L’inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione: pericolo astratto, pericolo concreto o tenuità del fatto?
di Giuseppe DE FALCO
pubblicato su unaltroambiente.it. Si ringraziano Autore ed Editore
Commento a Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 29/04/2022) 14-06-2022, n. 23091
1.Il quarto comma dell’art. 256 del d.lgs. 152/2006 sanziona, come è noto, le fattispecie di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, oltre che le fattispecie di carenza dei requisiti o delle condizioni richiesti per le iscrizioni o le comunicazioni. Le pene sono ridotte alla metà rispetto a quelle previste nei primi tre commi del medesimo articolo, relativi, rispettivamente, alle attività di gestione dei rifiuti, alle condotte di abbandono o deposito incontrollato ed alle discariche non autorizzate.
Si tratta, all’evidenza, e come la stessa riduzione della sanzione testimonia, di una fattispecie giudicata dal legislatore di minor gravità rispetto alle altre ipotesi citate, che possiedono un’incidenza di maggiore impatto, almeno potenziale, sulla situazione ambientale e sfuggono, comunque, a qualsiasi controllo dell’autorità preposta alla tutela degli interessi ambientali, posto che sono del tutto prive di autorizzazione.
Il reato di cui al quarto comma è tradizionalmente definito di natura formale, posto che è configurabile – con riferimento al profilo che riguarda l’inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione – sulla base della mera effettuazione di una delle attività soggetto al titolo abilitativo senza osservare una o più delle prescrizioni dettate con il titolo stesso.
L’inosservanza delle prescrizioni non consente di ritenere lecita l’attività, sol perché autorizzata, posto che le prescrizioni dettate costituiscono in sostanza lo statuto del provvedimento abilitativo, ne fissano il contenuto e delineano il paradigma cui l’attività deve attenersi per rimanere nei limiti della legittimità. Fintantoché l’inosservanza si protrae nel tempo si protrae anche il reato, che ha dunque natura permanente, e cessa con la sopravvenuta osservanza delle prescrizioni violate o con il venir meno dell’attività.
Ovviamente si può parlare di inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione quando la violazione attenga a uno o più “comandamenti” imposti con l’atto abilitativo, atto del quale si rispettino, comunque, il contenuto e la portata essenziali. In altre parole, non potrebbe parlarsi di inosservanza delle prescrizioni laddove, ad esempio, a fronte dell’’autorizzazione a svolgere attività di recupero dei rifiuti venisse svolta attività di smaltimento, ovvero laddove a fronte dell’autorizzazione a gestire una particolare tipologia di rifiuti ne venisse gestita un’altra: in questi casi, invero, la condotta si connoterebbe in modo del tutto diverso ed estraneo all’ambito autorizzato, per cui dovrebbe parlarsi di attività abusiva tout court.
Ma l’aspetto della fattispecie criminosa che maggiormente rileva in relazione alle statuizioni della sentenza in commento è quello, già accennato, per cui si tratta di reato formale, che è integrato dalla mera violazione di una o più delle prescrizioni imposte, senza che assuma dunque rilievo l’idoneità della condotta (e della/e violazione/i) ad arrecare un effettivo pregiudizio al bene ambientale: il bene protetto dalla norma incriminatrice è infatti quello, strumentale, del controllo amministrativo delle attività che incidono sull’ambiente da parte dell’autorità preposta alla tutela dei beni ambientali che vengono, di volta in volta, in rilievo.
2. La sentenza che qui si commenta riguarda un caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione rilasciata per la gestione dei rifiuti; la violazione consisteva nell’aver collocato rifiuti in aree non autorizzate e nell’aver mantenuto rifiuti pericolosi in deposito per oltre 180 giorni. L’imputato era stato assolto in primo grado, in quanto il Tribunale aveva ritenuto concretamente inoffensiva la condotta, cioè non in grado, alla luce di quelle che erano state le conseguenze rilevate sulla situazione ambientale, di nuocere alla stessa. Il pubblico ministero aveva promosso ricorso in Cassazione.
Le violazioni consistevano nel fatto che tre trattori agricoli, dismessi e non bonificati, erano stati rinvenuti dai funzionari dell’A.R.P.A. in una zona dell’impianto della società diversa da quella appositamente adibita al conferimento e allo stoccaggio dei veicoli fuori uso prima del loro trattamento e nel fatto che gli stessi erano stati presi in carico dall’azienda da un tempo ampiamente superiore a quello massimo di centottanta giorni previsto dalla autorizzazione.
Nel definire il processo, la Corte si è dunque confrontata con il tema della compatibilità del principio di offensività con i reati di pericolo astratto; ha, in questo senso, mosso le proprie considerazioni dalla premessa per cui al giudice di merito non è precluso il compito di verificare, anche nei reati formali, la sussistenza di un sia pur minimo profilo di offensività in concreto.
La Corte Costituzionale ha infatti più volte affrontato il problema del rispetto del principio di offensività nei reati a tutela anticipata, come vengono definiti quelli formali, affermando la legittimità delle fattispecie di pericolo astratto, purchè la valutazione legislativa della pericolosità di una classe di comportamenti non sia arbitraria e irrazionale (c.d. offensività in astratto) ed il giudice eviti di applicare la norma penale a fatti del tutto privi di potenzialità lesiva (c.d. offensività in concreto) (cfr. C. Cost. n. 333/1991, n. 265/2005, n. 225/2008).
Per conciliare, in questa prospettiva, il principio della offensività in astratto con una base, per quanto minima, di offensività in concreto, è necessario, – ha osservato la sentenza in commento. in linea con Cass. n. 19439 del 17/01/2012 – dep.23/05/2012, Miotti – che la valutazione in ordine all’offesa al bene giuridico protetto venga riportata al momento della condotta, secondo un giudizio prognostico “ex ante”, essendo irrilevante l’assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione (nello stesso senso, in relazione ai reati in materia di inquinamento, si veda, da ultimo, Cass. n. 4973 del 18/10/2018 – dep.01/02/2019, Mastroianni).
In nome del principio di offensività “in concreto”, che certamente alberga in modo importante nel nostro ordinamento, non è però consentito trasformare i reati di pericolo astratto (o presunto) in reati di pericolo concreto (e tantomeno di danno). Ne consegue che la verifica dell’offensività “in concreto” non può essere svolta tenendo conto della situazione che si è palesata dopo la commissione del reato, ma l’indagine deve essere condotta collocandosi ex ante e accertando la presenza di elementi concreti, e non meramente ipotetici o congetturali, che, secondo la migliore scienza ed esperienza, facciano ritenere probabile che il comportamento specificamente realizzato esprima quella situazione di pericolo per il bene giuridico che corrisponde a quella assunta nella norma penale quale ratio dell’incriminazione.
In questo senso, dunque, per garantire il dovuto rilievo ai reati formali, il giudizio sull’inoffensività “in concreto” può risolversi a favore dell’autore del fatto esclusivamente quando la condotta tenuta dall’agente non presenti, neppure in grado minimo, l’attitudine a mettere in pericolo l’interesse tutelato.
Conseguentemente, nel caso oggetto della sentenza in commento ci si sarebbe dovuti domandare se nel momento in cui era iniziata la violazione delle due prescrizioni dell’autorizzazione fosse possibile affermare che l’inappropriata collocazione dei veicoli all’interno delle aree della società e la permanenza dei veicoli non bonificati presso l’impianto per oltre 180 giorni fossero circostanze tali da attualizzare il rischio presunto per l’ambiente, per fronteggiare il quale erano state dettate le specifiche prescrizioni inadempiute. Nella ricordata prospettiva ex ante si sarebbe potuto, ad esempio, escludere l’offesa per l’ambiente e dunque il reato – sottolinea la Corte – se fosse risultato, in base ad elementi concreti, oggetto di puntuale accertamento da parte del giudice, e non presunti, che, fin dall’inizio (e cioè da quando si era cominciato a tenere la condotta inosservante della prescrizione), la collocazione di un veicolo in area non conforme a quanto previsto nell’autorizzazione era destinata a durare per un tempo assolutamente limitato, evenienza in cui la condotta sarebbe stata concretamente inidonea a determinare una situazione, anche solo potenziale, di pregiudizio per l’equilibrio ambientale.
Invece la valutazione giudiziale del Tribunale, che aveva condotto all’assoluzione per mancanza di offensività della condotta, era stata influenzata dall’effettivo evolversi della situazione e quindi dall’assenza, successivamente riscontrata, di qualsivoglia effettiva lesione al bene tutelato.
Impropriamente, invero, il Tribunale aveva sostenuto che non era affatto certo che l’inappropriata collocazione dei veicoli all’interno del sito “fosse di per sè tale da esporre a concreto pericolo la salubrità dell’ambiente”; così facendo, in realtà, non aveva fatto altro che richiamare impropriamente il concetto di pericolo concreto (cui non sarebbe stato esposto il bene tutelato).
Ad analoghe conclusioni è pervenuta la Corte quanto alla violazione della prescrizione che imponeva il limite di permanenza dei veicoli non bonificati presso l’impianto per non oltre centottanta giorni. E’ stato infatti giudicato inconferente il richiamo del Tribunale a quanto acquisito in dibattimento (circa l’assenza di perdite o sversamenti) trattandosi di un dato emerso solamente ex post. Al contrario, nella prospettiva ex ante occorreva prima di tutto indagare sulla reale funzione protettiva spettante alla prescrizione violata (che, come correttamente aveva sottolineato il pubblico ministero nel ricorso, non era quella di evitare l’inquinamento dell’ambiente in caso di eventuali perdite di fluidi o altre sostanze, perchè tale finalità cautelare spettava ad altre prescrizioni, ma poteva essere quella di impedire il sovraccarico ambientale dovuto allo stazionamento di veicoli pericolosi) e, soltanto dopo, si sarebbe potuto stabilire se la condotta concretamente iniziata alla scadenza del termine legale fosse tale da attualizzare il rischio (presunto) per l’ambiente, per fronteggiare il quale era stata imposta la specifica prescrizione inadempiuta.
3. Alle condivisibili conclusioni della Corte è bene però far seguire una considerazione che si muove lungo un diverso percorso valutativo ed è attenta alle esigenze di carattere deflattivo che, nell’attuale stadio di elevata criticità del sistema processuale penale, non possono non essere valutate.
In questo senso non può non ricordarsi che nel nostro ordinamento ha fatto ingresso, con il d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, la speciale causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, codificata nell’art. 131 bis c.p. E dunque, quando l’offesa al bene protetto dalla norma incriminatrice sia di particolare tenuità (alla stregua di una valutazione da compiere in base alle altre disposizioni dell’art. 131 bis c.p. ed alla luce delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133 c.p., in tema di gravità del reato) la punibilità in concreto dell’autore del reato è esclusa. Il reato è, insomma, perfetto in tutti i suoi elementi ma è esclusa la punibilità, trattandosi di fatto tenue.
Stando alla vicenda oggetto della sentenza in commento, dunque, se è vero che la ricordata disamina in tema di offensività in astratto e di offensività in concreto deve condurre ad affermare la sussistenza del reato, formale, nondimeno l’esiguità del danno e del pericolo (correttamente valutate ex post, alla stregua del richiamato, diverso, parametro di giudizio) avrebbe potuto condurre, una volta escluso l’ulteriore presupposto dell’abitualità del comportamento, ad escludere la punibilità dell’autore del reato. In questo modo avrebbero comunque potuto trovare ingresso le valutazioni in tema di reale disvalore della fattispecie che sono state apprezzate, seppure per una via incongrua, dal Tribunale, e, per altro verso, si sarebbe opportunamente percorsa quella prospettiva deflattiva del carico penale che certamente, in questi tempi, deve costituire un approdo da raggiungere quanto più spesso possibile.