Cass. Sez. III n. 6243 del 8 febbraio 2019 (Up 5 ott 2018)
Pres. Ramacci Est. Zunica Ric. Lorgio ed altro
Urbanistica. Demolizione e direttore dei lavori

Il giudice, nel disporre la condanna dell'esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380/2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell'art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all'ordine di demolizione, non estendendosi quindi il relativo obbligo anche al direttore dei lavori.


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del Tribunale di Agrigento del 16 novembre 2017, Anita Lorgio e Salvatore Infurna venivano assolti dai reati di cui agli art. 44 lett. C del d.P.R. 380/2001 (capo A), 93-95 del d.P.R. 380/2001 (capo B) e 181 del d.lgs. 42/2004 (secondo capo A), perché i fatti non sussistono.
Il comune nucleo fattuale delle accuse elevate a carico degli imputati consisteva in particolare nell’avere eseguito, la Lorgio quale proprietaria e committente e Infurna nella veste di direttore dei lavori, in totale difformità rispetto alla d.i.a. del 18 aprile 2013, opere abusive consistite nella maggiore elevazione della linea di gronda di una veranda cucina, la cui tamponatura perimetrale era stata realizzata in muratura, anziché interamente in legno, e in una tettoia di mq. 48 circa, realizzata in aderenza al muro di confine di altra proprietà, fatti accertati in Agrigento, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, il 3 luglio 2013.
Con sentenza del 1° giugno 2018, la Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, appellata dal Procuratore generale, dichiarava gli imputati colpevoli dei reati a loro ascritti e condannava ciascuno di essi alla pena di mesi 2 di arresto ed euro 33.000 di ammenda, concedendo loro il beneficio condizionale della pena, subordinato alla demolizione delle opere abusive.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello siciliana, la Lorgio e Infurna, tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione.
2.1. Anita Lorgio ha sollevato quattro motivi.
Con il primo, la difesa eccepisce la nullità dell’ordinanza del 1° giugno 2018, con cui la Corte di appello aveva rigettato la richiesta di rinvio dell’udienza per il legittimo impedimento del difensore, richiesta tempestivamente trasmessa e relativa a un concomitante impegno processuale presso il Tribunale di Agrigento, per il quale il difensore non poteva disporre di sostituti processuali.
Il rigetto dell’istanza, avvenuto con motivazione erronea, avrebbe quindi determinato la palese violazione del diritto di difesa dell’imputata.
Con il secondo motivo, viene censurata l’affermazione della penale responsabilità dell’imputata, rilevandosi che gli interventi posti in essere non richiedevano il permesso di costruire, rientrando gli aumenti di altezza realizzati nei limiti di tolleranza previsti dagli art. 34 del d.P.R. 380 del 2001 e 7 della legge regionale siciliana n. 37 del 1985, avendo la Corte territoriale travisato le prove acquisite rispetto alle opere ritenute illecite, non coordinando le acquisizioni documentali con le prove dichiarative e non tenendo conto peraltro del nulla osta n. 716 del 29 gennaio 2010 e della concessione in sanatoria dell’11 febbraio 2010, rilasciata in favore della precedente proprietaria, atti relativi proprio alla veranda contestata nell’ambito dell’odierno procedimento penale.
Con il terzo motivo, la difesa contesta la violazione degli art. 546, 603 bis comma 6 cod. proc. pen. e 6 della C.E.D.U., osservando che la riforma della decisione assolutoria di primo grado è avvenuta attraverso una rivalutazione parcellizzata, fuorviante e meramente cartolare delle dichiarazioni testimoniali, senza che sia stata disposta alcuna rinnovazione delle prove dichiarative, come imposto dalla recente evoluzione giurisprudenziale elaborata dalle Sezioni Unite di questa Corte con le note sentenze n. 27620 del 2016 e n. 18620 del 2017.
Con il quarto motivo, infine, sono censurati il diniego immotivato delle attenuanti generiche e l’eccessivo rigore del trattamento sanzionatorio.
     2.2. Salvatore Infurna ha sollevato quattro motivi.
Con il primo, la difesa censura il giudizio sulla sussistenza dei reati, ripercorrendo l’iter procedimentale della vicenda urbanistica ed evidenziando che gli interventi realizzati fungevano da completamento rispetto a precedenti lavori che erano stati già oggetto di nulla osta in sanatoria, sulla scorta di un progetto presentato da un tecnico diverso per conto della precedente proprietaria.
Il direttore dei lavori, dunque, non poteva rispondere del fatto che le opere realizzate fossero difformi rispetto alle previsioni progettuali, tutte autorizzate dalla Soprintendenza anche nella parte relativa alle modalità esecutive del progetto, posto che tali previsioni erano rispettose della normativa vigente.
Né poteva essere contestata al ricorrente l’omissione di ogni comunicazione al Comune, alla Regione o al Genio Civile, consistendo l’intervento in opere di manutenzione straordinaria effettuate con alluminio e altri materiali leggeri, come il legno, e comunque su elementi non strutturali degli edifici preesistenti, e dunque non assoggettabili alla normativa antisismica alla luce della Circolare dell’Ufficio del Genio civile di Agrigento del 20 maggio 2010.
La difesa osserva inoltre che l’illecito contestato nel mese di luglio 2013 non era stato definitivamente accertato, posto che la d.i.a. del 18 aprile 2013 si era chiusa con un provvedimento di archiviazione del Dirigente dell’Ufficio, fermo restando che l’esiguità delle opere rendeva privi di rilevanza i fatti contestati.
Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione degli art. 31 comma 9 del d.P.R. 380 del 2001 e 181 comma 2 del d. lgs. 42 del 2004, osservandosi che nei confronti di Infurna non poteva essere emesso alcun ordine di demolizione, non avendo egli alcun potere di disporre dell’immobile ritenuto abusivo, tanto più che, in data 24 febbraio 2014, egli aveva rinunciato al mandato professionale.
Con il terzo motivo, il ricorrente contesta il trattamento sanzionatorio, lamentando l’eccessività della pena irrogata, a fronte della modestia delle opere eseguite e della condizione di incensurati degli imputati.
Con il quarto motivo, infine, la difesa deduce la prescrizione dei reati, essendo decorsi più di 5 anni dalla data di accertamento dei fatti (3 luglio 2013).

CONSIDERATO IN DIRITTO

 Il ricorso di Anita Lorgio è infondato, mentre, quanto alla posizione di Infurna, è fondato unicamente il motivo relativo alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive.
      1. Il secondo motivo del ricorso della Lorgio e il primo motivo del ricorso di Infurna possono essere trattati congiuntamente, concernendo entrambi, in termini sovrapponibili, il giudizio sulla configurabilità dei reati contestati, che invero, a differenza di quanto dedotto, non presenta vizi rilevabili in questa sede.
La sentenza impugnata, infatti, ha innanzitutto operato un’adeguata ricostruzione della vicenda oggetto di impugnazione, pervenendo a coerenti conclusioni giuridiche, all’esito di un percorso motivazionale non illogico e ben più esaustivo della scarna esposizione della sentenza assolutoria di primo grado.
I giudici di appello hanno invero rimarcato come il Tribunale abbia indebitamente ridimensionato la rilevanza urbanistica delle opere contestate, con particolare riferimento alla realizzazione in muratura della tamponatura perimetrale della veranda di circa 27 metri quadri e all’edificazione della tettoia di 48 metri quadri.
Tali opere non potevano ritenersi regolarmente assentite né dalla d.i.a. presentata il 18 aprile 2013, né dal nulla osta rilasciato dalla Soprintendenza il 18 luglio 2012, né dalla precedente concessione edilizia in sanatoria, avendo entrambe le opere caratteristiche strutturalmente ben diverse rispetto a quelle riportate nei progetti assentiti, posto che, quanto alla veranda – cucina, era prevista sia la perimetrazione in legno e non in muratura, come in realtà accertato, sia una diversa e minore altezza (di circa 20 cm.) della linea di gronda rispetto a quella rilevata in sede di sopralluogo, mentre, per quanto concerne la tettoia di 48 mq., la stessa, per come verificato dalla P.G., era a falda inclinata e aveva un’altezza di 2,45 metri alla gronda e di 2,70 metri al colmo, mentre negli elaborati progettuali era prevista una struttura piana con altezza di 2,25 metri.
Alla stregua di tali elementi, desunti da una rilettura più attenta delle acquisizioni probatorie, soprattutto di natura documentale, la Corte di appello ha dunque ritenuto configurabili tutte e tre le fattispecie contestate, richiamando, quanto ai reati di cui agli art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 del d. lgs. 42 del 2004, oltre alla pacifica circostanza della costruzione delle opere in area vincolata dal punto di vista paesaggistico, la costante affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Rv. 257290 e Sez. 3, n. 21351 del 06/05/2010, Rv. 247628), secondo cui assume rilievo penale la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell’edificio sul quale viene realizzata, a nulla rilevando che si trattasse di strutture aperte all’esterno.
In ordine poi alla contravvenzione di cui all’art. 93-95 del d.P.R. 380 del 2001, i giudici di appello hanno rimarcato la natura meramente assertiva della motivazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto che le riscontrate variazioni rispetto agli elaborati progettuali, per la loro entità, non abbiano comportato alcun “disequilibrio nell’economia complessiva dell’impianto architettonico, statico e paesaggistico della costruzione nel suo complesso”, mentre in realtà, come sostenuto anche dal funzionario del Genio civile di Agrigento Giuseppe Cassaro, la preventiva autorizzazione del predetto Ufficio sarebbe stata necessaria, ricadendo in area sismica le tettoie realizzate, peraltro dotate di dimensioni e caratteristiche strutturali non proprio trascurabili e dunque potenzialmente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità.
Peraltro, come ricordato dalla Corte territoriale e come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Rv. 238007), in tema di costruzioni in zone sismiche, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica (art. 95 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto la normativa è finalizzata a garantire l’esercizio del controllo preventivo della P.A. sulle attività edificatorie nelle zone sismiche.
Ribadita la configurabilità delle fattispecie contestate, risulta altresì immune da censure il giudizio di ascrivibilità delle stesse agli odierni imputati, alla luce delle rispettive qualità di proprietaria e committente delle opere (la Lorgio) e di progettista e direttore dei lavori (Infurno), avendo quest’ultimo curato, in prossimità dell’accertamento dei reati, anche l’iter procedimentale dei lavori, rivelatosi tuttavia inadeguato rispetto alle attività edilizie in concreto realizzate.
In definitiva, la motivazione della sentenza impugnata, in quanto saldamente ancorata alle fonti dimostrative acquisite e sorretta da argomentazioni prive di profili di irrazionalità, si sottrae alle doglianze difensive, che invero, oltre ad articolarsi in considerazioni prevalentemente fattuali (scontando peraltro i ricorsi  evidenti limiti di autosufficienza), appaiono fondate su una non consentita lettura alternativa, e comunque frammentaria, dell’intero materiale probatorio raccolto.
1.1. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della Lorgio nel terzo motivo di ricorso, inoltre, deve poi escludersi che la condanna inflitta agli imputati all’esito del giudizio di secondo grado si ponga in contrasto con i principi elaborati da questa Corte (cfr. Sez. Un. n. 27620 del 28/04/2016, Rv. 267489 e Sez. Un., n. 18620 del 19/01/2017, Rv. 269787) in tema di riforma in appello della pronuncia assolutoria di primo grado, all’indomani della sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia.
Ed invero, come correttamente precisato di recente da questa Corte (Sez. 2, n. 53594 del 16/11/2017, Rv. 271694, Sez. 5, n. 47833 del 21/06/2017, Rv. 273553 e Sez. 5, n. 42577 del 02/07/2018, Rv. 274009), nel caso di condanna in appello, non sussiste l’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale qualora il giudice abbia riformato la sentenza assolutoria di primo grado non già in base al diverso apprezzamento circa l’attendibilità di una prova dichiarativa, bensì all’esito di una differente valutazione giuridica della fattispecie concreta.
Alla stregua di tale condivisa affermazione, alcuna violazione del diritto di difesa appare ravvisabile nel caso di specie, posto che il diverso approdo decisionale della Corte territoriale è scaturito esclusivamente da una differente qualificazione giuridica dei fatti, a sua volta fondata su una mera rivalutazione delle risultanze istruttorie, invero soprattutto di carattere documentale, senza che sia stata affatto rimessa in discussone l’attendibilità delle prove dichiarative assunte.
1.2. A ciò deve solo aggiungersi che, a differenza di quanto sostenuto dalla difesa di Infurna nel quarto motivo di ricorso, i reati contestati, alla data della presente decisione, non sono prescritti, dovendosi sommare al termine massimo di prescrizione, pari a cinque anni, l’ulteriore periodo di 133 giorni per le due sospensioni intervenute in primo grado (entrambe per l’adesione della difesa all’astensione dalle udienze proclamata dall’associazione di categoria), con conseguente spostamento del termine di prescrizione al 6 novembre 2018.
2. Sono suscettibili di trattazione congiunta anche il terzo motivo del ricorso di Infurna e il quarto motivo del ricorso della Lorgio, con cui viene contestata la parte della sentenza relativa al trattamento sanzionatorio.
Anche sul punto, tuttavia, la pronuncia impugnata resiste alle censure difensive, dovendosi rilevare che la pena base è stata determinata nella misura di mesi 1 di arresto ed € 31.000 di ammenda, ovvero in misura molto più prossima al minimo (5 giorni ed € 30.986) che al massimo edittale (anni 2 ed € 103.290), risultando contenuti anche gli aumenti per la ravvisata continuazione (giorni 15 ed € 1.000 per ciascuno dei due reati), per cui non può affermarsi che la determinazione della pena sia stata ispirata da criteri di particolare rigore, dovendosi unicamente aggiungere, quanto alle attenuanti generiche, che le stesse non hanno formato oggetto di formale richiesta in sede di conclusioni nel giudizio di secondo grado e che, in ogni caso, nei ricorsi non sono state adeguatamente illustrate le ragioni che avrebbero dovuto giustificare un trattamento sanzionatorio ancora più mite, non essendo di per sé dirimente lo status di incensurati degli imputati.
Di qui l’infondatezza delle doglianze difensive.
2. Parimenti infondato è il primo motivo del ricorso della Lorgio.
Ed invero, il rigetto da parte della Corte di appello dell’istanza di rinvio dell’udienza del 1° giugno 2018 non presta il fianco alle censure difensive, avendo la Corte territoriale richiamato, in senso ostativo all’accoglimento della richiesta di differimento, la preminenza dell’impegno processuale in corso di celebrazione innanzi la stessa Corte, trattandosi di processo avente ad oggetto reati di natura contravvenzionale prossimi alla prescrizione, non emergendo in ogni caso dalla documentazione afferente il concomitante processo innanzi il Tribunale di Agrigento, quale fosse l’attività programmata per quella specifica udienza (che peraltro era la prima, come si desume dall’allegazione del decreto di citazione), risultando unicamente che il procedimento penale pendente dinanzi il Tribunale, oltre a essere relativo a un imputato a piede libero, riguardava fatti per cui era ben più lontana la data di prescrizione del reato (2 gennaio 2022).
A fronte di tali rilievi, le obiezioni difensive sulla tempestività dell’istanza di rinvio e sull’assenza di sostituti processuali sono inevitabilmente destinate a rimanere sullo sfondo, dovendosi ribadire l’affermazione di questa Corte (cfr. in termini Sez. 3, n. 23764 del 22/11/2016, Rv. 270330), secondo cui, in tema di legittimo impedimento del difensore per concomitante impegno professionale, tra i requisiti di ammissibilità dell’istanza di rinvio, vi è la rappresentazione delle ragioni che rendono essenziale la presenza del difensore nel diverso processo, avendo il giudice dinanzi al quale l’impedimento è addotto l’onere di accertare il carattere eventualmente dilatorio della richiesta, valutando nel merito l’urgenza del procedimento concomitante, tenuto conto dell’obbligo di diligenza gravante sul difensore che gli impone di dare preferenza alla posizione processuale che risulterebbe maggiormente pregiudicata dalla mancata trattazione del giudizio.
Il rigetto dell’istanza di rinvio risulta coerente con tale indirizzo ermeneutico, posto che la richiesta di differimento non prospettava, neanche in termini generici, la prevalente necessità difensiva della partecipazione alla prima udienza del processo monocratico pendente dinanzi al Tribunale di Agrigento.
           3. È invece fondato il secondo motivo del ricorso di Infurna, con cui è stata contestata la subordinazione della sospensione condizionale della pena concessa al ricorrente, condannato nella sua veste di direttore dei lavori risultati abusivi, alla previa demolizione delle opere contestate.
Occorre richiamare al riguardo il costante orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 17991 del 21/01/2014, Rv. 261497), secondo cui, in tema di reati edilizi, il giudice, nel disporre la condanna dell’esecutore e/o del direttore dei lavori per il reato di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001, non può subordinare il beneficio della sospensione condizionale della pena alla effettiva eliminazione delle opere abusive, in quanto solo il proprietario, ai sensi dell’art. 31 del citato d.P.R., può ritenersi soggetto passivamente legittimato rispetto all’ordine di demolizione, non estendendosi quindi il relativo obbligo anche al direttore dei lavori.
4. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di Infurna, limitatamente alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere, subordinazione che va in questa sede eliminata, mentre nel resto i ricorsi vanno rigettati, con onere per la sola ricorrente Lorgio, i cui motivi si sono rivelati tutti infondati, di sostenere le spese del procedimento, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Infurna Salvatore, limitatamente alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere, subordinazione che elimina.
Rigetta nel resto il ricorso di Infurna Salvatore. Rigetta il ricorso di Lorgio Anita, che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 05/10/2018