Cass. Sez. III n. 6366 del 11 febbraio 2019 (Up 8 nov 2018)
Pres. Rosi Est. Liberati Ric. Fioravanti ed altro
Urbanistica. Modifica di destinazione d'uso funzionale
Deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d'uso funzionale, purché non comporti una oggettiva modificazione dell'assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità, derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 21 dicembre 2017 la Corte d’appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza 31 maggio 2016 del Tribunale di Ascoli Piceno, con cui Fabio e Flavia Fioravanti erano stati dichiarati responsabili del reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 (per avere, difformemente da quanto indicato nella S.C.I.A. presentata al Comune di San Benedetto del Tronto, realizzato modifiche alla unità abitativa di loro proprietà, tali da consentirne la destinazione alla locazione, contrariamente a quanto previsto nella destinazione d’uso assentita), ha riconosciuto agli imputati il beneficio della non menzione di tale condanna, confermando nel resto la sentenza impugnata.
2. Avverso tale sentenza gli imputati hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione, affidato a un unico articolato motivo, mediante il quale hanno lamentato la violazione dell’art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 e l’insufficienza e l’illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) et e), cod. proc. pen.
Dopo aver premesso, in punto di fatto, che l’affermazione di responsabilità era derivata dall’accertamento della destinazione a fine abitativo del piano seminterrato dell’immobile di loro proprietà concesso in locazione a tale Chicu Iurie, che però lo aveva occupato solo transitoriamente, a causa della necessità di provvedere al montaggio degli arredi e degli elettrodomestici dell’appartamento al piano rialzato nel quale abitava, hanno censurato l’affermazione dei giudici di merito, circa la configurabilità di una difformità rispetto al permesso di costruire, non essendo stata realizzata una entità immobiliare del tutto differente rispetto a quella contemplata nel titolo edilizio, posto che il locale al piano seminterrato aveva mantenuto la sua destinazione di magazzino o deposito e che quello al piano rialzato era abitato dal conduttore, Chicu Iurie.
Hanno, inoltre, contestato la configurabilità del reato loro ascritto, non essendosi in presenza di un mutamento di destinazione d’uso con la realizzazione di opere, con la conseguente erroneità della affermazione della sussistenza di una difformità rispetto al titolo edilizio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. I ricorrenti si dolgono della affermazione della loro responsabilità in relazione al reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001, pur non avendo eseguito opere diverse o ulteriori rispetto a quelle indicate nella segnalazione certificata di inizio attività da essi inviata al Comune di San Benedetto del Tronto e non essendovi stata alcuna modificazione della destinazione d’uso del seminterrato interessato dalla esecuzione di tali opere, utilizzato solo transitoriamente dal conduttore di una abitazione, pure di loro proprietà, posta al piano superiore del medesimo fabbricato; prospettano, quindi, la violazione e l’errata applicazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001 e l’illogicità manifesta della motivazione della sentenza impugnata.
2.1. Va dunque ricordato che questa Corte ha già chiarito (cfr. Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo, Rv. 243102; conf. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106) che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
Il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è dunque solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell'ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico - contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell'ambito della medesima categoria.
Il Consiglio di Stato (Sez. 5, n. 24 del 3/1/1998, Comune di Ostuni c. Monticelli S.r.l.) ha affermato, al riguardo, che "la richiesta di cambio della destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona urbanistica, ma sia volta a realizzare un uso del tutto difforme da quelli ammessi, si pone in insanabile contrasto con lo strumento urbanistico, posto che, in tal caso, si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in un'alternazione idonea ad incidere significativamente sulla destinazione funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli equilibri prefigurati in quella sede".
Quanto al mutamento di destinazione d’uso realizzato, come nel caso in esame, senza l’esecuzione di opere edilizie, è stato chiarito (cfr. Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, cit., e successive conformi, tra cui Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, e Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, citate) che il mutamento di destinazione d'uso senza opere è attualmente assoggettato a S.C.I.A., purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (cfr. Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato, Rv. 267106 – 01, concernente fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d'uso non residenziale alla diversa categoria residenziale).
Dunque deve ritenersi consentita la modifica di destinazione d’uso funzionale, purché non comporti una oggettiva modificazione dell’assetto urbanistico ed edilizio del territorio e non incida sugli indici di edificabilità, che non determini, cioè, un aggravio del carico urbanistico, inteso come maggiore richiesta di servizi cosiddetti secondari, come ad esempio gli spazi pubblici destinati a parcheggio e le esigenze di trasporto, smaltimento di rifiuti e viabilità (cfr., Sez. 3, n. 24852 del 8/5/2013, Pace, non massimata), derivante dalla diversa destinazione impressa al bene.
2.2. Nel caso in esame la Corte d’appello, con accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, in quanto logico e adeguatamente motivato (essendo frutto della corretta applicazione di consolidate massime di esperienza, tra cui quella relativa alla diversa incidenza sul carico urbanistico dell’utilizzo di una unità immobiliare a fini abitativi anziché come cantina di pertinenza di una diversa e separata abitazione), pur dando atto della mancata realizzazione di opere, ha ritenuto aggravato il carico urbanistico e quindi configurabile il reato contestato, sottolineando l’intervenuta modificazione della destinazione d’uso del piano seminterrato (con la realizzazione di ingresso, cucina, sala da pranzo, camera da letto, disimpegno e gabinetto, allacciamento delle utenze domestiche e dotazione completa di arredi), concesso in locazione a fine abitativo a Chico Iuri (il quale aveva anche dichiarato la propria residenza presso tale unità), quantomeno fino all’ottobre 2013, allorquando è stata ripristinata l’originaria destinazione di tali locali, determinando per tale periodo un aggravio del carico urbanistico, per la maggiore e autonoma superficie residenziale gravante sul territorio e l’aggravio che ne è derivato: si tratta di motivazione conforme al ricordato orientamento interpretativo, essendo stata ribadita la configurabilità del reato di cui all’art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 in conseguenza e a causa della modifica di destinazione d’uso della porzione di fabbricato di proprietà dei ricorrenti, senza l’esecuzione di opere ma in guisa tale da determinare un aggravio del carico urbanistico, come tale idonea a integrare detto reato, che i ricorrenti censurano sul piano dell’accertamento in concreto della modifica di destinazione d’uso, accertata in modo univoco da entrambi i giudici di merito, proponendo in tal modo una doglianza manifestamente infondata e non consentita nel giudizio di legittimità (per la parte relativa alla contestazione della effettività della modifica della destinazione d’uso).
3. Il ricorso deve, in conclusione, essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta infondatezza delle censure cui è stato affidato.
L’inammissibilità originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado, giacché detta inammissibilità impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimità, e preclude l'apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616).
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost. sentenza 7 – 13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 2.000,00 per ciascun ricorrente.
In applicazione del decreto del Primo Presidente di questa Corte n. 84 del 2016 la motivazione è redatta in forma semplificata, in quanto il ricorso non richiede, ad avviso del Collegio, l’esercizio della funzione di nomofilachia e solleva questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi di diritto già affermati e che il Collegio condivide.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 8/11/2018