Cass. Sez. III n. 25193 del 23 giugno 2011 (Ud. 31 mar. 2011)
Pres. Gentile Est. Franco Ric. Locatelli
Rifiuti. Fanghi
I fanghi sono soggetti alla disciplina sui rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività estrattiva e dalle connesse attività di cernita e di pulizia, bensì derivano da una successiva e differente attività di lavorazione dei materiali (estratti, selezionati e puliti), e cioè quando può affermarsi che tale successiva attività è ontologicamente estranea al ciclo produttivo dello sfruttamento della cava. In altre parole, solo quando si dia luogo ad una successiva, nuova e diversa attività di lavorazione sui prodotti della cava, i residui e gli inerti di questa nuova attività, sganciata da quella di cava, devono considerarsi rifiuti, sottoposti alla disciplina generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli ill.mi Sigg.:
1. Dott. Mario Gentile Presidente
2. Dott. Amedeo Franco (est.) Consigliere
3. Dott.ssa Guida I. Mulliri Consigliere
4. Dott. Giulio Sarno Consigliere
5. Dott. Luca Ramacci Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
- sul ricorso proposto da Locatelli Basilio, nato a Suisio l'1.1.3.1944;
- avverso la sentenza emessa il 27 gennaio 2010 al giudice del tribunale di Bergamo;
- udita nella pubblica udienza del 31 marzo 2011 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
- udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Tindari Baglione, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
- udito per l'imputato il difensore avv. Mauro Angarano, in sostituzione dell'avv. Claudia Zilioli;
- udito per le parti civili persone fisiche l'avv. Fulvio Vitali;
Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe il tribunale di Bergamo dichiarò Locatelli Basilio colpevole dei reati di cui: a) all'art. 256, commi 1, lett. a) e 2, del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, per avere, quale amministratore della Cava Castello srl, effettuato attività di raccolta e smaltimento di rifiuti senza autorizzazione, e segnatamente di limi derivanti dal lavaggio di materiali inerti provenienti da scavi che venivano raccolti in una vasca di decantazione; nonché effettuato il deposito incontrollato di rifiuti, segnatamente attrezzatura di cava dimessa, tra cui nastri trasportatori, ponteggi, una carcassa di autocarro, onduline in fibrocemento; b) all'art. 137, comma 1, lett. b), d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, per avere effettuato scarichi di acque reflue industriali senza autorizzazione, scaricando sul suolo acque defluenti dall'impianto di lavaggio materiali inerti provenienti da scavi; c) all'art. 279, comma 1, lett. h), d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, per avere esercitato un impianto per la frantumazione e vagliatura di materiali inerti da scavo, in assenza delle prescritte autorizzazioni per le emissioni in atmosfera dei macchinari costituenti l'impianto, condannandolo alla pena di € 10.000,00 di ammenda, oltre alla condanna generica al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
L'imputato propone ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza nonché avverso l'ordinanza del 19.6.2009 deducendo:
1) violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento al rigetto della richiesta dell'imputato di essere ammesso alla oblazione ex art. 162 bis cod. pen., sotto quattro profili:
a) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta gravità del fatto, desunta dalla astratta risarcibilità dei danni lamentati dalle persone offese e dalla prospettazione accusatoria. Osserva che il giudice deve motivare sulla gravità del fatto in concreto e che la sentenza impugnata ha ritenuto una situazione di pericolo ambientale che non trova riscontro né nella natura meramente formale dei reati contestati né nella documentazione contenuta nel fascicolo del pubblico ministero. Del resto, l'asserito grave pregiudizio del bene ambiente contrasta con la natura di rifiuti non pericolosi di cui si contesta il trattamento in assenza di autorizzazione, e si risolve in una formula di stile.
b) violazione dei parametri di cui ad entrambi i commi dell'art. 133 cod_ pen. ai quali correlare l'apprezzamento relativo alla gravità del fatto, mentre il giudice a quo ha fatto riferimento ad una astratta risarcibilità del datino, ossia ad un parametro non indicato dalla legge ed ha trascurato elementi quali lo stato di incensuratezza, la natura formale delle contestazioni, la condotta successiva all'accertamento, ed in specie l'aver ottenuto le autorizzazioni e l'avere volontariamente effettuato interventi di bonifica.
c) violazione dell'art. 162 bis, comma 4, cod. pen. per manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine al rigetto della richiesta di oblazione, in quanto in contrasto con l'applicazione della sola pena pecuniaria, prevista in via alternativa a quella detentiva;
d) violazione dell'art. 162 bis, comma 3, cod. pen. per mancanza o manifesta illogicità della motivazione circa la permanenza di condizioni ostative alla concessione del beneficio e delle conseguenze dannose dei reati. Lamenta che il giudice ha fatto derivare la permanenza delle conseguenze dannose dei reati dalla astratta risarcibilità del danno. La motivazione è apparente ed illogica, e confonde le cause con gli effetti, fondandosi sulla astratta risarcibilità del danno prospettato dalle persone offese per escludere che sia avvenuta l'eliminazione delle conseguenze dannose del reato. L'accertamento di tale eliminazione è del tutto mancato ed il tribunale ha anche omesso di esaminare la documentazione depositata. Del resto il sito, già sequestrato, era stato restituito dalla autorità giudiziaria ed erano state completate le imposte operazioni di bonifica. Inoltre, l'attività era cessata.
2) travisamento del fatto e violazione di legge in ordine al reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, in particolare per quanto riguarda i limi, che non possono essere qualificati come rifiuti. Osserva che nella specie i limi erano generati dalla sedimentazione delle acque di lavaggio dell'inerte, e quindi all'interno del ciclo produttivo, sicché non potevano considerarsi rifiuti.
3) violazione dell'art. 62 bis cod. pen., travisamento del fatto e mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Lamenta che le attenuanti generiche sono state escluse solo in considerazione di una condanna in primo grado risalente al 1992 per un reato dichiarato prescritto in appello, senza prendere in considerazione il fatto che egli aveva volontariamente iniziato e concluso una procedura di bonifica.
4) violazione di legge in ordine alla ammissione della costituzione di parte civile dell'associazione ambientalista WWF e di privati, ed in particolare:
a) carenza di legittimazione per violazione degli artt. 74 cod. proc. pen_, 185 cod. pen., 317, comma 1 , 309, commi 1 e 2, lett. d), d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Osserva che in forza dell'art. 311 del codice dell'ambiente la legittimazione a costituirsi parte civile per chiedere il risarcimento del danno ambientale spetta ora esclusivamente allo Stato, e precisamente al ministero dell'ambiente, per mezzo della Avvocatura dello Stato. In ogni modo non esiste alcun danno ambientale e non è stata nemmeno indicata quale alterazione, deterioramento o distruzione dell'ambiente si siano nella specie verificati. Nemmeno è spiegato quale collegamento vi sia tra i danni lamentati dai privati e l'attività svolta in assenza di autorizzazione.
b) violazione dell'art. 539, comma 1, cod. proc. pen. nella liquidazione del danno. Lamenta che mancava qualsiasi prova di ulteriore compromissione dell'ambiente, oltre a quella già esistente, causata per effetto della specifica attività contestata che non riguarda alcun concreto episodio di inquinamento.
La parte civile WWF Italia ha depositato una memoria difensiva eccependo l'infondatezza dei motivi di ricorso.
Motivi della decisione
Va innanzitutto esaminato il secondo motivo, che si rivela fondato. Preliminarmente si osserva che, con il capo A), è stato contestato all'imputato il reato di cui all'art. 256, commi 1, lett. a) e 2, del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, in particolare per avere effettuato, nella qualità, senza autorizzazione raccolta e smaltimento di rifiuti, e «segnatamente di limi derivanti dal lavaggio di materiali inerti provenienti da scavi che venivano raccolti in una vasca di decantazione», nonché per avere effettuato un deposito incontrollato di materiali di altro genere. La contestazione, cioè, riguarda unicamente i limi derivanti dal lavaggio degli inerti provenienti dalla attività di cava. La contestazione, invece, non riguarda anche una diversa ipotetica condotta avente ad oggetto limi e fanghi derivanti dal lavaggio di inerti acquistati presso terzi fornitori e non risulta che sul punto sia stata elevata una contestazione suppletiva. Sono quindi del tutto irrilevanti le considerazioni contenute nella sentenza impugnata relative a una presunta (e non provata) attività di lavaggio di inerti non provenienti dall'attività di cava ma acquistati all'esterno.
Ciò posto, deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, costantemente seguita negli ultimi anni - che il Collegio ritiene di dover confermare non essendo stata addotta alcuna argomentazione che possa giustificare un diverso orientamento - «in tema di rifiuti, i fanghi ed i limi derivanti dalla prima pulitura mediante lavaggio del materiale ricavato dallo sfruttamento delle cave non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti, di cui alla parte quarta del D.Lgs n. 152 del 2006, in quanto l'art. 185, comma primo lett. d), del citato decreto, esclude dalla disciplina in questione i rifiuti risultanti dallo sfruttamento delle cave, e non possono essere ritenuti tali soltanto quelli risultanti dalla pulitura effettuata mediante grigliatura a secco o setacciatura» (Sez. III, 11.10.2006, n. 5315/07, Doneda, m. 235640; conf. Sez. III, 9.10.2007, n. 41584, Frezza, m. 237955). Hanno in particolare osservato queste decisioni che non vi è nessuna ragione per ritenere che la cd. «prima pulitura» del materiale estratto, necessaria per separare il materiale commerciale, debba avvenire esclusivamente mediante setacciatura o grigliatura e non possa invece avvenire, quando necessità tecniche lo richiedano o lo rendano opportuno, mediante lavaggio, e quindi non vi è ragione per ritenere che il lavaggio non rientrerebbe anch'esso nella prima pulitura del materiale estratto bensì costituirebbe, a differenza della setacciatura o grigliatura, attività ontologicamente successiva alla estrazione vera e propria. Pertanto, i materiali derivanti dallo sfruttamento delle cave, quando restano entro il ciclo produttivo della estrazione e connessa pulitura, sono esclusi dalla normativa sui rifiuti, mentre, poiché l'attività di sfruttamento della cava non può confondersi con la lavorazione successiva dei materiali, se si esula dal ciclo estrattivo, gli inerti provenienti dalla cava sono da considerarsi rifiuti ed il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica è regolato dalla disciplina generale (Sez. 111, 28 novembre 2005, n. 42966, Viti, m. 232.243). In altre parole, i fanghi provenienti dalla prima pulitura connessa alla attività estrattiva, vanno considerati come derivanti direttamente dallo sfruttamento della cava e non da diversa e successiva lavorazione delle materie prime. La c.d. prima pulitura del materiale estratto dalla cava rientra nella attività di estrazione latamente considerata e per tale ragione è sottratta alla applicazione della disciplina sui rifiuti ai sensi dell'art. 185, comma I , lett. d), del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152. Tale attività può essere costituita anche da pulitura effettuata mediante lavaggio, con la conseguenza che anche i rifiuti, ed in particolare i fanghi e limi, derivanti da tale lavaggio del materiale ricavato dallo sfruttamento delle cave non rientrano nel campo di applicazione della parte quarta del d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152. Restano escluse da questa disciplina soltanto le attività successive alla prima pulitura del materiale estratto e dirette ad una funzione differente, che sono per questa ragione antologicamente diverse dalla attività di estrazione del materiale e di sfruttamento della cava.
Le suddette decisioni sono state confermate successivamente da altra decisione pure ricordata dalla sentenza impugnata, la quale ha ribadito che «In tema di gestione dei rifiuti, l'esclusione dalla disciplina sui rifiuti dei fanghi derivanti dallo sfruttamento delle cave (art. 185, lett. d), D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) è subordinata alla condizione che gli stessi derivino direttamente dallo sfruttamento e restino entro il ciclo produttivo dell'estrazione e connessa pulitura, in quanto l'attività di sfruttamento del materiale di cava è distinta da quella della sua lavorazione successiva» (Sez. III, 28.1.2009, n. 10711, Precetti, m. 243 108, che peraltro riguarda un caso in cui i fanghi non provenivano dallo sfruttamento di una cava, ma da inerti provenienti da residui della lavorazione dei manufatti e dall'attività di demolizione e costruzione).
In conclusione, secondo tutte le suddette decisioni, i fanghi sono soggetti alla disciplina sui rifiuti soltanto quando non derivano dalla attività estrattiva e dalle connesse attività di cernita e di pulizia, bensì derivano da una successiva e differente attività di lavorazione dei materiali (estratti, selezionati e puliti), e cioè quando può affermarsi che tale successiva attività è ontologicamente estranea al ciclo produttivo dello sfruttamento della cava. In altre parole, solo quando si dia luogo ad una successiva, nuova e diversa attività di lavorazione sui prodotti della cava, i residui e gli inerti di questa nuova attività, sganciata da quella di cava, devono considerarsi rifiuti, sottoposti alla disciplina generale circa il loro smaltimento, ammasso, deposito e discarica.
Ora, nella specie, la sentenza impugnata non ha specificato se si trattasse di fanghi derivanti da una nuova e diversa attività di lavorazione del materiale estratto, ma - erroneamente applicando i principi di diritto ricordati - ha semplicemente ritenuto che gli stessi dovessero essere soggetti alla disciplina dei rifiuti solo perché il ciclo estrattivo era esaurito. La sentenza impugnata ha infatti espressamente affermato che i limi non potevano considerarsi provenienti dalla attività estrattiva e dalla pulizia del relativo materiale ma si erano per così dire trasformati in rifiuti solo perché essi erano stati raccolti, depositati e ammassati per lungo tempo al di fuori del ciclo estrattivo ed a seguito dell'esaurimento dello stesso. Sennonché, se si trattava di limi prodotti nella fase di pulitura del materiale estratto, questa loro qualità non poteva modificarsi solo per il passare del tempo e per essere stati gli stessi depositati ed ammassati. Ciò invero - senza l'intervento di una successiva diversa lavorazione dei materiali - non faceva venire meno la loro qualità di rifiuti risultanti dallo sfruttamento delle cave. Né risulta una norma che imponga di disfarsi di questi rifiuti, salvo ovviamente le ricadute negative che il loro deposito e le eventuali modalità di trattamento del materiale potrebbero avere sull'ambiente circostante e sulle acque e salvo il rispetto della normativa a tutela delle acque e della loro qualità. Nella specie, peraltro, non sono state ipotizzate né contestate violazioni e ricadute di nessun altro genere, se non la raccolta dei limi senza autorizzazione.
La sentenza impugnata deve quindi essere annullata per errore di diritto e per vizio di motivazione in ordine alla ipotesi di raccolta e smaltimento senza autorizzazione dei limi in questione, con rinvio perché il giudice di merito accerti se si trattava di fanghi provenienti da una nuova e diversa attività di lavorazione dei materiali estratti ovvero di fanghi provenienti dalla attività di pulitura del suddetto materiale, e quindi da una attività che rientrava nel ciclo produttivo dello sfruttamento della cava.
Non può invece essere accolto il terzo motivo, perché esso in realtà si risolve in una censura in punto di Tatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito. Il motivo è comunque infondato perché il giudice ha dato una adeguata e non manifestamente illogica motivazione sulle ragioni per le quali ha ritenuto di non dover concedere le attenuanti generiche in considerazione della personalità dell'imputato, sotto il profilo della condotta di vita antecedente alla commissione del reato, ed in particolare di un precedente per un reato in materia ambientale risalente al 1992, conclusosi con una condanna in primo grado e con una sentenza di prescrizione in secondo grado, ma con conferma delle statuizioni civili. Il ricorrente sostiene che la condotta antecedente avrebbe dovuto essere valutata insieme alla condotta successiva, ed in particolare con la condotta riparatoria, avendo iniziato e concluso una procedura di bonifica dei luoghi volontariamente, senza esserne tenuto e senza esserne richiesto dagli enti preposti alla tutela del territorio. 11 giudice, però, con un accertamento in fatto non censurabile in questa sede, ha ritenuto che la circostanza non poteva essere valorizzata ai fini della concessione della attenuante, perché il progetto di bonifica era stato proposto solo in data 9 marzo 2007, a seguito della diffida della provincia in data 14 dicembre 2006 e dei sequestro preventivo dell'area disposto il 21 gennaio 2007, ossia quando la condotta illecita era già stata accertata e gli interventi di ripristino erano ormai ineludibili.
E' invece fondato il quarto motivo. Questa Corte ha invero affermato il principio - che deve qui essere confermato - che, alla luce della normativa attualmente in vigore «Spetta soltanto allo Stato, e per esso al Ministro dell'Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico e generale all'ambiente. (In motivazione la Corte ha precisato che tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi comprese le Regioni e gli Enti pubblici territoriali minori, possono agire ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto da essi subito, diverso da quello ambientale)» (Sez. III, 21.10.2010, n. 41015, Gravina, m. 248707). Ha osservato questa decisione che l'art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349, al comma 3, attribuiva allo Stato e agli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno, anche se esercitata in sede penale. Il suddetto art. 18 è stato però abrogato dall'art. 318, comma 2, lett. a), del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (ad eccezione del comma 5, che riconosce alle associazioni ambientaliste il diritto di intervenire nei giudizi per danno ambientale). Attualmente, l'art. 311 del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, riserva allo Stato, ed in particolare al ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, anche esercitando l'azione civile in sede penale. Le regioni e gli enti locali, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, in forza dell'art. 309, comma 1, possono ora presentare denunce ed osservazioni nell'ambito di procedimenti finalizzati all'adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino oppure possono sollecitare l'intervento statale a tutela dell'ambiente, mentre non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale. La giurisprudenza di questa Corte successiva all'appena ricordato mutamento legislativo ha poi rilevato la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al ministro dell'ambiente, ai sensi dell'art. 3 1 1 , comma 1, d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, ma anche all'ente pubblico territoriale (come la provincia) ed ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. (Sez. IIl, 28.10.2009, n. 755/10, Ciarloni, in. 246015). La sentenza della Sez. III, 3.10.2006, n. 36514, Censi, m. 235059, ha più dettagliatamente precisato che, a seguito della abrogazione dell'art. 18 della legge 349/1986 ed ai sensi dell'art. 311 d. lgs. 152/2006, «titolare esclusivo della pretesa risarcitoria in materia di danno ambientale è lo Stato nella persona del Ministro dell'ambiente» (punto 3 della motivazione) relativamente al danno all'ambiente come interesse pubblico, anche se ad ogni persona singola od associata spetta il diritto di costituirsi parte civile per il risarcimento degli ulteriori danni subiti. La sentenza Sez. III, 11.2.2010, n. 14828, De Flammineis, m. 246812, ha poi affermato che il d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 «ha attribuito in via esclusiva la richiesta risarcitoria per danno ambientale al Ministero dell'Ambiente» (sicché le associazioni ecologiste sono legittimate a costituirsi parte civile al solo fine di ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali patiti a causa del degrado ambientale, «mentre non possono agire in giudizio per il risarcirmento del danno ambientale di natura pubblica»). Infine, la ricordata sentenza Sez. II1, 21.10.2010, n. 41015, Gravina, m. 248707, ha precisato che i rapporti tra la norma di cui all'art. 311, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto) e quella di cui all'art. 311, comma 1, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da lesione all'ambiente, inteso come diritto pubblico generale a fondamento costituzionale), si svolgono come i normali rapporti tra norma generale e norma speciale. Pertanto, per effetto dell'entrata in vigore della norma speciale, l'estensione della norma generale si è ristretta, sicché il suo ambito di applicazione non comprende più la fattispecie ora disciplinata dalla norma speciale. Di conseguenza, il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell'interesse pubblico all'ambiente, è ora previsto e disciplinato soltanto dall'art. 311 cit., sicché il titolare della pretesa risarcitoria per tale danno ambientale è esclusivamente lo Stato, in persona del ministro dell'ambiente. Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possono invece agire, in forza dell'art. 2043 cod. civ., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell'ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall'interesse pubblico e generale alla tutela dell'ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale.
La sentenza impugnata si è invece riferita unicamente al danno ambientale tradizionalmente inteso come interesse alla tutela dell'ambiente, come danno del singolo o della associazione alla relazione che questi vivono con l'ambiente che li circonda, e non già al danno a singoli beni o a posizioni soggettive patrimoniali, tutelabili secondo le ordinarie disposizioni civilistiche.
In particolare, mentre per le persone fisiche la sentenza impugnata ha correttamente fatto riferimento al danno alla salute, alla qualità della vita ed ai beni immobili, relativamente alla costituzione di parte civile del WWF, ha fatto riferimento ancora al vecchio indirizzo giurisprudenziale - antecedente alle riforme legislative dianzi ricordate -, che riteneva risarcibile il diritto morale del sodalizio identificato in un interesse ambientale storicamente e geograficamente circostanziato che il sodalizio avesse assunto come proprio scopo statutario.
Ma, a prescindere dalla natura del danno ora risarcibile a seguito del mutamento legislativo - finalizzato proprio a regolare la materia ed eliminare possibilità di eccessi e di abusi - nella sentenza impugnata non si prospetta nemmeno in astratto l'esistenza di un danno risarcibile, diverso o meno da quello ambientale, derivante dalle condotte cosi come contestate. Per il WWF, invero, la sentenza si limita a fare riferimento allo statuto dell'associazione ed al fatto che questo prevede la finalità di protezione e difesa del bene ambiente e di diffusione della cultura ambientale (e non ad un qualche danno patrimoniale subito in concreto dalla associazione). Per le persone fisiche, poi, fa riferimento al rumore, al sollevamento di polveri, a vibrazioni, alla diminuzione del valore degli immobili, con ciò però ponendosi di nuovo in contrasto con il principio di corrispondenza tra contestazione e sentenza. Con i capi di imputazione, infatti, non sono stati contestati i reati di getto di cose, emissione di polveri, o rumori, o vibrazioni, danneggiamento, disturbo alle occupazioni o al riposo delle persone, modifiche ambientali, e comunque non sono state contestate nemmeno in fatto condotte che abbiano potuto comportare rumori, polveri, vibrazioni, o emissioni in atmosfera superiori ai limiti tabellari, o immissioni nel terreno o nelle acque eccedenti quelle consentite, o danni alla salute, o modifiche al paesaggio, o più in generale inquinamenti o danni all'ambiente di qualsiasi tipo. Ciò che è stato contestato, invero, sono esclusivamente i reati formali di avere raccolto e smaltito rifiuti senza autorizzazione, di avere effettuato scarichi di acque reflue industriali senza autorizzazione, e di avere esercitato un impianto senza l'autorizzazione per le emissioni in atmosfera. Dal capo di imputazione non è possibile ricavare una contestazione, neppure in fatto, di una condotta che abbia avuto, sia pure potenzialmente, conseguenze dannose, ed in particolare che la raccolta di rifiuti abbia provocato danni ambientali, o che lo scarico delle acque o le emissioni in atmosfera abbiano superato i limiti di tollerabilità e provocato inquinamenti.
In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata è mancante non solo sulla sussistenza in concreto di un danno e sul nesso di causalità con le condotte contestate con il capo di imputazione, ma altresì sulla stessa potenzialità delle violazioni solo formali contestate ad essere produttive di conseguenze dannose, e pertanto manca una adeguata e congrua motivazione sia sulla legittimazione a costituirsi parte civile sia comunque sull'an debeatur.
Può ora esaminarsi il primo motivo, che risulta anch'esso fondato. Il giudice ha respinto la richiesta di oblazione riproposta in sede di discussione: a) perché la condanna generica al risarcimento dei danni determinava il persistere della condizione ostativa inerente alla permanenza delle conseguenze dannose degli illeciti; b) perché i reati sono risultati di una tale gravità da pregiudicare potenzialmente sia il bene ambiente nella sua dimensione pubblicistica che le posizioni giuridiche soggettive di coloro che abitano nelle vicinanze, in relazione alla diminuzione della qualità della vita ed alla perdita di valore degli immobili. Si tratta di una motivazione meramente apparente, apodittica, fondata su ipotesi e manifestamente illogica.
Quanto al permanere delle conseguenze dannose degli illeciti manca, come si è dianzi rilevato, qualsiasi motivazione sulla sussistenza, sia in concreto e sia pure in astratto, di conseguenze dannose derivanti dagli illeciti formali contestati. Inoltre, fondatamente il ricorrente lamenta che il giudice ha omesso di esaminare e di motivare sulla tesi difensiva dell'avvenuta eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose dei reati e sulla relativa documentazione. In particolare, l'imputato aveva eccepito: in relazione al capo A), che era intervenuta l'autorizzazione allo smaltimento dei rifiuti e che era stata completata la bonifica del sito; in relazione al capo B), che era intervenuto il provvedimento abilitativo della provincia di Bergamo in data 16 gennaio 2009; in relazione al capo C), che la sua domanda di autorizzazione alle emissioni era stata archiviata dalla provincia perché si trattava di impianto esistente, tanto che era stato ottenuto il dissequestro dell'intera area, sicché egli doveva presentare una nuova domanda di autorizzazione entro il 29 ottobre 2010. Su questi elementi manca un accertamento ed una motivazione.
Come si è in precedenza rilevato, manca una adeguata e congrua motivazione anche sulla esistenza dei presupposti per una condanna generica al risarcimento dei danni.
Quanto poi alla affermazione che dagli atti contenuti nel fascicolo del PM emergerebbe che i reati sarebbero «di gravità tale da pregiudicare potenzialmente sia il bene ambiente nella sua dimensione pubblicistica che le posizioni giuridiche soggettive di tutti coloro che vedono radicali i propri interessi nei luoghi di cui all'imputazione e nelle immediate vicinanze», deve osservarsi che sarà. pure vero che nel fascicolo del PM sussistono elementi (che peraltro non sono stati specificati nella sentenza) indicativi di danni all'ambiente o ai singoli abitanti, ma questi elementi sono stati tenuti dall'accusa al di fuori del presente processo penale, dal momento che sono stati contestati unicamente reati formali e che nei capi di imputazione non si fa cenno a condotte produttrici di emissioni nocive, superamenti di limiti tabellari, inquinamenti dei terreni, dell'atmosfera o delle acque, modifiche del paesaggio, o di qualsiasi concreto pregiudizio per l'ambiente. La elevata gravità dei reati e il grave pregiudizio da essi potenzialmente derivante sono, quindi, solo apoditticamente affermati, ma non adeguatamente provati e motivati.
In conclusione, è mancante o manifestamente illogica anche la motivazione in ordine al rigetto della domanda di oblazione.
Il ricorso deve dunque essere accolto nei limiti sopra indicati, con rinvio per nuovo esame al tribunale di Bergamo. E' opportuno precisare che, con la presente decisione, passa in giudicato la declaratoria di responsabilità sui reati di cui ai capi B) e C) e sul deposito incontrollato di attrezzature di cava dismessa di cui alla seconda parte del capo A), in ordine ai quali non vi è stata impugnazione.
Per questi motivi
La Corte Suprema di Cassazione
annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di Bergamo.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 31 marzo 2001.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA 23 GIU. 2011