno 1999, ma non in regola con
l’autorizzazione prescritta dalla normativa previgente, sono
stati considerati “scarichi nuovi” sì da
essere esclusi da ogni moratoria di cui al comma 11 dell’art.
62. Non possono differirsi, pertanto, termini di tolleranza che per
essi non hanno mai avuto alcuna efficacia.
6. La doglianza riferita all’entità della pena
costituisce censura in fatto, non proponibile come tale in sede di
legittimità.
7. A norma dell’art. 616 c.p.p., al rigetto del ricorso segue
la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Rifiuti. Differenza tra rifiuto liquido e scarico
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