Cass. Sez. III n. 33882 del 9
ottobre 2006 (c.c. 15 giu. 2006)
Pres. Lupo Est. Fiale Ric. P.M.
in proc. Barbati
Rifiuti. Materiali provenienti da
demolizione.
I materiali provenienti da
demolizioni, alla luce della nozione di rifiuto elaborata dalla
giurisprudenza
comunitaria, devono considerarsi rifiuti a tutti gli effetti
né può applicarsi
agli stessi, se necessitano di operazioni di recupero quali la cernita
e la
selezione, la disciplina prevista dall’articolo 181 D.Lv. 152
del 2006 in tema
di “materie prime secondarie”
Fatto e diritto
Il G.I.P. del Tribunale di Modena, con ordinanza del 20 aprile 2005,
disponeva il sequestro preventivo di due aree - una relativa al
cantiere di demolizione presso l’ex sala cinematografica di
Prignano sulla Secchia e l’altra in località Volta
di Saltino, sempre nel Comune di Prignano, ai margini della strada
provinciale Val Rossenna - evidenziando che, in assenza delle
prescritte autorizzazioni, il materiale ricavato dalla demolizione,
considerato rientrante nella nozione di “rifiuto”
posta dal D.Lgs. n. 22/1997, veniva trasportato nella seconda area ed
ivi ammassato in cumuli.
La misura di cautela reale veniva adottata in relazione al reato di cui
all’art. 51, 1° comma, del D.Lgs. n. 22/1997
[attività non autorizzata di gestione di rifiuti],
ipotizzato nei confronti di Barbati Mario (proprietario
dell’area di conferimento dei materiali derivati dalla
demolizione), Barchi Luigi (legale rappresentante della
società appaltatrice dei lavori di demolizione) e Paganelli
Nino (legale rappresentante della società proprietaria
dell’immobile in demolizione).
Il Tribunale di Modena, con ordinanza del 24 maggio 2005, accoglieva
l’istanza di riesame proposta nell’interesse degli
indagati Barbati e Barchi e revocava il sequestro.
Rilevava il Tribunale che nella fattispecie in oggetto - con
riferimento all’art. 14 del DL n. 138/2002, convertito nella
legge n. 178/2002 e tenuto conto delle previsioni contenute nella
legge-delega per l’ambiente n. 308/2004 - ai materiali
derivanti dalla demolizione, “in considerazione della
destinazione che le parti interessate hanno previsto per tali
beni”, non poteva riconoscersi la qualificazione di
“rifiuto “.
Trattavasi, invero:
- nella maggior parte, “di sassi e/o pietre che vengono,
senza alcun trattamento preventivo, riutilizzate per la costruzione di
altri immobili nelle zone di montagna. Tali pietre, peraltro, siccome
ricercate dalle imprese edili in quanto di non facile reperimento,
hanno un valore di mercato significativo, in quanto conferiscono pregio
estetico alle costruzioni di montagna e per tale motivo, negli accordi
tra proprietario dell’immobile ed appaltatore, era stato
previsto l’acquisto di tali beni alla cifra forfetaria di
euro 16.000”. Le pietre in questione, inoltre, dovevano
ritenersi “momentaneamente stoccate, per ragioni logistiche
in area appositamente individuata”;
- in una parte marginale, di materiali ferrosi o di plastica, per i
quali “la già predisposta attività di
smaltimento (come da documentazione prodotta agli atti) elimina in
radice il pericolo di aggravamento o protrazione delle conseguenze
dannose dello stoccaggio”.
Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Modena, il quale sotto il profilo
della violazione di legge - ha eccepito che:
- il giudice del riesame ha omesso di valutare che: a) nel cantiere di
demolizione era in atto un’attività di grossolana
separazione dei vari rifiuti, distinti per categorie (pietre, plastica,
materiali ferrosi etc.); b) trattasi di “rifiuti
speciali” che venivano altresì trasportati dal
luogo di produzione a quello di stoccaggio; c) nessuna autorizzazione a
tali operazioni di recupero, trasporto e deposito era in possesso degli
indagati;
- ai rifiuti di demolizione di un edificio non è applicabile
l’art. 14 del DL n. 138/2002, trattandosi di una congerie di
materiali di varia natura (pietre, macerie, plastica, acciaio,
isolanti, ferro etc.) che necessitano, per ricavare materiali da
riutilizzare, di un preventivo trattamento con connesso rischio per
l’ambiente (cernita, separazione, rimozione di sostanze
contaminanti, riciclo/recupero di metalli e composti metallici,
riciclo/recupero di altre sostanze inorganiche, smaltimento etc.). La
previsione di un prezzo di vendita per i materiali riutilizzabili non
fa venire meno la natura dei rifiuti da demolizioni oggetto di
smaltimento/recupero/trasporto;
- Il Barchi aveva presentato (in data 27 aprile 2005 e 23 maggio 2005)
un “piano di recupero dei rifiuti” presenti
nell’area di accumulo, nel quale veniva previsto che:
- per taluni rifiuti (ferro e acciaio, plastica e materiali isolanti il
trasporto e lo smaltimento sarebbero stati effettuati da apposita
società;
- le macerie presenti sul terreno sarebbero state sottoposte a
vagliatura manuale per il recupero dei sassi e dei mattoni vecchi da
riutilizzare in opere edilizie;
- le macerie restanti sarebbero state utilizzate presso altri cantieri
di proprietà della società rappresentata dallo
stesso Barchi.
Tutto ciò confermava la circostanza che i materiali pietrosi
riutilizzabili costituivano il prodotto di
un’attività di smaltimento e recupero di cui agli
allegati B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
- il piano di recupero dianzi citato, in quanto presentato
successivamente all’applicazione della misura reale di
cautela, non incide sulla legittimità genetica ed originaria
del provvedimento di sequestro, ma avrebbe potuto giustificare soltanto
una richiesta di revoca ex art. 321, 3° comma, c.p.p.
Il ricorso del PM è fondato e merita di essere accolto.
1. Determinazione ed evoluzione della nozione di
“rifiuto”
1.1 Le caratteristiche principali della nozione di
“rifiuto”, in ambito europeo, sono individuate
dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, n..
75/442/CEE (sui rifiuti in generale), modificata dalla direttiva 18
marzo 1991, n. 91/156/CEE [sostituita, nelle more della redazione della
presente sentenza, dalla direttiva del Parlamento e del Consiglio
dell’Unione Europea 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE] e
dall’art. 1 della direttiva del Consiglio 20 marzo 1978, n.
78/319/CEE (sui rifiuti tossici e pericolosi), modificata dalla
direttiva 12 dicembre 1991, n. 91/689/CEE.
Secondo tali direttive “per rifiuto si intende qualsiasi
sostanza od oggetto [che attualmente rientri nelle categorie riportate
nell’Allegato I alla direttiva n. 2006/12/CE] di cui il
detentore si disfi o abbia l‘intenzione o l’obbligo
di disfarsi”.
La nozione medesima è stata altresì recepita
dall’art. 2, lett. a), del Regolamento del Consiglio CEE 1
febbraio 1993, n. 259/93, relativo ai trasporti transfrontalieri di
rifiuti (immediatamente e direttamente applicabile in Italia secondo
Corte Cost. n. 170/1984).
1.2 Nel nostro Paese le caratteristiche che, in ambito comunitario,
individuano la nozione di “rifiuto”, sono state
riprodotte nell’art. 6, comma 1 - lett. a), del D.Lgs. n.
22/1997 [ed attualmente nell’art. 183, lett. a), del D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152, pubblicato nella G.U. n. 96/L del 14 aprile 2006]
secondo cui “è rifiuto qualsiasi sostanza od
oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’Allegato A
(attualmente alla parte IV del D.Lgs. n. 152/2006) e di cui il
detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di
disfarsi”.
Tale normativa - attraverso il rinvio all’Allegato A), che
riproduce l’Allegato I della direttiva n. 75/442/CEE e della
direttiva n. 2006/12/CE - riporta l’elenco delle 16 categorie
di rifiuti individuate in sede comunitaria.
Il primo elemento essenziale della nozione di
“rifiuto”, nel nostro ordinamento, è
costituito, pertanto, dall’appartenenza ad una delle
categorie di materiali e sostanze individuate nel citato Allegato A),
ma l’elenco delle 16 categorie dì rifiuti in esso
contenuto non è esaustivo ed ha un valore puramente
indicativo, poiché lo stesso Allegato “A)
comprende due voci residuali capaci di includere qualsiasi sostanza od
oggetto, da qualunque attività prodotti:
- la voce Q1, che riguarda “i residui di produzione o di
consumo in appresso non specificati”;
- la voce Q16, che riguarda “qualunque sostanza, materia o
prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate”.
E’ necessario tenere essenzialmente conto, pertanto, delle
ulteriori condizioni imposte dalla legge, e verificare cioè,
anche e soprattutto, che il detentore della sostanza o del materiale:
- se ne disfi;
- o abbia deciso di disfarsene;
- o abbia l’obbligo di disfarsene.
1.3 Le tre diverse previsioni del concetto di
“disfarsi” avevano trovato
“interpretazione autentica” nell’art. 14
del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, pubblicato in pari data nella Gazzetta
Ufficiale e convertito nella legge 8 agosto 2002, n. 178.
Secondo quella interpretazione:
a) “si disfi” doveva intendersi: qualsiasi
comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una
sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad
attività di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati
B) e C) del D.Lgs. n. 22/1997;
b) “abbia deciso di disfarsi” doveva intendersi: la
volontà di destinare sostanze, materiali o beni ad
operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B) e C)
del D.Lgs. n. 22/1997;
c) “abbia l‘obbligo di disfarsi” doveva
intendersi: l’obbligo di avviare un materiale, una sostanza o
un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una
disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche
autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della
sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi
nell‘elenco dei rifiuti pericolosi di cui
all’Allegato D) del D.Lgs. n. 22/1997 (che riproduce la lista
di rifiuti che, a norma della direttiva n. 91/689/CEE, sono
classificati come pericolosi).
Le fattispecie di cui alle lettere b) e c) [cioè le ipotesi
in cui il detentore della sostanza o del materiale “abbia
deciso” ovvero “abbia l’obbligo di
disfarsi” e non anche l’ipotesi in cui esso
“si disfi”} non ricorrevano - per beni o sostanze e
materiali residuali di produzione o di consumo - ove sussistesse una
delle seguenti condizioni:
1) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e
oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo
produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di
trattamento e senza recare pregiudizio all’ambiente;
2) gli stessi potessero essere e fossero effettivamente e
oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo
produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo,
senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle
individuate nell’Allegato C) del D.Lgs. n. 22/1997.
Era stata così introdotta una doppia deroga alla nozione
generale di “rifiuto”, in relazione alla quale la
Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione (ex art.
169/226 del Trattato) nei confronti del Governo italiano, per mancato
rispetto della direttiva n. 75/442/CEE come modificata dalla direttiva
n. 91/156/CEE, conclusasi con un invito di conformazione rivolto al
nostro Paese, essendo stata ravvisata “un‘indebita
limitazione del campo di applicazione della nozione di
rifiuto”, nozione che “non può essere
commisurata allo specifico tipo di operazione di recupero o smaltimento
che viene effettuata”.
1.4 La Corte Europea di giustizia - con la sentenza 11 novembre 2004,
Niselli - ha affermato che:
a) “La direttiva 75/442 non suggerisce alcun criterio
determinante per individuare la volontà del detentore di
disfarsi di una determinata sostanza o di un determinato materiale. In
mancanza di disposizioni comunitarie, gli Stati membri sono liberi di
scegliere le modalità di prova dei diversi elementi definiti
nelle direttive da essi trasposte, purché ciò non
pregiudichi l’efficacia del diritto comunitario. Dal fatto
che su una sostanza venga eseguita un’operazione menzionata
negli allegati II a o II b della direttiva 75/442 non discende
necessariamente che l’operazione consista nel disfarsene e
che, quindi, tale sostanza vada considerata rifiuto”. Ne
consegue che” la definizione di rifiuto contenuta
nell’art. 1, lett. a) - 1° comma, della direttiva
75/442, non può essere interpretata nel senso che essa
ricomprenderebbe tassativamente le sostanze o i materiali destinati o
soggetti alle operazioni di smaltimento o di recupero menzionate negli
allegati II a e II b di detta direttiva, oppure in elenchi equivalenti,
o il cui detentore abbia l’intenzione o l’obbligo
di destinarli a siffatte operazioni”. La qual cosa equivale
ad escludere che la nozione di rifiuto possa dipendere, in definitiva,
da un’elencazione chiusa di comportamenti e sostanze.
b) “La definizione di rifiuto, contenuta nell’art.
1, lett. a) - 1° comma, della direttiva 75/442, non deve essere
interpretata nel senso che essa escluderebbe l’insieme dei
residui di produzione o di consumo che possono essere o sono
riutilizzati in un ciclo di produzione o di consumo, vuoi in assenza di
trattamento preventivo e senza arrecare danni all’ambiente,
vuoi previo trattamento ma senza che occorra tuttavia
un’operazione di recupero ai sensi dell’allegato II
b di tale direttiva”.
E’ ammissibile e non contrasta con le finalità
della direttiva 75/442 “un’analisi secondo la quale
un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di
fabbricazione o di estrazione che non è principalmente
destinato a produrlo può costituire non un residuo,
bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha
intenzione di disfarsi ai sensi dell’art. 1, lett. a)
– 1° comma, della direttiva 75/442, ma che essa
intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli,
in un processo successivo, senza operare trasformazioni
preliminari”.
Ne è derivata la affermazione della illegittimità
comunitaria dell’art. 14 del D.L. n. 138/2002,
perché i materiali che non sono riutilizzati in maniera
certa e richiedono una previa trasformazione sono semplici sostanze di
cui i detentori si sono voluti disfare, che “devono tuttavia
conservare la qualifica di rifiuti finché non siano
effettivamente riciclati [...], finché cioè non
costituiscano i prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono
destinati. Nelle fasi precedenti essi non possono ancora, infatti,
essere considerati riciclati, poiché il detto procedimento
di trasformazione non è terminato. Viceversa, fatto salvo il
caso in cui i prodotti ottenuti siano a loro volta abbandonati, il
momento in cui i materiali in questione perdono la qualifica di rifiuto
non può essere fissato ad uno stadio industriale o
commerciale successivo alla loro trasformazione [...],
poiché, a partire da tale momento, essi non possono
più essere distinti da altri prodotti scaturiti da materie
prime primarie”.
1.5 La sentenza interpretativa della Corte di Giustizia ha costituito
il presupposto di una questione di legittimità
costituzionale dell’art. 14 del D.L. n. 138/2002 (convertito
nella legge n. 178/2002), per violazione degli artt. 11 e 117 Cost.,
sollevata da questa Corte Suprema con ordinanza n. 1414 del 16 gennaio
2006, Rubino (ud. pubbl. del 14 dicembre 2005).
La questione dovrà essere riesaminata, comunque, alla
stregua delle nuove previsioni contenute, al riguardo, nel D.Lgs. 3
aprile 2006, n. 152, pubblicato nella G.U. n. 96/L del 14 aprile 2006,
attuativo della delega di cui alla legge n. 308/2004, che ha abrogato
l’art. 14 del D.L. n. 138/2002 (art. 264, 1° comma,
lett. 1).
1.6 L’art. 183, 1° comma - lett. a), del D.Lgs n.
152/2006 definisce rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che
rientra nelle categorie riportate nell’allegato A della parte
quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia
deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Accanto a tale nozione, però, lo stesso decreto legislativo
pone anche quelle di “materia prima secondaria”
(art. 183, 1° comma, lett. q, in relazione all’art.
181) e di “sottoprodotto” (art. 183, 1°
comma, lett. n), escludendo così molti beni e sostanze dal
novero dei rifiuti.
2. La nozione di “rifiuto” ed i materiali
insistenti nelle aree sequestrate.
Ai sensi dell’art. 7, 3° comma - lett. b), del D.Lgs.
n. 22/1997 e dell’art. 184, 30 comma – lett. b),
del D.Lgs. n. 152/2006 sono rifiuti speciali “i rifiuti
derivanti dalle attività di demolizione, costruzione
...“
Dei residui delle attività di demolizioni edili e del loro
reimpiego si è occupata questa Sezione con la sentenza n.
46680 dell’1 dicembre 2004, che, in relazione agli stessi, ha
ritenuto applicabile l’art. 14 del D.L. n. 138/2002, a
condizione che risulti certa: a) l’individuazione del
produttore e/o detentore dei materiali, b) la provenienza degli stessi,
c) la sede ove sono destinati, d) il loro riutilizzo in un ulteriore
ciclo produttivo.
Nella fattispecie in esame, però, è
l’oggettività del fatto a conferire agli specifici
materiali derivanti da demolizione la qualificazione di
“rifiuti”. Ed infatti:
- nelle aree assoggettate a sequestro erano depositati anche materiali
che non potevano essere riutilizzati in alcun ciclo produttivo.
- le pietre ed i mattoni riutilizzabili in attività
costruttive dovevano subire una preliminare attività di
separazione e di cernita anteriormente alla quale essi conservano la
qualifica di rifiuti.
La situazione è ancora più chiara alla stregua
della normativa introdotta dal D.Lgs. n. 152/2006, in quanto:
- il materiale complessivamente ricavato nella fattispecie non
può qualificarsi - allo stato - “materia prima
secondaria”, ai sensi dell’art 181, commi 6 e 13,
del D.Lgs. n. 152/2006, anche in mancanza del decreto ministeriale di
attuazione previsto dal 6° comma;
- a norma dell’art. 181, comma 12, del D.Lgs. n. 152/2006,
“la disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica
fino al completamento delle operazioni di recupero, che si realizza
quando non sono necessari ulteriori trattamenti perché le
sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in un
processo industriale o commercializzati come materia prima secondaria,
combustibile o come prodotto da collocare, a condizione che il
detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o non abbia
l’obbligo, di disfarsene”;
- tra le operazioni di “recupero”, ex art. 183,
lett. h), del D.Lgs. n. 152/2006, sono espressamente “incluse
la cernita o la selezione”.
Né allo stato sembrano sussistere elementi che rendano
applicabile, ad evidenza, il disposto dell’art. 6, comma 1,
lett. m), del D.Lgs. n. 22/1997 (con le modifiche introdotte dal D.Lgs.
n. 389/1997) ed attualmente dell’art. 183, lett. m), del
D.Lgs. n. 152/2006, al fine di argomentare che non si verterebbe in
tema di “gestione di rifiuti”, bensì
sarebbe configurabile soltanto una legittima operazione preliminare
all‘attività di gestione, preparatoria al
recupero. Tali norme definiscono il deposito temporaneo dei rifiuti
quale “raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della
raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti” nel
rispetto di specifiche condizioni riferite: ai limiti della presenza di
determinate sostanze; alle cadenze temporali di raccolta e di
avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini
massimi di durata; alle modalità del deposito stesso.
Nella specie la verifica della sussistenza di dette condizioni non
risulta effettuata.
3. I limiti dell’accertamento incidentale demandato al
Tribunale del riesame.
Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema,
nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto il riesame di
provvedimenti di sequestro:
- la verifica delle condizioni di legittimità della misura
da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata
decisione della questione di merito concernente la
responsabilità dell’indagato in ordine al reato o
ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di
compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale
ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria ed attenta della
antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un., 7
novembre 1992, ric. Midolini);
- “l’accertamento della sussistenza del fumus
commissi delicti va compiuto sotto il profilo della
congruità degli elementi rappresentati, che non possono
essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con
le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così
come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere
l’ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque,
non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere
l’indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto
le contestazioni difensive sull‘esistenza della fattispecie
dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto
l’integralità dei presupposti che legittimano il
sequestro” (Cass., Sez. Un., 29 gennaio 1997, n. 23, ne. P.M.
in proc. Bassi e altri).
4. Per tutte le considerazioni svolte, deve disporsi
l’annullamento dell’ordinanza impugnata ed il
rinvio al Tribunale di Modena per un nuovo esame della vicenda alla
stregua dei principi di diritto dianzi enunciati, dovendosi in
particolare tenere conto che:
- i materiali risultanti dall’attività demolitoria
in oggetto e depositati nelle due aree assoggettate a sequestro
costituiscono “rifiuti speciali” ai sensi
dell’art. 7, 3° comma - lett. b), del D.Lgs. n.
22/1997 e dell’art. 184, 3° comma - lett. b), del
D.Lgs. n. 152/2006. Una parte dei materiali medesimi, nella specie, non
poteva sicuramente essere riutilizzata in alcun ciclo produttivo;
- quanto alle pietre ed ai mattoni riutilizzabili in
attività costruttive, va verificato quale intervento
preventivo di trattamento dovevano eventualmente subire detti materiali
al fine della loro effettiva riutilizzazione, con connessa valutazione
della possibilità di incidenze pregiudizievoli
all‘ambiente, tenuto conto comunque che tra le operazioni di
“recupero”, ex art. 183, lett. h), del D.Lgs. n.
152/2006, sono espressamente “incluse la cernita o la
selezione”;
- deve altresì riscontrarsi la eventuale sussistenza delle
condizioni che rendano applicabile ad evidenza, allo stato, il disposto
dell’art. 6, comma 1, lett. m), del D.Lgs. n. 22/1997 (con le
modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 389/1997) come trasfuso
nell’art. 183, lett. m), del D.Lgs. n. 152/2006.
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