Cass. Sez. III n. 5442 del 6 febbraio 2017 (Ud 15 dic 2016)
Presidente: Ramacci Estensore: Mengoni Imputato: PM in proc. Zantonello
Rifiuti.Cessione onerosa e perdita della qualifica di rifiuto
Il fatto che un rifiuto sia ceduto ad altra società dietro fatturato pagamento di denaro non risulta sufficiente per escludere la natura di rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis sopra citato), non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), come se il negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della produzione e non - come in effetti - proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal "valore" economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza dell'8/2/2016, il Tribunale di Asti assolveva Renzo Zantonello dalle imputazioni allo stesso ascritte ex artt. 81 cpv. cod. pen., 256, comma 1, lett. a), 279, comma 2, d. Igs. 3 aprile 2006, n. 152, rispettivamente, perché il fatto non sussiste e per non aver commesso il fatto; con la prima imputazione, in particolare, era contestato - nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione della "IPA s.r.l." - di aver smaltito senza autorizzazione residui della lavorazione (trucioli e segatura), rifiuti non pericolosi, consegnandoli ad una ditta non autorizzata.
2. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Asti deducendo - con unico motivo - l'inosservanza od erronea applicazione della legge penale. La sentenza avrebbe erroneamente negato ai citati scarti di lavorazione la natura di rifiuto, invero da riconoscere in quanto cosa - rectius: residuo di processo di produzione - di cui il detentore intende disfarsi, a prescindere dal carattere gratuito od oneroso di ciò; nel momento in cui il prodotto diventa rifiuto, dunque, la cessione ad altro soggetto non farebbe venir meno tale qualità, sì che il conferimento medesimo dovrebbe poter avvenire soltanto in forza delle dovute autorizzazioni. E senza che, peraltro, possa qui richiamarsi la disciplina in materia di sottoprodotto, della quale invero non ricorrerebbero i presupposti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso è fondato.
Come noto, ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), d. Igs. n. 152 del 2006, rifiuto è qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi; esattamente quel che accade con gli scarti di produzione, come nel caso di specie, salva la possibilità della diversa qualificazione in sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis, d. Igs. n. 152 del 2006, ricorrendone i rigorosi presupposti di legge, invero neppure ipotizzati nella sentenza impugnata (a: la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana).
Con particolare riferimento, poi, alla segatura ed ai truciolati, scarti delle lavorazioni in legno operate dalla "IPA s.r.l.", la giurisprudenza di questa Corte ne ha costantemente affermato la natura di rifiuto (ex plurimis, Sez. 3, n. 51422 del 6/11/2014, D'Itri; Sez. 3, n. 37208 del 9/4/2013, Cartolano; Sez. 3, n. 48809 del 28/11/2012, Solimeno; Sez. 3, n. 18743 del 19/10/2011, Rosati, tutte non massimate), salvi i casi in cui il citato onere probatorio in senso contrario - all'evidenza incombente sull'interessato - risulti soddisfatto.
Orbene, con riguardo al caso in esame, si osserva che il Tribunale di Asti è in effetti incorso nella denunciata violazione di legge, negando apoditticamente ai materiali in esame la qualifica di rifiuto non già con riguardo alla loro natura od alla loro destinazione in ragione delle intenzioni del detentore (in questo caso, coincidente con il produttore), ma facendo leva soltanto sul fatto che fossero costantemente cedute ad altra società dietro fatturato pagamento di danaro. Il che, però, come affermato dal Procuratore ricorrente, non risulta sufficiente per escludere la natura medesima di rifiuto, che, una volta acquisita in forza di elementi positivi (oggetto di cui il detentore si disfi, abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi, quale residuo di produzione) e negativi (assenza dei requisiti di sottoprodotto, ai sensi dell'art. 184-bis sopra citato), invero ravvisabili nel caso di specie, non vien certo perduta in ragione di un mero accordo con terzi ostensibile all'autorità (oppure creato proprio a tal fine), in questo caso sub specie di cessione a titolo oneroso, come se il negozio giuridico riguardasse l'oggetto stesso della produzione e non - come in effetti - proprio un rifiuto. Ciò, peraltro, a prescindere dal "valore" economico o commerciale di questo, specie nell'ottica di chi in tal modo ne entra in possesso a seguito di un accordo di natura privatistica; d'altronde, come affermato dal Procuratore ricorrente e già sostenuto da questa Corte (Sez. 3, n. 15447 del 20/1/2015, Napolitano, non massimata), nell'indagine in esame - volta all'accertamento dell'effettiva natura di rifiuto - si deve evitare di porsi nella sola ottica del cessionario del prodotto, e della valenza economica che allo stesso egli attribuisce (sì da esser disposto a pagare per ottenerlo), occorrendo, per contro, verificare "a monte" il rapporto tra il prodotto medesimo ed il suo produttore e, soprattutto, la volontà/necessità di questi di disfarsi del bene.
Opinare in termini diversi, al pari del primo Giudice, comporterebbe dunque la facile creazione di pericolose aree di impunità, nelle quali numerose condotte oggettivamente integranti una fattispecie di reato ben potrebbero esser dissimulate da accordi - dolosamente preordinati - volti a privare il bene di una particolare qualità, ex se rilevante sotto il profilo penale, invero già "a monte" acquisita ed insuscettibile di esser cancellata.
La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, affinché il Tribunale di Asti verifichi compiutamente la natura del materiale di cui trattasi, con ogni penale implicazione, a prescindere dagli accordi che, con riguardo allo stesso, l'imputato abbia in effetti raggiunto con terzi soggetti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Asti in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2016