IL NUOVO DELITTO DI “ABUSO PAESAGGISTICO” ALL’ESAME DELLA CASSAZIONE
di Luca RAMACCI (pubb. su Rivista Penale 2006)
La sentenza commentata è visibile qui
Con la decisione in rassegna la Corte di cassazione affronta, per la prima
volta, alcune questioni relative alla corretta applicazione dell’articolo 181
D.Lv. 422004 (c.d. Codice Urbani) dopo le modifiche apportatevi con la Legge 15
dicembre 2004 n. 308 avente ad oggetto «Delega al Governo per il riordino,
il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e
misure di diretta applicazione» e meglio conosciuta come “legge delega
ambientale”.
Essa rappresenta, nel confuso panorama normativo
ambientale, uno dei più eclatanti esempi della stravaganza del nostro
legislatore[1].
Approvata con difficoltà e dopo tre voti di fiducia, questa legge, che nelle
premesse avrebbe dovuto occuparsi della riscrittura, con modalità non del tutto
chiare, delle principali disposizioni in campo ambientale, prevede disposizioni
di immediata attuazione riguardanti casi particolari, dalla riproposizione delle
disposizioni in tema di rottami ferrosi appena bocciate dalla Corte di
giustizia, alla “lolla di riso” e la “polvere di allumina”, fino a
questioni prettamente locali quali la demolizione del complesso abusivo di Punta
Perotti a Bari.
Le perplessità che avevano accompagnato la
promulgazione della legge sono poi aumentate nel corso dei mesi, quando si è
appreso che i “saggi” nominati dal ministro avevano redatto, in brevissimo
tempo, i decreti attuativi votandoli per posta elettronica nel più rigoroso
segreto sui lavori della commissione dei quali,
quanto pare, nulla è dato sapere.
Tra le norme di immediata attuazione, la legge
delega conteneva anche alcune modifiche al neonato “Codice Urbani” che aveva
sostituito, dopo breve vita (e con alcuni marchiani errori subito evidenziati
dalla dottrina), il D.Lv. 49099[2].
Tali modifiche, come è noto, non hanno posto rimedio ai problemi
precedentemente riscontrati ma hanno profondamente modificato l’articolo 181[3].
La disposizione è stata infatti arricchita
attraverso l’introduzione di più commi che ne rendono però meno agevole la
lettura[4].
Il primo comma è rimasto invariato rispetto
all’originaria formulazione, riproducendo lo stesso testo già presente nel
decreto del 1999 che, esplicitamente, richiamava l’applicabilità della
sanzione anche ai lavori in difformità dall’autorizzazione paesaggistica,
senza distinzione alcuna tra difformità parziale o totale.
I commi successivi, come si è detto, hanno creato nuove ipotesi di reato determinando un sistema complesso di violazioni che possono qualificarsi schematicamente[5] come:
1.
abusi minori che, in presenza di una valutazione di compatibilità
paesaggistica secondo la (poco chiara) procedura descritta nel comma 1-quater;
comportano l’applicazione delle sole sanzioni amministrative ripristinatorie o
pecuniarie con esclusione di quelle penali. In questa categoria rientrano gli
interventi consistenti in lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
quelli eseguiti mediante l'impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 T.U. edilizia[6].
2.
abusi ordinari quelli, cioè, già previsti dall’articolo 181
nella sua originaria formulazione e sanzionati mediante il rinvio quoad
poenam all’articolo 44 della legge urbanistica (D.p.r. 380 1)
3.
abusi gravi aventi le caratteristiche descritte nel comma 1-bis
e configuranti un delitto punito con la reclusione.
Gli interventi del legislatore pur non
pregiudicando il ricorso agli schemi interpretativi suggeriti, nell’arco ormai
di un ventennio, dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di tutela del
paesaggio (con riferimento, ad esempio, alla natura del reato, all’offensività
della condotta e ad altri aspetti di carattere generale) che potranno comunque
trovare applicazione, pone alcune questioni che dovranno senz’altro trovare
adeguata soluzione come è avvenuto con la decisione in rassegna.
Tra queste, spicca senz’altro quella relativa
all’obbligo di ripristino, in ordine al quale dovrà tenersi conto del fatto
che l’articolo 146, il quale vieta espressamente la sanatoria degli interventi
abusivi, non ha subito alcuna deroga ad opera della “legge delega
ambientale” che, al contrario, prevedendo per gli abusi “minori”, anche in
presenza di valutazione postuma di compatibilità, l’applicazione delle
sanzioni ripristinatorie, sembra voler confermare che debba ora escludersi la
possibilità, considerata in passato dalla giurisprudenza, che la
“sanatoria” impedisca comunque l’applicazione dell’ordine di ripristino
pur non spiegando effetti estintivi sul reato[7].
Diversamente argomentando, per gli abusi minori dovrebbero applicarsi le
misure ripristinatorie anche in presenza di valutazione postuma
di compatibilità mentre ciò non avverrebbe con gli abusi più gravi.
Inoltre, la previsione del comma 1quinquies
sulla estinzione del reato contravvenzionale (non il delitto, stante
l’espresso richiamo al solo comma primo) rafforza l’ipotesi che
il legislatore abbia voluto escludere qualsiasi forma di sanatoria degli abusi
paesaggistici[8].
Altri problemi riguardano, invece, la concreta
applicazione del comma 1-bis.
Si tratta, infatti, di una vera e propria rarità
in campo ambientale, dove il ricorso al reato contravvenzionale è sempre
privilegiato e l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice
penale, proposta da almeno tre legislature, viene inutilmente attesa, anche se
l’introduzione dell’articolo 53bis nel D.Lv. 2297 in tema di rifiuti e le
modifiche apportate al codice penale con le disposizioni in tema di animali
rappresentano un timido segnale di una possibile inversione di tendenza.
La reclusione da uno a quattro anni, prevista dal
citato comma 1bis, è applicabile in
tutti i casi di interventi non autorizzati stante l’espresso rinvio al comma
primo, con la conseguenza che, sotto questo profilo, potranno essere recuperati
i contributi di dottrina e giurisprudenza formatisi nel corso dell’ampio
dibattito sviluppatosi dalla promulgazione della “Legge Galasso” in poi
Ciò che invece distingue il delitto dalla contravvenzione prevista nel comma precedente è la caratteristica dell’area dove viene eseguito l’intervento e la sua tipologia.
Infatti, per quanto riguarda i beni tutelati in
base a specifico provvedimento amministrativo, la lettera a) del comma 1bis
sanziona ogni intervento non autorizzato o in difformità mentre, per i lavori
eseguiti sulle aree o immobili tutelati in base alla legge, si richiede
l’ulteriore requisito dell’aumento della volumetria preesistente ovvero
della creazione di nuovi volumi oltre i limiti indicati, con la conseguenza che,
in difetto, si rientra nell’ipotesi contravvenzionale di cui al primo comma.
Il legislatore ha inteso dunque assicurare la
massima tutela alle aree vincolate in base a specifico provvedimento anche se,
nella pratica, potrà verificarsi che un intervento minimo eseguito in tali zone
senza creazione di nuovi volumi sarà sanzionato con la reclusione, mentre la
realizzazione di un edificio di 900 metri cubi in area vincolata in base alla
legge continuerà a configurare l’ipotesi contravvenzionale prevista dal comma
primo, con tutto quel che ne consegue.
Trattandosi di delitto, inoltre, l’elemento
soggettivo richiesto è il dolo, evidentemente generico, la sussistenza del
quale dovrà tuttavia essere dimostrata mentre, con esclusivo riferimento alle
ipotesi relative ad interventi in zona sottoposta a vincolo ex lege,
l’accertamento del reato richiederà un impegno maggiore a causa
dell’inevitabile verifica della cubatura.
Altri problemi interpretativi sorgono con
riferimento al comma 1bis lettera a) e vengono, almeno in parte, risolti dalla
sentenza in rassegna la quale prende peraltro in considerazione il primo caso
noto di applicazione di misura cautelare personale per l’illecito
paesaggistico, riconoscendo implicitamente la correttezza delle valutazioni
espresse dal Tribunale in sede di riesame circa la sussistenza dei presupposti
per l’applicazione della misura.
Viene tuttavia ipotizzata dal ricorrente la
violazione di legge sul presupposto che il provvedimento di vincolo rilevante
per la sussistenza del delitto di cui al comma 1bis lettera a) sarebbe soltanto
quello adottato all’esito della complessa procedura fissata dagli articoli 136
e ss. D.Lv. 422004.
Tale soluzione interpretativa, riconosciuta come
infondata dalla cassazione, avrebbe di fatto fortemente ridimensionato la
portata della disposizione in esame, assicurando peraltro minore tutela alle
aree sulle quali il vincolo è stato imposto prima dell’entrata in vigore del
D.Lv. 422004.
La Corte ha invece riconosciuto l’identità di
contenuti tra le disposizioni attualmente in vigore, quelle contenute nel D.Lv.
49099 e, precedentemente, nella legge 149739 ribadendo un concetto già
espresso sulla sostanziale continuità tra le varie disposizioni succedutesi nel
tempo in materia di tutela del paesaggio[9]
e riconoscendo, quindi, l’applicabilità della sanzione anche agli interventi
su aree vincolate con provvedimento emesso antecedentemente all’entrata in
vigore del D.Lv. 422004.
Altrettanto rilevante, sebbene ricavabile dalla
semplice lettura della norma, è la precisazione relativa agli obblighi di
notifica che sgombera il campo da ogni prevedibile rilievo in tal senso
ricordando che tale adempimento è richiesto dall’articolo 136 solo per i
vincoli relativi ai beni di cui alla lettere a) e b), mentre per quelli
contemplati dalle lettere c) e d) la pubblicità è assicurata dalla
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e nel Bollettino Ufficiale della Regione ed
escludendo ogni profilo di rilevanza costituzionale circa la diversa disciplina
della pubblicità del vincolo.
Resta da aggiungere, per concludere, che altri
possibili dubbi interpretativi relativi alla norma in esame potranno sollevarsi
nel considerare il termine entro il quale il vincolo deve essere imposto.
Il comma 1bis lettera a) indica infatti che il
provvedimento di vincolo deve essere emanato” in epoca antecedente alla
realizzazione dei lavori”. Il tenore letterale della disposizione, con il riferimento alla
“realizzazione” dei lavori, sembra riguardare un intervento ultimato in ogni
sua parte con la conseguenza che potrebbe ritenersi configurato il delitto
laddove il provvedimento di vincolo sia adottato a lavori iniziati ma non ancora
conclusi.
Luca RAMACCI
[1] Mi permetto di rinviare, per un commento generale redatto subito dopo la promulgazione, a RAMACCI “Solo una riscrittura equilibrata delle norme può assicurare un bilanciamento degli interessi” Guida al Diritto n.4 /2005 p.47; “Atti di programmazione: consultazione allargata” ibid. pag. 51
[3] Introducendo anche il c.d. minicondono paesaggistico che, per la confusa formulazione delle disposizioni che lo riguardano, ha trovato, come era prevedibile, scarsa o nulla attuazione. Altra novità di rilievo è l’inserimento di un comma 3bis all’articolo 167 che disciplina la procedura amministrativa di rimessione in pristino
“1. Chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di
essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici e' punito con
le pene previste dall'art. 20 della legge 28 febbraio
1985, n. 47.
1-bis. La pena e' della reclusione da uno a
quattro anni qualora i lavori di cui al comma 1:
a) ricadano su immobili od aree che, ai
sensi dell'art. 136, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati
dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato
in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;
b) ricadano su immobili od aree tutelati
per legge ai sensi dell'art. 142 ed abbiano comportato un aumento dei
manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione
originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a
settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.
1-ter. Ferma restando l'applicazione delle
sanzioni amministrative ripristinatorie o pecuniarie di cui all'art. 167,
qualora l'autorità amministrativa competente accerti la compatibilità
paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 1-quater la disposizione
di cui al comma 1 non si applica:
a) per i lavori, realizzati in assenza o in
difformità dell'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità
dell'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori configurabili quali
interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3
del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.
1-quater. Il proprietario, possessore o
detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli
interventi di cui al comma 1-ter presenta apposita domanda all'autorità
preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della
compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità
competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di
centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza, da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni.
1-quinquies. La rimessione in pristino
delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del
trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità
amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, estingue il
reato, di cui al comma 1.
2. Con la sentenza di condanna viene ordinata la rimessione in pristino
dello stato dei luoghi a spese del condannato. Copia della sentenza e'
trasmessa alla regione ed al comune nel cui territorio e' stata commessa la
violazione”.
[5] Riporto uno schema contenuto in RAMACCI “Manuale di diritto penale dell’ambiente”, Padova 2005
[6] La Cassazione si è già pronunciata per l’applicabilità della disposizione anche ai fatti pregressi ai sensi dell'articolo 2, comma secondo C.P. (Sez. III n. 18205 del 1752005, Stubing)
[7]Si veda Cass. Sez. III 15111995, Ottelli in questa riv. 41996 pag. 478 con nota di PAGLIARA; Cass. Sez. III 1721996, Legambiente in proc. Lodigiani ed altri. Successivamente il principio veniva ribadito in Cass. Sez. III 2761997 cit., Cass. Sez. III n. 32146 del 2692002, Gandolfi in questa riv. 112002 pag. 988 e in Rivistambiente n. 62003 pag. 708; Sez. III 28112002 P.G. in proc. Nucci in questa riv. 12004 pag. 65.; Cass. Sez. III n. 39744 del 26112002, Debertol in questa riv. n. 7-82003 pag. 616. Altre decisioni, più datate, erano invece di contenuto difforme.
[8] Anche se tale rigore sembra ispirato, piuttosto che da sensibilità ambientale, scarsamente presente nella “legge delega”, come una sorta di rimedio agli effetti – fortunatamente non realizzatisi per la confusione delle disposizioni – del minicondono introdotto in tutta fretta e visibilmente in contrasto con le disposizioni in tema di condono edilizio precedentemente emanate almeno secondo la lettura suggeritane da un monolitico indirizzo della cassazione (v. per tutte Sez. III 552004, Modica in www.lexambiente.it ed altre succ. conf.)
[9] Si veda, ad esempio, la valutazione effettuata con riferimento alla legge 43185 ed alla normativa introdotta con il D.Lv. 49099 anche per quanto riguarda il regime sanzionatoria escludendo la sussistenza di ogni problema di successione di leggi ai sensi dell’articolo 2 C.P in Cass. Sez. III n. 2855 del 1272000, Raguccia; Sez. III n. 40849 del 16112001, Fara in Rivistambiente 22002 pag. 205.