Cass. Sez. III n. 10732 del 13 marzo 2015 (Ud 10 feb 2015)
Pres. Fiale Est. Graziosi Ric. Calaon
Rifiuti.Inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione reato di mera condotta
Il reato di cui all'art. 256, comma 4 d.lgs. 152\06 è reato formale di pericolo. Si tratta di reato di mera condotta, rispetto alla cui configurazione non assume rilievo l'idoneità della condotta a recare concreto pregiudizio, il bene protetto dalla relativa norma dovendosi ritenere quello strumentale al controllo amministrativo
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30 settembre 2013 il Tribunale di Padova ha condannato C.A. alla pena di Euro 1500 di ammenda per il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a), e comma 4, perchè, nella qualità di legale rappresentante di Riviera Beton Srl, non rispettava le condizioni dell'iscrizione nel registro delle imprese che effettuano attività di recupero e/o autosmaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi, superando il limite massimo di 55 tonnellate di rifiuti di cui al codice CER 10 01 02 (ceneri dalla combustione di carbone e lignite) stoccabili nell'impianto prima del trattamento e stoccandone nell'anno 2009 un quantitativo di 75,07 tonnellate.
2. Ha presentato appello, convertito in ricorso, il difensore, sulla base di due motivi: il primo motivo denuncia violazione della normativa applicata e in subordine assoluta carenza di motivazione;
il secondo, in via ulteriore gradata, propone questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a), e comma 4, in relazione all'art. 25 Cost. e art. 27 Cost., comma 3 per violazione del principio di offensività.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è manifestamente infondato.
I due motivi sono argomentati congiuntamente dal ricorrente, il quale lamenta che "il Tribunale non ha data interpretazione logica delle pur chiare emergenze dibattimentali" limitandosi a verificare la sussistenza del reato dal punto di vista formale, che è indiscussa, senza però verificare la "idoneità della violazione commessa a porre in pericolo il bene tutelato". Sarebbe stato perciò violato il principio della offensività, riconducibile, come insegna la giurisprudenza anche di legittimità, all'art. 25 Cost. comma 2. Per questo il giudice di merito sarebbe incorso in carenza motivazionale e comunque, se si condividesse la giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. 3, n. 6256/2011) sul reato contestato richiamata dal Tribunale, la norma penale sarebbe esposta "a sicura incostituzionalità per violazione dei parametri" di cui agli artt. 25 e 27 Cost. così come evidenziati da S.U. n. 40354/2013. In conclusione, il ricorrente chiede ex art. 49 c.p. l'assoluzione perchè il fatto non sussiste.
Come emerge dalla sintesi appena esposta del contenuto del ricorso, questo si impernia unicamente sulla pretesa mancanza di offensività della condotta dell'imputato, la cui effettuazione come contestata non discute. Il giudice di merito motiva al riguardo, segnalando che, pur essendo pacifico il superamento della soglia autorizzata, il consulente tecnico della difesa nella sua relazione affermava che la violazione compiuta dall'imputato "non ha messo in alcun modo in pericolo l'ambiente in quanto i silos a disposizione della ditta avrebbero potuto stoccare una quantità ben superiore a quella per la quale era stata richiesta l'autorizzazione, e superiore anche a quella effettivamente rilevata dagli atti, avendo una capacità massima di 90 tonnellate", a ciò aggiungendo che i silos "si trovavano in bacini di contenimento e all'interno di un capannone e le ceneri venivano caricate e scaricate senza dispersione nell'aria", non generando così alcun concreto pericolo di danno per l'ambiente.
Di ciò dato atto, il Tribunale rileva che il reato contestato è un reato formale, che non esige un concreto danno all'ambiente, essendo in questo caso tutelato il bene rappresentato dalla "possibilità per la pubblica amministrazione di esercitare la propria funzione di controllo"; e al riguardo richiama recente giurisprudenza di questa Sezione della Suprema Corte.
La lettura nomofilattica del reato in questione, in effetti, è ben consolidata nel qualificarlo come reato di mera condotta, e dunque reato formale di pericolo: Cass. sez. 3, 14 marzo 2007 n. 15560, citata anche dal giudice di merito, gli attribuisce appunto la "struttura di reato di mera condotta, rispetto alla cui configurazione non assume rilievo l'idoneità della condotta a recare concreto pregiudizio, il bene protetto dalla relativa norma dovendosi ritenere quello strumentale al controllo amministrativo" (conforme Cass. sez. 3, 21 maggio 2008 n. 20277); e dunque la successiva - anch'essa citata dal Tribunale - Cass. sez. 3, 2 febbraio 2011 n. 6256 insegna che si è dinanzi a un "reato formale di pericolo per la configurabilità del quale è sufficiente lo svolgimento di una delle attività soggette a titolo abilitativo senza osservarne le prescrizioni, e non essendo richiesto che la condotta sia anche idonea a configurare una situazione di concreto pregiudizio per il bene giuridico protetto"; pertanto è stato affermato (Cass. sez. 3, 27 settembre 2007 n. 35621; e v. pure Cass. sez. 3, 8 ottobre 2003 n. 38186) che lo scopo del reato in esame è la difesa anticipata del bene giuridico protetto.
In effetti, il bene giuridico protetto è realmente coinvolto, poichè nei reati di pericolo il contenuto offensivo, espresso dalla stessa struttura della norma (così, sempre a proposito del reato in esame, Cass. sez. 3, 12 ottobre 2004 n. 39861), retrocede dalle conseguenze della condotta all'attuazione della condotta stessa (cfr.
per la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, la significativa Cass. sez. 3, 17 gennaio 2012 n. 19439 - richiamata nello stesso ricorso - che lo qualifica reato di pericolo "per cui la valutazione dell'offesa al bene giuridico protetto va retrocessa al momento della condotta secondo un giudizio prognostico ex ante, essendo irrilevante l'assenza in concreto, successivamente riscontrata, di qualsivoglia lesione"). La lesione, quindi, vale a dire la realizzazione dell'offensività della fattispecie criminosa è integrata, a ben guardare, dalla condotta stessa, che ontologicamente è di per sè idonea a pregiudicare il bene giuridico protetto; il centro ermeneutico è, invero, l'identificazione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie penale, che, nel caso in esame, come già sostanzialmente riconosciuto nella giurisprudenza richiamata anche dal Tribunale, è la funzione di controllo della pubblica amministrazione esercitata attraverso i titoli abilitativi.
E' del tutto evidente, infatti, che se il soggetto che riceve un titolo abilitativo lo trasgredisce perchè le caratteristiche materiali della sua attività avrebbero potuto giustificare un titolo abilitativo di contenuto diverso (come prospetta, in sostanza, il ricorrente sulla scorta di quanto affermato dal suo consulente e riportato - si è visto - nella motivazione dell'impugnata sentenza), la funzione di controllo delle attività recanti effetti esterni sull'ambiente e sulla collettività a esso connessa viene comunque pregiudicata, poichè viene svuotato l'effetto giuridico del titolo abilitativo dalla condotta, non solo contra legem, ma anche asociale - nel senso di non incline a rispettare i meccanismi di gestione collettiva delle varie attività -, che consiste in una disapplicazione "autonoma" del titolo abilitativo stesso. Nessun profilo, quindi, di illegittimità costituzionale è ravvisabile nella normativa che tutela da condotte nei suoi confronti comunque pregne di offensività l'attività di controllo della pubblica amministrazione di quanto incide sulla vita consociata; e del tutto inconferente, infine, per quanto si è appena osservato, è l'arresto delle Sezioni Unite invocato dal ricorrente per sostenere la sua manifestamente infondata eccezione di costituzionalità (S.U. 18 luglio 2013 n. 40354, che riguarda il reato di furto).
Risultando in conclusione accertato che sussiste offensività nella condotta di chi non si attiene ai limiti autorizzativi e che non è riscontrabile alcuna frizione della fattispecie penale contestata con i principi costituzionali invocati dal ricorrente, il ricorso deve dichiararsi inammissibile - il che impedisce la formazione di un valido rapporto processuale di impugnazione ad ogni effetto (in particolare, la presenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. non è valutabile qualora non sia stato instaurato validamente un ulteriore grado di cognizione, come insegna la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte (S.U. 22 novembre 2000 n. 32, De Luca; quindi, l'estinzione del reato per prescrizione è rilevabile anche d'ufficio a condizione che il ricorso sia idoneo a introdurre un nuovo grado di giudizio, cioè non risulti affetto da inammissibilità originaria come invece si è verificato nel caso de quo: ex multis v. pure S.U. 11 novembre 1994-11 febbraio 1995 n.21, Cresci; S.U. 3 novembre 1998 n. 11493, Verga; S.U. 22 giugno 2005 n. 23428, Bracale; Cass. sez. 3, 10 novembre 2009 n. 42839, Imperato Franca), con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale emessa in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2015.