Cass. Sez. III n. 18891 del 3 maggio 2018 (Ud 22 nov 2017)
Presidente: Di Nicola Estensore: Aceto Imputato: Battistella
Rifiuti.Inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione
L’art. 256, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006 è norma penale in bianco il cui contenuto è delimitato dalle prescrizioni delle autorizzazioni in relazione alla finalità delle stesse e rappresenta un esempio della cosiddetta amministrativazione del diritto penale, cioè dell'apprestamento di una sanzione penale per la violazione di disposizioni e precetti o prescrizioni amministrative di particolare rilevanza. Si tratta di un reato di pericolo che si verifica con la semplice inosservanza di una prescrizione prevista nell'autorizzazione, sia che la prescrizione discenda da previsioni legislative recepite nell'autorizzazione, che da prescrizioni integrative inserite dall'autorità amministrativa indipendentemente da una previsione di legge
RITENUTO IN FATTO
1. Il sig. Alberto Battistella ricorre per l’annullamento della sentenza del 17/03/2017 del Tribunale di Treviso che lo ha assolto dal reato di cui agli artt. 208 e 256, commi 1, lett. a), e 4, d.lgs. n, 152 del 2006 con la formula <<perché non punibile ai sensi dell’art. 131-bis, cod. pen.>>.
1.1. Premesso il proprio interesse a ricorrere, con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’inosservanza o comunque l’erronea applicazione dell’art. 256, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006, in relazione agli artt. 6, 7 e 8 dell’autorizzazione n. 762/2012 rilasciata dalla Provincia di Treviso per la gestione dell’impianto di recupero dei rifiuti speciali.
Deduce che il quantitativo istantaneo massimo stoccabile di cui all’art. 8, lett. a), dell’autorizzazione fa riferimento esclusivo ai rifiuti non ancora sottoposti a trattamento di recupero, con esclusione pertanto di quelli già trattati ma non ancora sottoposti a test di prestazione, come il pietrisco rinvenuto in sede di accertamento e che era già stato analizzato, con esito positivo, con la metodica del test di cessione previsto dal DM 05/02/1998. In buona sostanza, l’art. 8 dell’autorizzazione fa riferimento esclusivo ai rifiuti in ingresso, non a quelli esitati dopo il trattamento di recupero. Gli artt. 6 e 7 dell’autorizzazione, a loro volta, non prevedevano il termine entro il quale effettuare il test di prestazione che, rispondendo a esigenze commerciali, deve necessariamente seguire quello di cessione in un tempo congruo, avuto riguardo alla quantità di prodotto, alla disponibilità del laboratorio di campionamento e analisi. Peraltro, anche se solo dopo il sopralluogo, il “pietrisco” aveva dimostrato di rispettare i requisiti per la cessazione della qualifica di rifiuto. Ne consegue che il pietrisco rinvenuto non poteva essere considerato rifiuto e non poteva essere computato ai fini del quantitativo istantaneo massimo staccabile.
1.2. Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. c) ed e), cod. proc. pen., la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento psicologico del reato che poteva essere escluso proprio in ragione della natura meramente formale della violazione. L’argomento non è stato nemmeno accennato nella sentenza impugnata benché, come già detto in sede di illustrazione del primo motivo, il “pietrisco” rispettasse i requisiti per non essere considerato rifiuto e l’art. 7 non prescrivesse temi stringenti per l’esecuzione del test di prestazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
2. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito indicate.
3. L’imputato risponde del reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), e comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006 perché, nella sua qualità di legale rappresentante della società <<R.E.M. S.r.l.>>, deteneva, presso lo stabilimento di Motta di Livenza, quantitativi di rifiuti speciali non pericolosi (pietrisco 0-30; pietrisco 0-40; pietrisco 60) in misura superiore alla quantità di giacenza istantanea autorizzata dall’art. 8, lett. a), DPP n. 762/2012, modificato dal DPP 196/2013 del 25/03/2013, che prevedeva come quantitativo massimo istantaneo stoccabile di rifiuti la quantità di 1866 tonnellate. Il fatto è contestato come commesso in Motta di Livenza l’11/11/2014.
3.1. Dalla lettura della sentenza impugnata risulta che:
3.1.1. l’11/11/2014 risultavano stoccati presso lo stabilimento di Motta di Livenza della <<REM S.r.l.>> quantità di pietrisco superiori a quella istantanea consentita dall’art. 8 dell’autorizzazione provinciale rilasciata alla società;
3.1.2. su tale materiale era stato effettuato il cd. “test di cessione”, ma non quello “prestazionale”, necessario, ai sensi degli art. 6 e 7 dell’autorizzazione, per far perdere al materiale la qualità di rifiuto;
3.1.3. il “test prestazionale” fu eseguito, con esito positivo, solo il 15/01/2015.
3.2. Sulla base di tali considerazioni il Tribunale ha disatteso la tesi difensiva secondo la quale il pietrisco costituiva materiale già lavorato e non rifiuto in stoccaggio. Considerata l’occasionalità della condotta e l’esiguità del pericolo che ne è derivato, il Tribunale ha applicato la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen..
4. Tanto premesso, la Corte osserva quanto segue:
4.1. sussiste indubbiamente l’interesse dell’imputato a impugnare la sentenza che esclude la punibilità del reato ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., trattandosi di pronuncia che ha comunque efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651-bis cod. proc. pen.), che è soggetta ad iscrizione nel casellario giudiziale (art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002) e che può ostare alla futura applicazione della medesima causa di non punibilità ai sensi dell’art. 132-bis, comma terzo, cod. pen. (in termini, Sez. 4, n. 25539 del 18/10/2016, dep. 2017, Andrei, Rv. 270090; Sez. 2, n. 12305 del 15/03/2016, Panariello, Rv. 266493; si veda altresì Sez. 3, n. 35277 del 25/02/2016, Attinese, Rv. 267740 e la giurisprudenza, anche costituzionale, in essa richiamata);
4.2. l’art. 256, comma 4, d.lgs. n. 152 del 2006 è norma penale in bianco il cui contenuto è delimitato dalle prescrizioni delle autorizzazioni in relazione alla finalità delle stesse e rappresenta un esempio della cosiddetta amministrativazione del diritto penale, cioè dell'apprestamento di una sanzione penale per la violazione di disposizioni e precetti o prescrizioni amministrative di particolare rilevanza. Si tratta, secondo l'orientamento di questa sezione, di un reato di pericolo che si verifica con la semplice inosservanza di una prescrizione prevista nell'autorizzazione, sia che la prescrizione discenda da previsioni legislative recepite nell'autorizzazione, che da prescrizioni integrative inserite dall'autorità amministrativa indipendentemente da una previsione di legge (Sez. 3, n. 23481 del 20/02/2014, Osellame, n.m.; Sez. 3, n. 20277 del 27/03/2008, Filippi, n.m.; Sez. 3, n. 19211 del 27/03/2008, Marrucci, n.m.);
4.3. ne consegue che l’autorizzazione amministrativa integra il precetto penale e la sua inosservanza o erronea interpretazione da parte del giudice costituisce valido motivo di ricorso ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen.
5. Il primo motivo è manifestamente infondato.
1.1. La società <<R.E.M. S.r.l.>> è stata autorizzata all’esercizio dell’attività di recupero di rifiuti speciali non pericolosi.
5.1. L’art. 8 dell’autorizzazione fissa i quantitativi massimi di rifiuti ammessi nell’impianto, distinguendoli tra quantitativo istantaneo, quantitativo annuale e quantitativo giornaliero.
5.2. L’art. 6 prevede che <<i prodotti dell’attività di recupero, per cessare la qualità di rifiuto devono rispondere alle condizioni definite dal comma 1 dell’art. 184-ter, d.lgs. n. 152/2006, da quanto stabilito dalla disciplina comunitaria e, nelle more dell’adozione dei decreti di cui al comma 2 dell’art. 184-ter, d.lgs. n. 152/2006, alle specifiche dettate dal D.M. 5/2/1998. Le verifiche tecniche sul materiale che cessa di essere rifiuto devono essere eseguite dalla Ditta per lotto (…) e tenute a disposizione dell’autorità di controllo per un periodo di cinque anni>>. Il successivo art. 7 dispone che <<ai fini del rispetto di quanto previsto dall’art. 6, i materiali ottenuti dall’attività di recupero cessano la qualifica di rifiuto solo se hanno eluato conforme a quanto previsto dall’allegato 3 del D.M. 5/02/1998 e, a seconda dell’utilizzo, rispondono alle seguenti specifiche (…) Per tutto il materiale che ha cessato la qualifica di rifiuto, le verifiche devono essere effettuate secondo le frequenze indicate ai paragrafi 14.3, 14.4 e 14.5 dell’Allegato A alla DGRV n. 1773/2012. I materiali ottenuto dalla lavorazione che non rispettino i requisiti di cui sopra devono essere considerati rifiuti e come tali gestiti>>.
5.3. La tesi difensiva secondo cui, ai fini della determinazione del quantitativo istantaneo massimo di cui all’art. 8 non si deve tenere conto dei materiali esitati dopo il trattamento di recupero, ancorché privi dei requisiti previsti dall’art. 7 e/o per i quali non sia stato effettuato, come nel caso di specie, alcun accertamento in tal senso, è manifestamente infondata. Tale tesi si fonda sul fatto che l’art. 8 fa riferimento ai quantitativi massimi stoccabili e, dunque, ai soli rifiuti messi in riserva ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 183, comma 1, lett. aa), d.lgs. n. 152 del 2006 e alla lettera R13 dell’allegato C alla parte IV del decreto stesso.
5.4. Osserva il Collegio che tale interpretazione non considera che i rifiuti esitati dall’attività di trattamento che non hanno ancora cessato di essere tali continuano ad essere assoggettati alla disciplina in materia di gestione dei rifiuti (art. 184-ter, u.c., d.lgs. n. 152 del 2006) per cui concorrono alla determinazione della quantità massima di rifiuti legittimamente stoccabili presso l’impianto di recupero. Diversamente ragionando, si consentirebbe di fatto l’incontrollato ed indiscriminato allargamento delle quantità massime di rifiuti che possono essere gestite dagli impianti di trattamento ai sensi degli artt. 6 e 7, d.m. 5 febbraio 1998. L’art. 6, comma 3, d.m. cit., prescrive che la quantità massima di rifiuti non pericolosi sottoposti ad operazioni di messa in riserva presso l’impianto di recupero deve coincidere con la quantità massima recuperabile per l’attività di recupero svolta nell’impianto stesso. L’art. 7, commi 1 e 2, a sua volta, fa riferimento alla quantità massima impiegabile di rifiuti non pericolosi che non deve mai eccedere la capacità dell’impianto. Dunque, ai fini della determinazione delle quantità di rifiuti stoccabili, si deve tener conto della capacità complessiva dell’impianto non solo dei rifiuti materialmente messi in riserva. Del resto, quando l’autorizzazione rilasciata alla ricorrente ha voluto distinguere i rifiuti in ingresso da quelli stoccabili, lo ha fatto espressamente (artt. 3 e 4 che disciplinano la caratterizzazione del rifiuto in ingresso e la gestione di quello rinvenuto non conforme). Ne consegue che, ai fini dell’accertamento del rispetto delle quantità massime stoccabili si deve tener conto dei rifiuti che, ancorché soggetti a procedura di recupero, non hanno ancora cessato tale qualifica.
5.5. Il fatto che gli accertamenti di cui all’art. 7 dell’autorizzazione siano stati effettuati con esito positivo il 15/01/2015 non muta i termini del problema. E’ vero che la norma in questione non indica il termine entro il quale devono essere effettuati gli accertamenti in essa prescritti, i quali devono comunque essere compiuti in tempi ragionevolmente ristretti, ma è altrettanto vero che nel caso in esame il fatto risale all’11 novembre 2014 e l’accertamento sulla cessazione della qualità di rifiuto, effettuato solo dopo che gli organi accertatori ne avevano rilevato la mancanza, è di due mesi successivo a tale data. Dunque, alla data dell’11/11/2014 il pietrisco non aveva cessato di essere rifiuto; l’accertamento della cessazione della qualità ha efficacia costitutiva e non dichiarativa, sicché essa opera ‘ex nunc’ e non ‘ex tunc’, stante il chiaro tenore letterale dell’art. 184-ter, u.c., d.lgs. n. 152 del 2006.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
6.1. Il ricorrente eccepisce il vizio di omessa motivazione della sentenza in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato e deduce, a sostegno, che il pietrisco possedeva i requisiti per non essere qualificato come rifiuto ai sensi dell’art 184-ter, d.lgs. n. 152 del 2006, tant’è vero, aggiunge, che anche per questo motivo il Tribunale ha applicato la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. Deduce, altresì, la sostanziale poca chiarezza del precetto.
6.2. Sennonché, come visto, l’elemento soggettivo, che nel caso di specie è integrato anche dalla colpa, deve sussistere al momento dell’accertamento del reato, allorquando, cioè, il materiale doveva ancora essere considerato rifiuto ai sensi dell’art. 184-ter, u.c., d.lgs. n. 152 del 2006. Non coglie pertanto nel segno la tesi difensiva che posticipa l’accertamento dell’elemento soggettivo ad un momento successivo alla consumazione del reato.
6.3. Quanto, invece, alla pretesa poca chiarezza del precetto e alla (genericamente) dedotta fede, è sufficiente osservare che, trattandosi di norma penale in bianco, l’errore sulle prescrizioni dell’autorizzazione costituisce errore sul precetto e non sul fatto con conseguente inescusabilità al di fuori dell’ignoranza inevitabile, nella specie insussistente (in senso conforme, anche se con riferimento a fattispecie diverse, cfr. Sez. 6, n. 47028 del 10/11/2009, Trombetta, Rv. 245305; Sez. 6, n. 1632 del 06/12/1996, Manzi, Rv. 245305; Sez. 3, n. 3373 del 21/04/1975, Trillini, Rv. 132797; Sez. 1, n. 1487 del 10/11/1972, Rv. 123262). Questa Corte, a seguito della sentenza 23 marzo 1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale è scusabile se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, ha stabilito i limiti di tale inevitabilità affermando che: a) per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia; b) tale obbligo è invece particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis" nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885; più recentemente, Sez. 3, n 35314 del 20/05/2016, Oggero, Rv. 268000).
6.4. Poiché la conoscenza del precetto violato è presunta per legge, è onere di chi sostiene il contrario eccepirne l’ignoranza inevitabile, a meno che non risultino elementi che lascino ragionevolmente ritenere il contrario. Nel caso di specie ciò non risulta (il Tribunale dà atto della chiarezza delle prescrizioni violate), né il ricorrente lo deduce. Ma anche a voler astrattamente ritenere l’oscurità del precetto, il ricorrente non deduce nemmeno di aver assunto iniziative presso la pubblica amministrazione per farsene chiarire il senso, né che la violazione sia stata ispirata da suggerimenti o comportamenti concludenti dei pubblici ufficiali.
7. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 29/11/2017.