di Pasquale Fimiani, Giudice del Tribunale di Pescara
pubblicato su Rifiuti Boll. inf. norm. n. 3-2007 - Si ringrazia l'autore per la pubblicazione
1. Considerazioni generali
Il T.U. ambientale ha accentuato una caratteristica tipica della disciplina dei rifiuti, già evidente nel D.Lgs 22/1997. E’ infatti agevole individuare una sorta di doppio regime gestionale e procedimentale: quello di carattere generale che, partendo dalla definizione di rifiuto di matrice comunitaria, passa per l’autorizzazione e l’iscrizione all’albo in via ordinaria come regime amministrativo di riferimento, per arrivare agli obblighi consolidati in materia di m.u.d., registri e formulari; quello di carattere speciale che, nei vari settori ora enunciati, deroga alle regole generali, introducendo eccezioni od esenzioni e, in senso lato, discipline di favore.
E così:
- a fronte della nozione di rifiuto che riproduce quella comunitaria, è stato introdotto il concetto di sottoprodotto (art. 183, lett. n) e sono state confermate ed ampliate le esclusioni dalla disciplina sui rifiuti per alcuni, specifici, materiali (terre e rocce da scavo, combustibile da rifiuti di qualità elevata, coke da petrolio utilizzato come combustibile per uso produttivo);
- in alternativa al regime autorizzatorio quale regola di carattere generale, sono previste ipotesi in cui è sufficiente la comunicazione di inizio attività ( per il recupero o l’auto-smaltimento) od ipotesi di vera e propria esclusione di qualsiasi obbligo procedimentale (deposito temporaneo, ordinanze contingibili ed urgenti, impianti mobili di smaltimento);
- la stessa iscrizione all’albo prevede forme semplificate, in deroga al regime ordinario (art. 212, commi 8 e 18 T.U.);
- in materia di formulario, l’art. 193 T.U. prevede delle eccezioni all’obbligo di compilazione;
- la stessa norma disciplina le ipotesi in cui la sosta durante il trasporto non è considerata stoccaggio;
- l’impossibilità tecnica ed economica di procedere alla separazione dei rifiuti pericolosi miscelati, nonostante il divieto di cui all’art. 187, comma 1, T.U. secondo il successivo comma 3, esclude le sanzioni penali di cui all'articolo 265, comma 5;
- sono previste, infine, delle deroghe ai criteri di individuazione del luogo di produzione, come definito dall’art. 183, lett. i) T.U. per le attività di manutenzione ed attività sanitaria (art. 266, 4° comma) e per quelle di manutenzione delle infrastrutture (art. 230), che consentono un diverso approccio al rispetto degli obblighi inerenti ai registri e formulari.
La questione di fondo che si pone in tutte queste ipotesi è quella relativa al riparto dell’onere della prova. Occorre in particolare chiedersi: gli organi di controllo e di accusa, prima di procedere alla contestazione di un illecito, devono necessariamente verificare in via preventiva la sussistenza delle condizioni di favore ?.
La risposta al quesito riveste estrema importanza, poiché da essa dipende non soltanto l’impostazione investigativa ed accusatoria, ma, di riflesso, quella difensiva del soggetto sottoposto a controllo e, conseguentemente, l’intera organizzazione aziendale. E’ infatti evidente che dalla maggiore o minore ampiezza degli oneri probatori, dipende anche l’individuazione, in via preventiva, dei meccanismi di costruzione della prova da allegare in caso di intervento dell’autorità di controllo (documenti, certificati di analisi, individuazione dei responsabili tecnici).
In effetti l’art. 358 c.p.p. prevede che il pubblico ministero "svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini".
La Cassazione ( Sez. II, sent. n. 3415 del 17-09-1997) ha però affermato che la previsione “ non si traduce in un obbligo processualmente sanzionato e non toglie il carattere eminentemente discrezionale delle scelte investigative, anche per quanto riguarda i tempi di svolgimento dell'attività dell'organo dell'accusa”.
Non sussiste, quindi, per il pubblico ministero (e, quindi, per la polizia giudiziaria da lui diretta) alcun obbligo di ricerca delle prove relative alla sussistenza dei regimi di favore indicati. La stessa conclusione vale per quanto attiene al versante dei controlli amministrativi, atteso che l’art. 18 della L. n. 689/1981 in materia di accertamento degli illeciti, non contiene una previsione omologa all’art. 358 c.p.p.
Deve allora affermarsi il principio per cui chi invoca un regime differenziato e di favore ha l’onere di allegare la sussistenza di tutte le condizioni per la sua applicazione. Onere, che non può dirsi assolto con mere dichiarazioni soggettive dell'interessato, il quale, invece, deve fornire la prova piena delle ragioni per cui opera il regime differenziato invocato ( Cass. pen., Sez. III, sent. n. 4706 del 23-04-1994; si veda anche Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 22511 del 15/06/2005, che, in un’ipotesi in cui il materiale di demolizione era stato scaricato sul suolo con accumulo di detriti di scavo, misti a lastroni di cemento che venivano sottoposti ad operazioni di trasformazione preliminare - depezzamento e frantumazione - dall’addetto alla macchina operatrice, onde renderli utilizzabili per la realizzazione di un piano viabile destinato ai mezzi di cantiere, ha ritenuto che il materiale stesso fosse del tutto eterogeneo e non aveva caratteristiche tali da consentirne l’immediata riutilizzazione senza preventivo trattamento, venendo così in evidenza un’operazione idonea a creare un effettivo pericolo per l’ambiente, insuscettibile di essere ricondotta alla previsione derogativa introdotta dall’art. 14 D.L. n. 138 del 2002).
Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui in una determinata area sia rinvenuto un quantitativo di rifiuti accumulati. In assenza di specifiche e documentate deduzioni sulla natura di deposito temporaneo, legittima è la contestazione di discarica o comunque di smaltimento abusivi: il fatto, per come si presenta, integra tali illeciti e non è certamente onere di chi controlla (e contesta) di acquisire la c.d. prova negativa e cioè verificare se, pur in presenza di una situazione che corrisponde perfettamente alla fattispecie di reato, siano assenti le condizioni che fondano la sussistenza del regime di favore.
E’ noto che la questione dell’inquadramento sistematico del riutilizzo all’interno del binomio rifiuto-non rifiuto passa attraverso la verifica se si possa qualificare una sostanza come sottoprodotto, secondo la definizione dell’art. art. 183, lett. n) T.U.
Si è recentemente affermato[1]. che, per provare la natura di sottoprodotto, l’operatore deve fornire la prova di una serie di elementi e precisamente che il residuo produttivo:
1) proviene da attività di impresa (e dunque non di consumo);
2) scaturisce dall’attività produttiva in via continuativa (cioè come un materiale tipico di quella produzione);
3) non viene abbandonato dall’impresa (che dunque non se ne disfa);
4) lo reimpiega direttamente oppure lo commercializza a condizioni per lei economicamente favorevoli e
5) senza attività preliminare di trasformazione (che cioè “faccia perdere al prodotto la sua identità”);
6) viene effettivamente e certamente riutilizzato in altro ciclo produttivo (circostanza che deve essere attestata con dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo)
7) il suo utilizzo non comporta per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle legate alle normali attività produttive.
La mancanza di prova legittima la qualifica dei residui come rifiuti, con tutte le conseguenze sotto il profilo amministrativo e giudiziario.
A tale proposito va ricordato che, valorizzando il principio dell'interpretazione non restrittiva della nozione di rifiuto sancito più volte dalla Corte di Giustizia, in diverse occasioni la giurisprudenza aveva respinto le istanze difensive di applicazione dell’art. 14 D.L. 138/2002, non già sotto il profilo della incompatibilità con la normativa comunitaria, ma sotto quello della concreta non applicabilità al caso di specie.
In tale prospettiva G.I.P. Udine, ord. 16.10.2002, proc. n. 3075/02 R.G.N.R., inedita, affermava:
“ La carenza di riscontri in ordine alla natura, composizione e, conseguentemente, alla classificazione dei materiali oggetto di trattamento e, soprattutto, l’assenza di elementi dai quali inferire che gli stessi possano essere e siano effettivamente riutilizzati “senza recare pregiudizio all'ambiente” impedisce di poter applicare l’art. 14, comma 2, lett. re a) e b), D. L. n. 138/2002, conv. in L. n. 178/2002, conformemente a quanto stabilito dalla giurisprudenza formatasi sulla decretazione d’urgenza di modifica al D.P.R. 915/82 in materia di rifiuti che, nel creare la categoria dei residui e dei materiali quotati in borsa presupponeva implicitamente la necessità di una garanzia non puramente nominalistica del riutilizzo dei materiali nel senso che doveva documentarsi la effettiva e inequivoca destinazione al riutilizzo il quale non poteva essere supposto e teorico, nè ritenuto in re ipsa per il solo fatto del cenno al tipo di materiale nel sistema degli elenchi creati dalla decretazione d’ urgenza in questione (cfr. Cass. sez 3, ord. n. 6914 del 16.06.1995, ud. 3.06.1995, Di Pampero e altro, nello stesso senso v. ex plurimis Cass. sez. III, 09.02.1998, ud. 01.12.1997 - Pres. A. Giuliano - Rel. A. Franco, P.M. in proc. Nardino, per cui “In tema di smaltimento di rifiuti speciali, l’ applicazione della normativa di cui al d.l. n° 66 del 09.03.1995, ed agli altri decreti legge reiterati in materia ed i cui effetti sono stati fatti salvi dalla l. n° 575 del 1996, è subordinata al previo accertamento, nel caso concreto, che i materiali oggetto di raccolta e stoccaggio siano destinati all’ effettivo ed oggettivo riutilizzo”).
In carenza di prova certa in ordine a detta destinazione dei residui, devesi applicare il regime ordinario dell’autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti e, di conseguenza, le corrispondenti sanzioni.
Per quanto in particolare riguarda l’ipotesi di cui all’art. 14, comma 2, lett. b), L. n. 178, dell’ 08.08.2002, che sostanzialmente esclude dalla nozione di rifiuto i beni o sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo “se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo, in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22”, devesi innanzitutto precisare che queste ultime operazioni, come si desume dal dato testuale del preambolo di detto allegato e come stabilito dalla giurisprudenza comunitaria, non hanno carattere tassativo ma semplicemente esemplificativo.
Condizione essenziale affinchè possa operare l’esimente sopra indicata, oltre all’effettivo ed oggettivo riutilizzo di cui si è già accennato, è che il rifiuto subisca un trattamento preventivo al quale non deve seguire una delle operazioni di recupero di cui all’allegato C.
Sul punto va rilevato che, secondo l’id quod plerumque accidit e secondo un dato di comunissima esperienza, al trattamento preventivo del rifiuto segue un’attività di recupero proprio perché il primo è finalizzato a trarre ulteriori utilità dal rifiuto ovvero ha per scopo la sua valorizzazione altrimenti il materiale viene, per intuibili quanto ovvie ragioni di natura economica, eliminato in altro modo senza trattamento.
L’elenco e la tipologia delle operazioni di recupero è, comunque, così ampio ed anche per taluni aspetti generico che ben può ricomprendere finanche il riutilizzo tal quale (per gli scopi originari) del materiale dismesso dopo il trattamento “preventivo”.
Ne deriva, che le condizioni poste per l’operatività del regime derogatorio in esame appare ben difficile che possano presentarsi nella realtà (o, per meglio dire, appare difficile addirittura ipotizzarle come esempi teorici) proprio perché viene imposto come conditio sine qua non che il materiale, per non essere qualificato rifiuto, abbia subito un intervento “preventivo” al quale, necessariamente, non deve seguire un’operazione di recupero di quelle indicate nell’allegato C.
Nel caso de quo, va rilevato che dall’esame degli atti non emerge alcun riscontro idoneo a comprovare se c’è stato e di che tipo sia stato il trattamento “preventivo” subito dai rifiuti in sequestro, né tanto meno è dato conoscere se si sia resa, o si renda necessaria o meno, “alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del decreto legislativo n. 22” per cui, in carenza di tali elementi, anche sotto questo profilo la disposizione di interpretazione autentica non può trovare plausibile applicazione nella specie oggetto del presente procedimento, con la conseguenza che devesi ritenere operativo il regime ordinario sui rifiuti, ivi compresa la definizione di cui all’art. 6 lett. a) D. Lgs. n. 22/97, così come interpretata dalla giurisprudenza sopra richiamata”.
La S.C., nella stessa prospettiva, ha affermato:
“ Cass. pen., Sez. III, sent. n. 4702 del 09/02/2005: “I pneumatici usati dei quali il detentore si disfa o che vende a terzi perchè siano riutilizzati previa rigeneratura o ricopertura non rientrano nella deroga alla nozione di rifiuto di cui all'art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con legge 8 agosto 2002 n. 178, atteso che i pneumatici sono in questo caso destinati ad una operazione di recupero quale individuata dalla lettera R5 dell'Allegato C del decreto n. 22 del 1997, circostanza che esclude l'applicabilità della citata normativa”; Cass. pen., Sez. III, sent. n. 43946 del 11/11/2004, Muzzupappa (rv. 230478) : “ In tema di gestione dei rifiuti, la riutilizzazione come concime agricolo del cosiddetto "pastazzo" di agrumi, composto da buccia e polpa di agrumi residuati dalla loro lavorazione, non esclude lo stesso dal regime dei rifiuti, atteso che sotto il profilo oggettivo rientra tra i residui di produzione e sotto il profilo soggettivo la destinazione ad operazioni di smaltimento e di recupero rientra nell'ipotesi nella quale il detentore del rifiuto abbia deciso di disfarsi dello stesso, in quanto tra le operazioni di recupero indicate nell'Allegato C del D.Lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 è compresa quella di spandimento sul suolo a beneficio dell'agricoltura (R10) “.
Ed allora, a prescindere dalla questione se la nuova previsione normativa sia in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto (come affermato, in modo condivisibile, dalla prevalente dottrina), è certo che l’operatore per sostenere che oggetto della propria attività è un sottoprodotto e non un rifiuto, deve provare i seguenti elementi:
1) provenienza da un’attività di impresa (con esclusione della fase del mero consumo. Considerata la specificazione di cui al punto 2, che parla di derivazione del sottoprodotto dall’attività produttiva, nel termine impresa non devono ritenersi comprese le attività di servizio);
2) in via continuativa (questi primi due elementi richiedono, pertanto, la prova rigorosa della natura dell’attività svolta, delle caratteristiche del ciclo produttivo, della qualità e quantità delle materie prime impiegate e del risultato dell’attività produttiva. L’organo di controllo deve cioè poter distinguere i prodotti dalle altre sostanze che residuano dalla produzione, in modo che il risultato complessivo sia congruo);
3) destinazione del sottoprodotto (il requisito dell’omesso abbandono richiesto testualmente dalla norma, non potendosi ipotizzare una prova negativa diretta, va fornito in via indiziaria e deduttiva, attraverso al prova della gestione dei rifiuti aziendali – se ve ne sono – e del reimpiego del sottoprodotto, secondo le previsioni dei punti che seguono);
4) reimpiego diretto del sottoprodotto (la norma non precisa se il ciclo produttivo in cui avviene il reimpiego sia lo stesso, come consentito dalla Giurisprudenza della Corte di Giustizia, od altro, ipotesi ammessa dalla Corte in casi specifici[2], ma non in via generale. La prova deve, comunque, essere fornita non solo circa il reimpiego stesso, ma anche sul fatto che lo stesso sia diretto, cioè non avvenga per il tramite di altri cicli produttivi intermedi);
5) assenza di attività preliminare di trasformazione (la norma qualifica come attività di trasformazione quella che “faccia perdere al prodotto la sua identità”. Al fine di provare tale requisito, non potendosi ipotizzare una prova negativa diretta, occorre dare conto delle specifiche caratteristiche del sottoprodotto in uscita dal ciclo in cui si produce ed in entrata in quello in cui si reimpiega );
6) effettività e certezza del riutilizzo in altro ciclo produttivo [3] mediante dichiarazioni scritte delle imprese di partenza e di arrivo. Queste dichiarazioni non sono in sé sufficienti a provare la correttezza della gestione del sottoprodotto. E’ vero che in base ad esse, può presumersi l’effettività e certezza del riutilizzo, ma trattasi di presunzione semplice, che può essere superata dagli organi di controllo. Proprio per queste ragioni le dichiarazioni scritte devono essere coerenti con i requisiti complessivi richiesti (punti 1-5 che precedono), di cui non sono un surrogato, ma un supporto, nel senso che si aggiungono ad essi nel fornire una prova articolata e piena. Ed infatti si è recentemente affermato[4] che va esclusa la natura di “sottoprodotto” di fanghi provenienti dalla lavorazione di materiali lapidei allorquando manchi la certezza del requisito del riutilizzo del materiale che non può essere dimostrata dalle sole dichiarazioni testimoniali di dipendenti della società se non suffragate da riscontri oggettivi, quali l’annotazione nei registri di carico e scarico, la documentazione del trasporto presso i cantieri ove sarebbe avvenuto il riutilizzo ed in presenza di rilevi diretti della PG che documentino, in relazione all’altezza ed al grado di essiccazione dei cumuli una prolungata giacenza degli stessi sul luogo di deposito[5];
7) non nocività dell’utilizzo del sottoprodotto per l’ambiente. Viene richiesto che detto utilizzo non comporti per l’ambiente o la salute condizioni peggiorative rispetto a quelle legate alle normali attività produttive. Anche in questo caso, non potendosi ipotizzare una prova negativa diretta, la stessa va fornita in via indiziaria e deduttiva. Occorre, quindi provare quali sono gli effetti dell’utilizzo del sottoprodotto sull’ambiente e confrontarli con quelli che si producono in situazione analoghe qualora, invece del sottoprodotto, sia utilizzata una materia prima equivalente.
3. Altre situazioni problematiche
a. Il trasporto occasionale o saltuario
L’art. 193, 4° comma, esclude l’obbligo del formulario, tra l’altro, per i trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri.
Se il dato qualitativo della non pericolosità e quello quantitativo, sono di immediata comprensione, dubbi sorgono per il presupposto dell’esenzione e, cioè, per il requisito della natura occasionale e saltuaria del trasporto.
Soccorre, al riguardo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Con sentenza 9 giugno 2005, causa C‑270/03, la Corte ha così statuito:
“ la Repubblica italiana, permettendo alle imprese, in forza dell’art. 30, comma 4, del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, che ha trasposto le direttive 91/156/CEE, relativa ai rifiuti, 91/689/CEE, relativa ai rifiuti pericolosi, e 94/62/CE, sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio, come modificato dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1998, n. 426:
di esercitare la raccolta e il trasporto dei propri rifiuti non pericolosi come attività ordinaria e regolare senza obbligo di essere iscritte all’Albo nazionale delle imprese esercenti servizi di smaltimento rifiuti, e
di trasportare i propri rifiuti pericolosi in quantità che non eccedano i 30 chilogrammi e i 30 litri al giorno, senza obbligo di essere iscritte al medesimo Albo,
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi dell’art. 12 della direttiva del Consiglio 15 luglio 1975, 75/442/CEE, relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE”.
L’art. 12 della direttiva stabilisce: “Gli stabilimenti o le imprese che provvedono alla raccolta o al trasporto di rifiuti a titolo professionale, o che provvedono allo smaltimento o al ricupero di rifiuti per conto di terzi (commercianti o intermediari), devono essere iscritti presso le competenti autorità qualora non siano soggetti ad autorizzazione”. Nell’interpretare la norma, la Corte ha statuito che:
26. La locuzione «a titolo professionale», impiegata in tale articolo, non è sinonimo delle espressioni «nell’ambito delle loro attività professionali» o «nello svolgimento delle loro attività professionali», alle quali probabilmente il legislatore comunitario avrebbe fatto ricorso ove avesse inteso riferirsi a tutte le imprese che, nell’ambito della loro attività professionale, trasportino i rifiuti da esse prodotti.
27. Risulta, poi, dal dodicesimo ‘considerando’ della direttiva 91/156 che i nuovi obblighi di autorizzazione e d’iscrizione previsti da tale direttiva si applicano alle «imprese che si occupano di rifiuti, come gli operatori intermedi addetti alla raccolta, al trasporto e alla mediazione». L’uso del verbo «occuparsi» nonché l’elenco indicativo di professioni specializzate nel settore dei rifiuti indicano che l’art. 12 della direttiva si applica alle imprese che svolgono a titolo abituale la raccolta o il trasporto di rifiuti.
28. Infine, la previsione che il trasporto sia effettuato «a titolo professionale» significa che l’attività di trasporto di rifiuti, sebbene l’art. 12 non disponga che essa deve costituire l’attività esclusiva, e neppure principale, delle imprese di cui trattasi, deve rappresentare un’attività ordinaria e regolare di tali imprese.
29. Dalle considerazioni che precedono risulta che l’art. 12 della direttiva assoggetta a un obbligo d’iscrizione gli stabilimenti o le imprese che, nell’ambito delle loro attività, provvedono in via ordinaria e regolare al trasporto di rifiuti, a prescindere dal fatto che tali rifiuti siano prodotti da terzi o da esse stesse. Non risulta, peraltro, da alcuna disposizione della direttiva che tale obbligo ammetta deroghe fondate sulla natura o sulla quantità dei rifiuti.
In sostanza, secondo il Giudice comunitario, anche coloro che non esercitano l’attività di trasportatori di rifiuti, ma che nell’ambito della loro attività professionale trasportino quelli da essi prodotti, rientrano tra i soggetti obbligati alla tenuta del formulario.
Facendo applicazione di tale principio, deve concludersi che il concetto di trasporto occasionale e saltuario abbia natura del tutto residuale e sia limitato a situazioni che abbiano il connotato della non prevedibilità ed episodicità.
E’ onere di chi invoca l’esenzione dall’obbligo del formulario fornire la prova di tale situazione agli organi di controllo. A sua volta il titolare dell’impianto che riceve i rifiuti non può limitarsi ad accettarli, in assenza di formulario, sulla base delle mere dichiarazioni del trasportatore che li conferisce, dovendo verificare almeno la natura dell’attività svolta e la verosimiglianza della asserita occasionalità del trasporto. Al fine di evitare che il conferimento si ripeta (un soggetto potrebbe conferire più volte rifiuti in quantità complessivamente eccedenti i trenta lt/kg), il gestore dell’impianto dovrebbe controllare se, in passato, lo stesso soggetto abbia già fatto ricorso alla speciale esenzione.
b. Quando la sosta non è stoccaggio
Secondo l’art. 193, 12° comma, T.U. “La sosta durante il trasporto dei rifiuti caricati per la spedizione all'interno dei porti e degli scali ferroviari, delle stazioni di partenza, di smistamento e di arrivo, gli stazionamenti dei veicoli in configurazione di trasporto, nonché le soste tecniche per le operazioni di trasbordo non rientrano nelle attività di stoccaggio di cui all'articolo 183, comma 1, lettera 1), purché le stesse siano dettate da esigenze di trasporto e non superino le quarantotto ore, escludendo dal computo i giorni interdetti alla circolazione”.
Le due condizioni delle esigenze di trasporto e del limite massimo temporale devono verificarsi entrambe e non sono alternative. Ciò significa che non ogni sosta inferiore alle 48 ore va qualificata quale stoccaggio, dovendosi comunque accertare che la stessa è dipesa da esigenze di trasporto. Queste ultime, in applicazione del principio per cui chi invoca un regime differenziato e di favore ha l’onere di allegare la sussistenza di tutte le condizioni per la sua applicazione, vanno provate dal trasportatore che ha, quindi, deve provare le circostanze in base alle quali gli organi di controllo possano accertare che la sosta è effettivamente fondata sulle predette esigenze.
Vanno peraltro fatte due precisazioni.
La prima è che la sussistenza di entrambe le condizioni per escludere lo stoccaggio, non copre le attività illecite eventualmente compiute (ad esempio l’illecito abbandono di rifiuti) durante la sosta tecnica. Inoltre, se è vero che a fronte del superamento del detto limite temporale deve presumersi la sussistenza di uno stoccaggio, è comunque possibile fornire la prova che la sosta ha avuto una durata maggiore del consentito per ragioni di caso fortuito e forza maggiore.
c. La deroga alla definizione di luogo di produzione nelle attività di manutenzione
L’art. 183, lett. i) T.U., così definisce il luogo di produzione dei rifiuti: “uno o più edifici o stabilimenti o siti infrastrutturali collegati tra loro all'interno di un'area delimitata in cui si svolgono le attività di produzione dalle quali sono originati i rifiuti”.
L’art. 230 prevede, come è noto una deroga per i rifiuti derivanti da attività di manutenzione delle infrastrutture, in cui detto luogo può coincidere :
- con la sede del cantiere che gestisce l'attività manutentiva ;
- o con la sede locale del gestore della infrastruttura nelle cui competenze rientra il tratto di infrastruttura interessata dai lavori di manutenzione ;
- ovvero con il luogo di concentramento dove il materiale tolto d'opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica, finalizzata all'individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento.
Per quest’ultima ipotesi il comma 2) prevede che la valutazione tecnica del gestore della infrastruttura è eseguita non oltre sessanta giorni dalla data di ultimazione dei lavori. La documentazione relativa alla valutazione tecnica è conservata, unitamente ai registri di carico e scarico, per cinque anni.
Per usufruire di questa facoltà di scelta (da cui derivano differenti modulazioni degli obblighi gestionali, come quello di tenuta dei registri) l’interessato deve provare che i rifiuti derivano dall’attività di manutenzione dell’infrastruttura a rete e/o degli impianti per l'erogazione di forniture e servizi di interesse pubblico. Per i rifiuti diversi valgono i principi generali.
Per l’ipotesi di individuazione del luogo di produzione in quello di concentramento dove il materiale tolto d'opera viene trasportato per la successiva valutazione tecnica, l’onere della prova deve riguardare anche la necessità e/o opportunità di una valutazione tecnica finalizzata all'individuazione del materiale effettivamente, direttamente ed oggettivamente riutilizzabile, senza essere sottoposto ad alcun trattamento. Laddove risulti che il materiale prodotto sia, all’evidenza, fin da quando viene tolto d'opera, non utilizzabile, la norma non è invocabile, in quanto, quale eccezione a regole generali è di stretta interpretazione e non può essere applicata in modo elusivo.
[1] Tribunale di Venezia - Sez. dist. Dolo Ord. 20 settembre 2006, causa n. 20013/05 R.G., Melinato ed altro con cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 183 lett. n) quarto periodo D.L.vo 152/2006 nella parte in cui prevede che le ceneri di pirite rientrano tra i sottoprodotti non soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del citato decreto legislativo.
[2] Aperture alla possibilità di individuare un sottoprodotto anche nel caso di commercializzazione presso terzi, si rinvengono:
- 1) nell’ordinanza della Sez. III del 15 gennaio 2004, causa C-235/02, con cui la Corte ha affermato che “il coke da petrolio prodotto volontariamente, o risultante dalla produzione simultanea di altre sostanze combustibili petrolifere, in una raffineria di petrolio ed utilizzato con certezza come combustibile per il fabbisogno di energia della raffineria e di altre industrie non costituisce un rifiuto";
2) nelle due sentenze della Sez. III, sent. 8 settembre 2005, causa C-416/02 e causa C-121/03, relative al mancato recepimento da parte del Regno di Spagna di alcune direttive comunitarie, in cui si afferma che “ non occorre limitare quest’analisi agli effluenti d’allevamento utilizzati come fertilizzanti sui terreni che appartengono allo stesso stabilimento agricolo che li ha prodotti. Infatti, come la Corte ha già giudicato, una sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 75/442 se viene utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l’ha prodotta“.
[3] Come ricordato in precedenza l’esclusione della nozione di rifiuto quando il riutilizzo avvenga in altro ciclo produttivo è contestata dalla prevalente dottrina ed è stata ammessa dalla Corte di Giustizia solo con riferimento a situazioni particolari. In senso contrario si veda Cass. pen., Sez. III, sent. n. 47269 del 29/12/2005 (C.c. 4/11/2005), Zuffellato, in cui si precisa che i residui di consumo, non possono essere considerati «sottoprodotti» di un processo di fabbricazione o di estrazione idonei ad essere riutilizzati nel corso del processo produttivo, nel caso in cui essi siano utilizzati in altro procedimento produttivo e devono considerarsi rifiuti finché non costituiscano prodotti finiti del processo di trasformazione cui sono destinati.
[4] Cass. Sez. III, sent. n. 35219 del 20/10/2006 (c.c. 6 lug. 2006) Giannecchini.
[5] A conferma di quanto affermato in relazione al punto n. 3, sul fatto che l’organo di controllo deve poter distinguere i prodotti dalle altre sostanze che residuano dalla produzione, in modo che il risultato complessivo sia congruo, la stessa sentenza precisa che la produzione di fatture in numero modesto e rappresentante una movimentazione ridotta del materiale accumulato non assume rilevanza probatoria circa la effettiva utilizzazione del materiale medesimo.