Sez. 3, Sentenza n. 16713 del 08/04/2004 (Ud. 10/03/2004 n.00447 ) Rv. 227965
Presidente: Rizzo AS. Estensore: Franco A. Imputato: Di Muzio. P.M. Izzo G. (Diff.)
(Rigetta, App.Milano, 28 giugno 2001).
515001 BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - IN GENERE - Reato di cui all'art. 163 del decreto n. 490 del 1999 - Natura di reato formale di pericolo - Configurabilità - Condizioni e limiti - Individuazione.
CON MOTIVAZIONE
Massima (Fonte CED Cassazione)
Il reato di cui all'art. 163 del decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 490 (ora sostituito dall'art. 181 del decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 41), così come antecedentemente quello di cui all'art. 1 sexies del decreto legge 27 giugno 1985 n. 312, convertito in legge 8 agosto 1985 n. 431, ha natura di reato formale di pericolo che si consuma con la sola realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione paesaggistica, e prescinde dal verificarsi di un evento di danno e da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione del paesaggio, atteso che il vincolo posto su determinate parti del territorio nazionale ha una funzione prodomica al governo del territorio stesso; peraltro tale reato non è configurabile quando si tratti di interventi di entità talmente minima che non siano neppure astrattamente idonei a porre in pericolo il paesaggio ed a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, ovvero si tratti di interventi ontologicamente estranei al paesaggio ed all'ambiente.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. RIZZO Aldo - Presidente - del 10/03/2004
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 447
Dott. GRILLO Carlo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere - N. 37047/2001
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Di Muzio Gabriele, nato a Poggio Licenze il 1 settembre 1961;
avverso la sentenza emessa il 28 giugno 2001 della Corte d'appello di Milano;
udita nella pubblica udienza del 10 marzo 2004 la relazione fatta dal Consigliere Dott. Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Izzo Gioacchino, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Di Muzio Gabriele venne rinviato a giudizio per rispondere dei reati di cui: a) all'art. 20, lett. c), della legge 28 febbraio 1985, n. 47, per avere realizzato senza concessione edilizia ed in area soggetta a vincolo ambientale, interventi di ristrutturazione di un immobile, consistenti nel rifacimento della copertura e della muratura perimetrale, nella apertura di porte e finestre e nella realizzazione di pavimentazione in cemento nei pressi dell'accesso;
b) all'art. 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, per avere effettuato il suddetto intervento modificativo del territorio senza l'autorizzazione ambientale.
Il giudice del tribunale di Corno, sezione distaccata di Erba, con sentenza del 15 gennaio 2001, dichiarò estinto per intervenuto rilascio della concessione edilizia in sanatoria il reato di, cui al capo a) ed assolse il prevenuto dal reato di cui al capo b) perché il fatto non sussiste. Osservò infatti che l'intervento realizzato aveva avuto una incidenza minima sul preesistente assetto ambientale, tale da non comportare una effettiva messa in pericolo del bene ambientes tanto che la stessa autorità competente aveva escluso l'assenza di un danno ambientale.
Propose appello il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Corno osservando che si trattava di un reato formale e di pericolo per la cui sussistenza non si richiedeva l'effettivo verificarsi di un danno ambientale, ma solo l'insorgenza di un pericolo di lesione dell'integrità ambientale.
La corte d'appello di Milano, con sentenza del 28 giugno 2001, dichiarò il Di Muzio colpevole del reato di cui all'art. 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, osservando che nella specie si trattava non solo di un intervento astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio, ma che l'alterazione ed il danneggiamento di questo vi era effettivamente stata, essendosi trattato della sostituzione della copertura della costruzione con lastre in ondolux e di una pavimentazione che aveva eliminato un prato.
L'imputato propone ricorso per Cassazione deducendo:
a) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 597, primo comma, cod. proc. pen. Lamenta che il giudice di appello si è pronunciato ultra petita. Infatti, la sentenza di primo grado lo aveva assolto avendo ritenuto l'inidoneità dell'intervento a mettere in pericolo il bene ambientale ed in conformità ad un recente orientamento della Cassazione. Il pubblico ministero aveva appellato sulla base di un precedente orientamento giurisprudenziale, secondo cui si trattava di reato formale e di pericolo, ma non aveva svolto nessuna censura contro quella parte della sentenza che aveva statuito l'inidoneità dell'intervento a mettere in pericolo il bene giuridico tutelato. b) mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'impatto ambientale dell'intervento di ristrutturazione; inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 192 cod. proc. pen. Lamenta che la corte d'appello non ha fornito adeguata motivazione delle ragioni per le quali ha deciso in difformità rispetto a quanto attestato dal certificato di assenza di danno ambientale rilasciato dal comune e per le quali tale certificazione sarebbe inattendibile. In ogni caso è manifestamente illogica la motivazione con cui si è ritenuto esistente il danno ambientale, dato che, tra l'altro, la copertura della costruzione era stata realizzata mediante il riutilizzo di vecchi coppi e la posa di sassi a secco nella zona antistante riguardava un'area di limitatissima estensione, che anzi accresceva il pregio estetico dell'opera.
c) inosservanza e falsa applicazione dell'art. 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, in rapporto all'art. 39 della legge 23 dicembre 1994, n. 724. Osserva che il reato in questione era comunque estinto a seguito del condono ai sensi dell'art. 39 citato ed in forza del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, dell'autorizzazione ambientale e della concessione edilizia in sanatoria. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo è infondato. Non è infatti vero l'assunto secondo cui il pubblico ministero si sarebbe limitato a proporre una specie di appello solo in favore della legge criticando esclusivamente l'orientamento giurisprudenziale seguito dal primo giudice senza conseguenze in ordine alla sussistenza del reato ed alla responsabilità dell'imputato, essendo invece del tutto evidente - e del resto risultando espressamente dalle parole utilizzate - che è stata impu-gnata la statuizione del giudice secondo cui il reato non era configurabile perché "l'intervento realizzato appare avere una incidenza minima sul preesistente assetto ambientale, tale da non comportare una effettiva messa in pericolo del bene ambientale" (pag. 4 sentenza di primo grado). Del resto non è ragionevolmente possibile dare alla impugnazione una diversa inter-pretazione, non potendo sussistere dubbi, alla stregua del contenuto della stessa, che il pubblico ministero aveva impugnato il capo della decisione con cui si assolveva l'imputato e ne aveva invece chiesto la condanna, per il motivo che, ai fini della sussistenza del reato contestato sub B) è sufficiente la mera idoneità astratta di un intervento in zona vincolata a mettere in pericolo il bene ambientale, indipendentemente dal verificarsi o meno di un effettivo danno ambientale, e che nel caso di specie tale idoneità certamente sussisteva, sicché non aveva alcun rilievo il fatto che fosse "intervenuta certificazione di compatibilità ambientale da parte della autorità amministrativa", trattandosi di certificazione intervenuta ex post che non poteva tener luogo della necessaria autorizzazione preventiva. È poi appena il caso di rilevare - anche ai fini dell'esame del secondo motivo - che non sembrano affatto sussistere due distinti e contrastanti orientamenti giurisprudenziali, come sembrano invece ritenere il ricorrente ed il giudice di primo grado. La giurisprudenza di questa Suprema Corte, invero, ha costantemente ritenuto, anche in tempi recenti, il principio secondo cui il reato di cui all'art. 163 del d. lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, così come quello di cui all'art. 1 sexies del d.l. 27 giugno 1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, ha natura di reato formale di pericolo che si consuma con la sola realizzazione di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la prescritta autorizzazione paesaggistica e prescinde dal verificarsi di un evento di danno e da ogni accertamento in ordine alla avvenuta alterazione, dan-neggiamento o deturpamento del paesaggio, essendo per la sua esistenza sufficiente che l'agente faccia, del bene protetto da vincolo paesaggistico, un uso diverso da quello cui esso è destinato o ponga in essere su di esso interventi astrattamente idonei a mettere in pericolo l'ambiente. E ciò perché il vincolo posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione prodromica al governo del territorio stesso. È pertanto sufficiente l'accertamento della mancanza del provvedimento amministrativo, ai fini della sua configurabilità (Sez. 3^, 28 febbraio 2002, Barbadoro, m. 221.456;
Sez. 1^, 31 agosto 2001, Fontana, m. 219.895; Sez. 3^, 26 giugno 2000, Gregori, m. 216.820; Sez. 3^, 14 febbraio 2000, Tommasi, m. 216.853; Sez. 6^, 24 luglio 1977, Stanzione, m. 209.282; Sez. 3^, 16 gennaio 1996, Re, m. 203.836; Sez. 3^, 12 luglio 1995, D'Emilio, m. 202.883; Sez. 3^, 30 giugno 1995, Montone, m. 202.702; Sez. 3^, 16 marzo 1994, Mastellone, m. 199.181; Sez. 3^, 27 gennaio 1994, Lambri, m. 197.592; Sez. 3^, 4 febbraio 1993, De Lieto, m. 193.636). Si è solo specificato, fermo restando tale principio generale, che il reato non è configurabile soltanto quando si tratta di un intervento sull'immobile di entità talmente minima che non sia neppure astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, ossia che si tratti di un intervento ontologicamente estraneo al paesaggio ed all'ambiente (Sez. 3^, 3 marzo 2000, Faiola, m. 216.975; Sez. 3^, 26 novembre 1999, Gargiulo, m. 215.891; Sez. 3^, 2 ottobre 2001, Farà, m. 220.356; Sez. 3^, 17 marzo 1999, Zotti, m. 213.243). E difatti, il reato in esame, ha natura di reato di pericolo ed esclude dal novero delle condotte penalmente rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in astratto, a compromettere i valori del paesaggio. L'interesse protetto dalla norma incriminatrice, pur dovendosi individuare nella tutela prodomica del paesaggio, non può peraltro logicamente prescindere da una sia pur minima possibilità di "vulnus" al bene tutelato. Pertanto la messa in pericolo del paesaggio deve concretarsi pur sempre in un nocumento potenziale, da valutarsi "ex ante", oggettivamente insito nella minaccia ad esso portata (Sez. 3^, 17 maggio 1998, Vassallo, m. 211.218; Sez. 3^, 17 dicembre 1998, Galimberti, m. 212.247).
Ciò posto, il secondo motivo è manifestamente infondato. La corte d'appello, infatti, non ha affatto disatteso il parere contenuto nel certificato comunale attestante l'assenza di danno ambientale - e quindi non doveva motivare in proposito - ma ha soltanto, del tutto esattamente alla luce dei principi giurisprudenziali dinanzi ricordati, ricordato che tale certificato non poteva servire certamente a far venir meno il reato che si era già consumato per il solo fatto di avere effettuato un intervento in zona vincolata senza la prescritta preventiva autorizzazione da parte dell'autorità competente. È infatti del tutto irrilevante, ai fini della configurabilità del reato, che tale autorizzazione sia intervenuta successivamente alla commissione del reato stesso così come è del tutto irrilevante che il certificato in questione abbia attestato l'assenza di un danno ambientale in concreto. Il reato in questione, invero, prescinde del tutto dalla verificazione di un concreto danneggiamento, o alterazione o deturpamento dell'ambiente e si realizza per il solo fatto di porre in essere un intervento che sia astrattamente e potenzialmente idoneo a porre in pericolo il bene ambientale e che, proprio per questa astratta e potenziale possibilità, può essere realizzato solo dopo previo il rilascio della prescritta autorizzazione. Nella specie era poi evidente la sussistenza di questa astratta possibilità di porre in pericolo l'ambiente, trattandosi del rifacimento della copertura originaria di un edificio e di una pavimentazione aggiunta nell'area antistante la costruzione con la eliminazione di una zona di prato, sulla cui realizzazione pertanto la competente autorità doveva esprimersi preventivamente. La corte d'appello ha voluto aggiungere che nel caso in esame, oltre all'idoneità in astratto a porre in pericolo l'ambiente, gli interventi in concreto realizzati avevano anche procurato un effettivo e rilevante danno estetico ed ambientale, ma si tratta di considerazioni non decisive perché, anche qualora questo danno non si fosse in concreto verificato, ugualmente si sarebbe realizzato il reato contestato.
Il terzo motivo è anch'esso palesemente infondato. Risulta dalla sentenza di primo grado che l'imputato ha ottenuto la concessione edilizia in sanatoria ai sensi degli artt. 13 e 22 legge 28 febbraio 1985, n. 47, e non già, come sostiene nel ricorso, il condono ai sensi dell'art. 39 legge 23 dicembre 1994, n. 724 (che oltretutto non avrebbe mai potuto invocare, nemmeno come richiesta di conversione della concessione in sanatoria, trattandosi di opere ultimate ben dopo il termine previsto dalla detta legge 23 dicembre 1994, n. 724). Ora è pacifico che il rilascio in sanatoria delle concessioni edilizie, effettuato ai sensi degli artt. 13 e 22 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, come espressamente previsto al terzo comma del citato art. 22, determina l'estinzione dei soli "reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti" e quindi si riferisce esclusivamente alle contravvenzioni concernenti la materia che disciplina l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio, ossia alle violazioni della stessa legge, in cui (art. 13) sono contemplate le ipotesi tipiche suscettibili di sanatoria (opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità o con variazioni essenziali, ecc). Ne deriva l'inapplicabilità della causa estintiva agli altri reati che riguardino altri aspetti delle costruzioni ed aventi oggettività giuridica diversa rispetto a quella della mera tutela urbanistica del territorio, come i reati relativi a violazioni di disposizioni dettate dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64, in materia di costruzioni in zona sismica, o dalla legge 5 novembre 1971, n. 1086, in materia di opere in conglomerato cementizio, ovvero dall'art. 1 sexies del D.L. 27 giugno 1985, n. 312, introdotto dalla legge di conversione 8 agosto 1985, n. 431, in materia di tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Ciò trova conferma nell'art. 39, undicesimo comma, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, il quale prevede l'ipotesi di conversione dell'istanza di sanatoria presentata a norma dell'art. 13 legge n. 47 del 1985 in istanza da considerarsi prodotta a mente del successivo art. 31 ed, all'uopo, richiede che venga avanzata al comune apposita domanda, corredata dal pagamento all'erario degli oneri dovuti (Sez. 3^, 1 dicembre 1997, Agnesse, m. 209.571).
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. PER QUESTI MOTIVI
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 10 marzo 2004.
Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2004