Corte Costituzionale n. 68 del 5 aprile 2016
Oggetto: Edilizia e urbanistica - Misure per il rilancio dell'edilizia - Modifiche al T.U. in materia di edilizia (d.P.R. 06/06/2001 n. 380) - Contributo per il rilascio del permesso di costruire - Incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria - Criteri di valutazione - Introduzione del criterio del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso.
SENTENZA N. 68
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera g), del decreto- legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promosso dalla Regione Veneto con ricorso notificato il 9-14 gennaio 2015, depositato in cancelleria il 16 gennaio 2015 ed iscritto al n. 10 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2016 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Luca Antonini e Luigi Manzi per la Regione Veneto e l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato il 16 gennaio 2015, la Regione Veneto promuove questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164 e, tra queste, dell’art. 17, comma 1, lettera g), in riferimento agli artt. 3, 23, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione.
Secondo la ricorrente, l’intervento normativo in discorso mirerebbe a regolare «la c.d. perequazione inerente all’urbanistica contrattata, ovvero quella forma di perequazione diretta alla riappropriazione di quota parte del valore che l’amministrazione determina con le decisioni in materia urbanistica». Detta quota verrebbe «ritenuta vuoi una sorta di prelievo fiscale addizionale diretto al parziale recupero del plusvalore fondiario, vuoi un contributo per il miglioramento delle città in corrispettivo dell’attribuzione di una maggiore edificabilità o di un mutamento di destinazione urbanistica più favorevole».
La disposizione impugnata risulterebbe «viziata di incostituzionalità sotto molteplici profili e palesemente irragionevole».
Anzitutto, il previsto «contributo straordinario» verrebbe determinato autoritativamente, senza contrattazione alcuna con la parte privata, anche se in base a tabelle regionali, peraltro ampiamente discrezionali.
Inoltre, una volta determinato il maggior valore e stabilito che una quota di esso non inferiore al 50 per cento dovrà essere suddivisa tra Comune e parte privata, resterebbe imprecisata la percentuale del riparto. Con la conseguenza «che la stessa norma potrà giustificare sia previsioni perequative che sequestrino pressoché interamente il plusvalore, sia previsioni che lo lascino pressoché interamente al privato». Sarebbe, così, violato l’art. 23 Cost., tenuto conto dell’«amplissima discrezionalità amministrativa assegnata alle amministrazioni comunali».
Dal momento, poi, che «sono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali», la disposizione in esame risulterebbe contraddittoria rispetto allo scopo di dettare una norma di principio – tesa, di per sé, a garantire l’uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale –, rendendo il principio cedevole non solo di fronte alle legislazioni regionali, ma anche ad atti amministrativi, come gli strumenti urbanistici generali comunali.
La norma risulterebbe, peraltro, irragionevole, in quanto sovrapporrebbe «l’interesse pubblico al pagamento del contributo straordinario allo specifico interesse pubblico urbanistico che deve sostenere la variante o la deroga», con possibili compromissioni di interessi ambientali, paesaggistici o idrogeologici.
La disciplina censurata sarebbe, peraltro, irragionevole anche nella parte – di non agevole lettura – in cui tratta dell’erogazione del contributo straordinario, dal momento che – come chiarito dal Consiglio di Stato – la perequazione dovrebbe servire per realizzare opere “in prossimità” dell’area in cui si è realizzato l’intervento cui il contributo si riferisce.
Le «disposizioni impugnate» si porrebbero, in conclusione, in contrasto con la competenza regionale concorrente «in materia di governo del territorio e urbanistica»: «data l’amplissima discrezionalità amministrativa che assegnano alle amministrazioni comunali», risulterebbero «altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello della riserva relativa di legge», la cui violazione ridonderebbe in «una lesione delle suddette competenze regionali».
2.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione venga dichiarata manifestamente inammissibile in quanto estranea all’ambito del riparto di competenze fra Stato e Regioni.
Le questioni proposte dalle Regioni potrebbero, infatti, riguardare «solo l’invasione della propria sfera di competenza, intesa come menomazione della sfera regionale di attribuzioni da parte della legge statale»; e, dunque, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale, «il contrasto con le sole norme costituzionali contenute negli articoli 117, 118 e 119», potendo essere proposte in riferimento ad altri parametri soltanto quando il contrasto «si risolva in un’esclusione o limitazione delle competenze legislative regionali».
I meri «inconvenienti di fatto» derivanti dall’applicazione delle norme denunciate non sarebbero, del resto, sufficienti a determinare lesioni di competenze.
3.– In prossimità dell’udienza, la Regione ha depositato una memoria con la quale, insistendo nelle richieste formulate, ha contestato la fondatezza delle deduzioni svolte dall’Avvocatura generale dello Stato.
Con riferimento all’assunto secondo il quale i ricorsi regionali in via principale sono ammessi solo per contestare vizi relativi alla lesione di competenze regionali stabilite dalla Costituzione nelle norme sul riparto delle competenze, si sottolinea, in particolare, che la censura relativa all’irragionevolezza della norma si riferisce alla circostanza che essa, pur dettando princìpi fondamentali, renda poi cedevole tale previsione rispetto alla legislazione regionale e agli strumenti urbanistici comunali, con riverberi anche sul piano delle competenze regionali.
Ora – si afferma – «delle due l’una: o si tratta di un principio fondamentale e quindi non può essere cedevole o si tratta di una norma statale di dettaglio, ma la cedevolezza non può, in questo caso, essere disposta anche a favore di atti amministrativi comunali senza invadere la competenza legislativa regionale in materia urbanistica». Né una disciplina statale transitoria (o cedevole) varrebbe «di per sé a sanare l’illegittima invasione della competenza regionale».
D’altra parte, nel caso di specie, il contributo straordinario, raccordato al maggior valore generato dagli interventi in variante urbanistica, sarebbe sicuramente applicabile agli accordi previsti dall’art. 6 della legge regionale del Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio) comportanti variante urbanistica, dal momento che tali accordi possono riguardare «qualsiasi previsione, con l’unico limite che non si tratti di una revisione generalizzata dello strumento urbanistico». Il che evidenzierebbe un’ulteriore «evidente interferenza» con la legislazione regionale.
4.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato un’ulteriore memoria, con la quale ha chiesto dichiararsi manifestamente inammissibile e infondata la questione promossa dalla Regione Veneto.
Si ribadisce, anzitutto, che le questioni dedotte dalla Regione ricorrente in riferimento alla violazione degli artt. 3 e 23 Cost. devono ritenersi inammissibili, in quanto estranee all’ambito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, che costituisce l’unico tema che può formare oggetto di ricorso in via principale da parte delle stesse.
Quanto alle restanti censure, si osserva che la norma impugnata – nel modificare l’art. 16, comma 4, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A) e «operando a livello di principio fondamentale» (allo scopo di «favorire il recupero, la ristrutturazione e il riuso del patrimonio edilizio esistente») – prevede di considerare, nella determinazione del contributo di costruzione, la minore incidenza degli oneri di urbanizzazione negli interventi di ristrutturazione edilizia di edifici già esistenti e per i quali i predetti oneri sono stati già corrisposti al momento della costruzione.
D’altra parte, tale disposizione andrebbe riguardata alla luce della previsione, introdotta dalla stessa norma censurata (sotto l’art. 16, comma 4-bis, del richiamato d.P.R. n. 380 del 2001), secondo la quale «sono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali», lasciando così alle Regioni la possibilità di incidere in senso modificativo rispetto alla disciplina censurata.
Considerato in diritto
1.– La Regione Veneto promuove questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164 e, tra queste, in riferimento agli artt. 3, 23, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, dell’art. 17, comma 1, lettera g).
Resta riservata a separate pronunce la decisione sulle altre questioni promosse con il medesimo ricorso.
Deduce la ricorrente che l’intervento normativo oggetto di censura si inquadrerebbe nell’ambito della disciplina della «c.d. perequazione inerente alla urbanistica contrattata», «diretta alla riappropriazione di quota parte del valore che l’amministrazione determina con le decisioni in materia urbanistica».
La disciplina impugnata si esporrebbe a diverse censure di irragionevolezza, in particolare laddove, nello stabilire i parametri sulla cui base determinare gli oneri di urbanizzazione, prevede un meccanismo di ripartizione tra il Comune e la parte privata, del maggior valore «generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso».
Si deduce, al riguardo, la violazione dell’art. 23 Cost., in quanto la disposizione impugnata, nel determinare autoritativamente il contributo straordinario senza contrattazione con la parte privata, assegnerebbe alle amministrazioni comunali una «amplissima discrezionalità» nell’individuazione della percentuale da ripartire.
Facendosi, inoltre, «salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali», si determinerebbe un’insanabile contraddizione rispetto allo scopo di dettare una norma di principio (come tale, tesa a garantire uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale), rendendo, peraltro, cedevole il principio non solo nei confronti delle differenti legislazioni regionali, ma anche di atti amministrativi come gli strumenti urbanistici generali comunali.
Sarebbe, poi, irragionevole la scelta di sovrapporre «automaticamente» l’interesse pubblico al pagamento del contributo straordinario allo specifico «interesse pubblico urbanistico», con possibili compromissioni sul piano ambientale, paesaggistico o idrogeologico, trascurando anche la circostanza che la perequazione dovrebbe tendere a finanziare opere “in prossimità” dell’area in cui si è realizzato l’intervento.
In conclusione, la normativa denunciata si porrebbe in contrasto con la competenza regionale concorrente «in materia di governo del territorio e urbanistica», risultando «altresì in contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello della riserva relativa di legge», la cui violazione ridonderebbe in «una lesione delle suddette competenze regionali».
2.– La questione è inammissibile.
2.1.– A proposito della pretesa violazione degli artt. 3 e 23 Cost., la giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che le Regioni possono far valere nei giudizi in via principale il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle contenute negli artt. 117, 118 e 119 soltanto se esso si risolva in un’esclusione o una limitazione dei poteri regionali, senza che possano avere rilievo denunce di illegittimità o di violazione di princìpi costituzionali che non ridondino in lesioni di sfere di competenza regionale (ex plurimis, sentenza n. 251 del 2015).
Ebbene, alla luce delle deduzioni svolte dalla ricorrente, la pretesa violazione degli indicati parametri non presenta alcun profilo di ridondanza rispetto alla sfera di competenza attribuita al legislatore regionale.
Il ricorso lamenta, infatti, la lesione dell’art. 23 Cost. sotto il profilo dell’ampiezza di discrezionalità assegnata alle amministrazioni locali nel determinare la quota di plusvalenza da suddividere tra amministrazione comunale e parte privata. Ma un simile aspetto non incide sulle competenze legislative regionali, anche perché nulla impedirebbe alle Regioni di introdurre, eventualmente, specifiche regole che modulino l’attribuzione delle plusvalenze in termini percentuali ritenuti coerenti con le realtà locali.
Quanto ai profili di irragionevolezza, prospettati in riferimento al duplice rilievo della mancanza di valutazione dell’«interesse pubblico urbanistico» e del riferimento alla contiguità territoriale tra l’area cui il contributo si riferisce e quella delle opere da finanziare con quel contributo, va osservato che né l’uno né l’altro degli accennati rilievi, al di là di qualsiasi considerazione sul merito degli stessi, presenta profili in qualche modo incidenti sul piano delle competenze legislative regionali.
Gli interessi urbanistici non restano, infatti, per nulla compromessi dalle vicende relative alla corresponsione del contributo – la cui destinazione risulta vincolata nello scopo ma non negli impieghi e nella determinazione delle aree di intervento – né dalla circostanza che dai previsti meccanismi compensativi possano derivare vantaggi per altre aree comunali; posto che, sul punto, la norma non fornisce prescrizioni cogenti né indicative del rischio paventato e, sotto altro e dirimente profilo, la Regione appare comunque libera di assumere proprie determinazioni “di dettaglio”.
2.2.– In merito, poi, alla violazione dei restanti parametri, non può non rilevarsi – in via, in certo senso, quasi “pregiudiziale” – come, nella fase di conversione del richiamato d.l. n. 133 del 2014, l’ampia “clausola di salvaguardia” delle «diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali» sia stata inserita (quale comma 4-bis dell’art. 16 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A») parallelamente alla disposizione impugnata (anch’essa, peraltro, aggiunta al testo dello stesso art. 16) e sia stata a quest’ultima espressamente riferita; venendo poi ribadita, al comma 5, ancora del medesimo art. 16 modificato, in relazione all’ipotesi della mancata definizione delle tabelle parametriche da parte delle Regioni.
Su questa base, la Regione Veneto – tra le non molte, come osservato dalla stessa ricorrente, a disporre di una propria legislazione sulla specifica materia – appare evidentemente priva di un concreto e attuale interesse a ricorrere: in ragione della predetta salvezza delle «diverse» discipline regionali, inequivocamente disposta – e con una enunciazione che, indipendentemente dalla astratta questione della “natura” della norma impugnata, non può apparire meramente pleonastica –, nessuna turbativa alle proprie competenze legislative essa può ragionevolmente lamentare, tanto più trattandosi di competenze già esercitate.
Va, in proposito, rammentato che la giurisprudenza costituzionale ha, in più occasioni, affermato come, nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale – che abbiano ad oggetto questioni relative a disposizioni contenute nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione – deve necessariamente sussistere, nella parte ricorrente, un interesse attuale e concreto a proporre l’impugnazione, per conseguire, attraverso il provvedimento richiesto, un’utilità diretta e immediata, in mancanza del quale interesse il ricorso risulta inammissibile; e poiché l’unico interesse che le Regioni sono legittimate a far valere è quello alla tutela del riparto delle competenze legislative delineato dalla Costituzione, esse hanno titolo a denunciare soltanto le violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, direttamente e immediatamente, sulle prerogative costituzionalmente loro riconosciute (ex plurimis, sentenza n. 216 del 2008).
Ora, per quel che si è detto, questo interesse appare, nella specie, palesemente insussistente, senza che, comunque, sul punto il ricorso abbia adeguatamente motivato.
La stessa Regione, del resto, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, ammette che, «per evitare gli effetti descritti nel ricorso», le Regioni «vengono quindi costrette a legiferare all’interno del groviglio normativo generato dalla disposizione impugnata». Il che, evidentemente, vale – oltre che a segnalare un inconveniente di mero fatto, inidoneo a configurare un contrasto con il parametro costituzionale evocato (tra le tante, sentenza n. 249 del 2009) – soprattutto a confermare che la vicenda non potrebbe in alcun modo riguardare la Regione ricorrente, che – come si è detto – ha già legiferato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione sulle altre questioni promosse dalla ricorrente con il medesimo ricorso;
dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera g), del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 2014, n. 164, promossa, in riferimento agli artt. 3, 23, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 aprile 2016.
Il Cancelliere
F.to: Roberto MILANA