Cass. Sez. III n. 19221 del 13 maggio 2008 (Ud. 27 mar. 2008)
Pres. De Maio Est. Petti Ric. Maraglino
Rifiuti. Definizione di discarica

La definizione di discarica contenuta nell’articolo 2 del D.Lv. 36/2003 è operante anche a seguito dell\'entrata in vigore del decreto legislativo n 152 del 2006 poiché anche l\'articolo 256 terzo comma del citato decreto legislativo, come a suo tempo l\'articolo 51 terzo comma del decreto Ronchi, deve necessariamente essere letto in correlazione con il decreto legislativo n 36 del 2003.
In fatto
Con sentenza del 6 luglio del 2007, la corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, confermava quella pronunciata il 27 febbraio del 2006 dal tribunale della medesima città, con cui Maraglino Giovanni e Silvestri Nicola, erano stati condannati alla pena di mesi cinque di arresto ed euro 2000 di ammenda, quali responsabili del reato di cui agli artt. 110 c.p. 51 decreto Ronchi n. 22 del 1997 per avere, all’interno di una cava di tufo realizzato e gestito una discarica abusiva di rifiuti anche pericolosi nonché del reato di cui all’articolo 734 c.p.,. per avere con la condotta anzidetta alterato il paesaggio. Fatto accertato il 6 novembre del 2003.
Ricorrono per cassazione i due imputati deducendo:
- la violazione della norma incriminatrice trattandosi di abbandono occasionale di rifiuti peraltro effettuato da ignoti;
- mancanza ed illogicità della motivazione perché non era stata dimostrata la disponibilità da parte dei prevenuti del sito dove erano stati rinvenuti i rifiuti, posto che esso era distante dalla cava gestita dagli imputati;
- la violazione del disposto di cui all’articolo 546 c.p.p. per avere la corte omesso di enunciare le ragioni per le quali non aveva ritenuto attendibili le dichiarazioni dei testimoni De Carlo e Sportelli, i quali avevano affermato di non avere mai visto nella cava il Silvestri;
- la violazione dell’articolo 734 c.p. nonché difetto di motivazione sul punto perché la cava era già attiva allorché era entrata in vigore la legge regionale n. 30 del 1990;
- la violazione dell’articolo 533 c.p.p. poiché l’affermazione di responsabilità non era stata pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio sussistendo quanto meno delle perplessità sulla responsabilità dell’imputato Nicola Silvestri.

In diritto
Il ricorso è inammissibile per l’aspecificità dei motivi e comunque per la manifesta infondatezza degli stessi.
L’articolo 581 lett. c) c.p.p. dispone che i motivi d’impugnazione debbano contenere: “l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni singola richiesta”. Il legislatore del 1988 ha ribadito l’esigenza di specificazione delle doglianze per garantire un minimo di serietà all’impugnazione pretendendo che i motivi siano correlati a ciascuna richiesta mediante l’indicazione chiara e precisa delle censure che si intendono muovere ai capi o ai punti della sentenza impugnata nonché delle ragioni di diritto e degli elementi fattuali che sorreggono ogni singola richiesta. Secondo l’orientamento di questa corte, si considerano aspecifici i motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame. La mancanza di specificità del motivo invero deve essere apprezzata, non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità conducente a mente dell’articolo 591 comma 1 lett. c) all’inammnissibilità (Cass. 18 settembre 1997 Ahemtovic; Cass. sez. II 6 maggio 2003 Curcillo).
Nella fattispecie i ricorrenti si limitano a riproporre censure già avanzate alla sentenza di primo grado e puntualmente respinte dalla corte territoriale senza indicare in maniera specifica i vizi del ragionamento del giudice censurato.
In ogni caso i motivi sono manifestamente infondati
L’articolo 51 comma terzo del decreto Ronchi (ora art. 256 comma terzo del decreto legislativo n. 152 del 2006) sanzionava la realizzazione e la gestione di una discarica abusiva. La disposizione doveva essere correlata con il decreto legislativo n. 36 del 2003 avente ad oggetto l’attuazione della direttiva 1999/31 CE relativa alle discariche ed ai rifiuti. In base all’articolo 2 del citato decreto legislativo la discarica era definita come “area adibita a smaltimento dei rifiuti mediante operazioni di deposito sul suolo o nel suolo, compresa la zona interna al luogo di produzione dei rifiuti adibita allo smaltimento dei medesimi da parte del produttore degli stessi nonché qualsiasi area dove i rifiuti sono sottoposti a deposito temporaneo per più di un anno. Sono esclusi da tale definizione gli impianti in cui i rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per il successivo trasporto in un impianto di recupero, trattamento o smaltimento e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di recupero o trattamento per un periodo inferiore a tre anni come norma generale, e lo stoccaggio di rifiuti in attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un anno.” Siffatta definizione è operante anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 152 del 2006 poiché anche l’articolo 256 terzo comma del citato decreto legislativo, come a suo tempo l’articolo 51 terzo comma del decreto Ronchi, deve necessariamente essere letto in correlazione con il decreto legislativo n. 36 del 2003.
Secondo la giurisprudenza di questa corte si ha quindi discarica abusiva tutte le volte in cui per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti con tendenziale carattere di definitività (Cass. n. 957 del 2004; n. 25463 del 2004).
I giudici del merito hanno escluso che potesse trattarsi di abbandono da parte di ignoti perché, per mezzo della testimonianza del Rinaldi, hanno accertato che v’era stata attività di spianamento non riconducibile ad ignoti e che alla discarica si poteva accedere dalla stessa cava gestita da entrambi gli imputati. Hanno altresì indicato le ragioni per le quali il Silvestri, quale socio del Maraglino, era corresponsabile anche per la gestione della discarica e, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, hanno esaminato le deposizioni dei testimoni De Carlo e Sportelli, precisando che esse non erano determinanti per escludere la responsabilità del Silvestri, in quanto ignoravano i rapporti interni tra i due soci.
La corte ha ritenuto infine legittimamente configurabile il reato di cui all’articolo 734 c.p., il quale può concorrere con quello di gestione di una discarica trattandosi di reati che offendono beni giuridici diversi. In proposito ha precisato che il reato era configurabile, non per la gestione della cava che era preesistente alla legge regionale che ha imposto il vincolo paesaggistico, ma per la gestione della discarica che è successiva all’imposizione del vincolo.
Dall’inammissibilità del ricorso discende l’obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in € 1000,00, in favore della Cassa delle Ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa dei ricorrenti nella determinazione della causa d’inammissibilità secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. l86 del 2000.