I resti del Castello catalano-aragonese di Bonaria vanno salvaguardati.

di Stefano DELIPERI

 

Pronuncia di particolare interesse quella del T.A.R. Sardegna in ordine al vincolo storico-culturale (artt. 10 e ss. del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) sui resti recentemente scoperti del Castello catalano-aragonese sul Colle di Bonaria (Cagliari).

La sentenza T.A.R. Sardegna, Sez. II, 3 febbraio 2016, n. 97 ha delineato, infatti, alcuni elementi di grande interesse riguardo la legittimità dei provvedimenti di tutela storico-culturali e la conseguente previsione di inedificabilità delle aree interessate.

Il Giudice amministrativo sardo ha respinto il ricorso dell’ing. Patrick Michael Charles Head, acquirente di un lotto non edificato fra Via Milano e Via Taranto, davanti al Santuario e Basilica di Bonaria, sull’omonimo Colle cagliaritano. Dopo l’acquisizione del permesso di costruire (rilasciato con determinazione dirigenziale del Comune di Cagliari, n. 11238 del 3 dicembre 2013) e l’avvio dei lavori emersero i resti di “di una porzione del Castel de Bon Ayre, costituente parte dell’insediamento dell’esercito catalano-aragonese (il Castrum sul colle di Bonaria) creato nel corso del 1324, che - dopo la battaglia contro l’esercito pisano di Lucocisterna (o Lutocisterna) del 29 febbraio 1324 e la conquista di Cagliari da parte degli aragonesi (19 giugno 1324) - assunse anche la funzione di capitale del Regnum Sardiniae et Corsicae”. Si tratta dell’insediamento catalano-aragonese realizzato per volontà del re Alfonso IV d’Aragona sul Colle e nella sottostante marina (oggi interrata e chiamata Su Siccu) a partire dal 1323 durante le lunghe operazioni di conquista di Cagliari, allora Comune di influenza pisana[1].

Il decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo - Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna n. 127 del 15 ottobre 2014 ha conseguentemente dichiarato di particolare interesse archeologico, ai sensi dell'art. 10 comma 3, lettera a, del decreto legislativo n. 42/2004 e sm.i., il "Sito pluristratificato di via Milano angolo via Taranto".

In primo luogo, sotto il profilo del denunciato limite di competenza periodica, la Soprintendenza per i Beni Archeologici cagliaritana risulta esser abilitata alla proposizione dei provvedimenti di vincolo culturale senza alcun limite temporale, in quanto le strutture periferiche del Ministero hanno, fra gli altri, il compito di istruire e proporre al competente direttore regionale «i provvedimenti di verifica o di dichiarazione dell'interesse culturale, le prescrizioni di tutela indiretta, nonché le dichiarazioni di notevole interesse pubblico paesaggistico ovvero le integrazioni del loro contenuto, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 12, 13, 45, 138, comma 3, e 141-bis del Codice», trattandosi di “attribuzioni che, come appare chiaro dal tenore letterale della disposizione, non soffrono di alcuna limitazione in relazione ai periodi storici cui si riferiscono le cose di interesse archeologico, storico o artistico, oggetto di tutela”.

Il Giudice di prime cure non ha ritenuto accoglibili i rilievi mossi dal ricorrente sulla base di due perizie riguardo la relazione scientifica della Soprintendenza archeologica, il “cuore” della motivazione del provvedimento di tutela: in via generale, si evidenzia “il consolidato orientamento secondo cui il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, che implica un apprezzamento riservato all’Amministrazione competente alla tutela; e sottratto al controllo di legittimità, se non entro i limitati margini del sindacato esterno, sotto i diversi profili del difetto di motivazione, del palese travisamento dei fatti, della abnorme illogicità o della manifesta irrazionalità (ex multis, recentemente, v. Cons. St., VI, 2 marzo 2015, n. 1000; in precedenza, Cons. St., VI, 6 marzo 2009, n. 1332; VI, 24 maggio 2013, n. 2851)”. Non solo, nel caso specifico, “gli elementi e i dati rilevati dalla Soprintendenza nella relazione allegata al provvedimento del direttore regionale impugnato col ricorso in esame e la complessiva motivazione con la quale tali elementi sono stati coerentemente esaminati e inquadrati, anche sotto il profilo scientifico, siano sufficienti a supportare la dichiarazione di interesse archeologico particolarmente importante dell’area in questione”.

Infine, nemmeno può esser sindacato l’apprezzamento discrezionale che ha portato a ritenere l’intera area come meritevole di salvaguardia - e quindi inedificabile - sebbene risulti in un contesto urbanizzato, in quanto “alla luce della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che riserva all’amministrazione la valutazione dell’estensione del vincolo, affermando che «quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano» (Cons. Stato, VI, 29 gennaio 2013, n. 522; nello stesso senso sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1906)”.

A differenza di quanto avvenuto in altre occasioni (per esempio, riguardo i ruderi di Palazzo Aymerich, vds. Cons. Stato, Sez. VI, 3 settembre 2013, n. 4399), quando la documentazione tecnico-scientifica posta alla base della motivazione del provvedimento di tutela storico-culturale è adeguatamente approfondita e consona alle finalità di legge, la discrezionalità è legittimamente esercitata per consentire l’efficace salvaguardia del bene culturale.

Dott. Stefano Deliperi





N. 00097/2016 REG.PROV.COLL.

N. 00246/2015 REG.RIC.









REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 246 del 2015, proposto da: 

Patrick Michael Charles Head, rappresentato e difeso dall’avv. prof. Mario Sanino e dagli avvocati Maria Elena Mameli, Carlo Celani e Lorenzo Coraggio, con domicilio eletto presso l’avv. Maria Elena Mameli in Cagliari, Via Satta n. 70; 

contro

il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in persona del Ministro pro tempore;

Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano, in persona del Soprintendente pro tempore;

entrambi rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, e domiciliati per legge in Cagliari, Via Dante n. 23; 

per l'annullamento

- del decreto del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna, n. 127 del 15.10.2014, comunicato il 20.10.2014, con il quale il responsabile della Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna ha dichiarato di particolare interesse archeologico, ai sensi dell'art. 10 comma 3, lettera a) del d.lgs 42/2004, il "Sito pluristratificato di via Milano angolo via Taranto", ubicato fra la via Milano e la via Taranto nel Comune di Cagliari, nonchè per l'annullamento o la riforma dell'esito della verifica di cui all'art. 12 del D.Lgs 42/2004.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari e Oristano;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 novembre 2015 il dott. Giorgio Manca e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. – Con il ricorso in esame, il sig. Patrick Michael Charles Head, proprietario di un lotto di terreno edificabile ubicato in Cagliari, fra la via Milano e la via Taranto, per il quale ha ottenuto il permesso di costruire (rilasciato con determinazione dirigenziale del Comune di Cagliari, n. 11238 del 3 dicembre 2013), chiede l’annullamento del decreto del 15 ottobre 2015, n. 127, con il quale il responsabile della Direzione Regionale Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna ha dichiarato di particolare interesse archeologico, ai sensi dell’art. 10, comma 3, lettera a), del d.lgs. n° 42/2004, il terreno di proprietà dell’odierno ricorrente (denominato nel decreto «sito pluristratificato di via Milano angolo via Taranto»).

2. - Secondo quanto risulta dalla relazione archeologica allegata al decreto impugnato, nel corso dei lavori per la realizzazione dell’edificio (iniziati previo nulla osta rilasciato dalla Soprintendenza il 12 giugno 2014) sono emerse “numerose strutture murarie pertinenti a almeno 8 ambienti di uno o più edifici (per una superficie di oltre mq 200)” che hanno consentito di svelare la presenza sul sito di una porzione del Castel de Bon Ayre, costituente parte dell’insediamento dell’esercito catalano-aragonese (il Castrum sul colle di Bonaria) creato nel corso del 1324, che - dopo la battaglia con l’esercito dei Pisani del 19 giugno 1324 e la conquista di Cagliari da parte degli aragonesi – assunse anche la funzione di capitale del Regnum Sardiniae et Corsicae. Attribuzione che sarebbe testimoniata dalla presenza di elementi strutturali e caratteristiche costruttive che rimandano all’età medievale, dalla tecnica edilizia che trova confronti con strutture catalano-aragonesi del XIV secolo, nonché dall’arco cronologico dei reperti individuati nell’area, che non supera la metà del XIV secolo. Elementi che si allineano con quanto descritto dalle fonti documentali e dalle indagini archeologiche e che, secondo la Soprintendenza, impongono la dichiarazione di interesse culturale del sito archeologico in quanto:

«1. rappresenta una testimonianza materiale di civiltà, storia e cultura;

2. è una testimonianza materiale di un momento storico fondamentale nella formazione e nello sviluppo politico, religioso, economico, culturale e sociale di Cagliari e della Sardegna moderna e contemporanea;

3. rappresenta un unicum in quanto l’insediamento di Bon Ayre era attestato finora solo dai documenti, ma non aveva ancora avuto un riscontro archeologico delle sue strutture;

4. si distingue nell’ambito dell’archeologia medievale in Sardegna come l’unico esempio di edilizia privata urbana, conservata per una notevole estensione e per buona parte della sua articolazione spaziale».

3. – Avverso il predetto decreto, il ricorrente deduce plurime censure che saranno compiutamente esaminate nei successivi punti.

4. – Si è costituito in giudizio il Ministero dei Beni Culturali, chiedendo che il ricorso, in primo luogo, sia dichiarato inammissibile nella parte in cui tende a ottenere un sindacato sul merito delle valutazioni tecnico-discrezionali riservate all’amministrazione, censurabili in sede di legittimità solo se manifestamente illogiche, contraddittorie o basate su errori di fatto; in ogni caso, conclude per il rigetto del ricorso in quanto infondato.

5. – All’udienza pubblica del 4 novembre 2015, la causa è stata trattenuta in decisione.

6. – Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’illegittimità della dichiarazione di interesse archeologico per eccesso di potere sotto i profili del difetto di istruttoria e di motivazione, della illogicità e incoerenza e della violazione del principio di proporzionalità.

7. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce il difetto di competenza della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano, in quanto, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lettera d), del D.P.R. 26 novembre 2007, n. 233, e dell’art. 83 del regio decreto 30 gennaio 1913, n. 363, la proposta di dichiarazione di interesse culturale spetterebbe nella fattispecie, trattandosi di bene risalente al medioevo, alla Soprintendenza per i beni architettonici, storici e artistici.

8. – In ragione della peculiare natura giuridica, l’esame del ricorso deve muovere dalla valutazione di fondatezza del vizio di incompetenza, dedotto col secondo motivo. Ciò in quanto, come recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (con sentenza 27 aprile 2015, n. 5), anche dopo l’intervenuta abrogazione dell’art. 26 della legge n. 1073 del 1971, l’eventuale accoglimento del motivo con cui si deduce il difetto di competenza, anche relativa, dell’organo amministrativo che ha adottato il provvedimento impugnato, comporta la rimessione dell’intero affare all’autorità amministrativa ritenuta competente e il conseguente assorbimento degli altri motivi proposti col ricorso. Il che deriva dalla preclusione posta dall’art. 34, comma 2, del c.p.a., secondo cui «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati».

8.1. - Nel caso di specie, peraltro, la questione di competenza non è fondata.

L’art. 18, comma 1, lettera h), del D.P.R. 26 novembre 2007, n. 233 (avente per oggetto il «Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell'articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296») attribuisce, infatti, alle strutture periferiche del Ministero, di cui all’art. 16, comma 1, lettera b), del medesimo decreto [fra le quali figurano le soprintendenze ai beni archeologici], il compito di istruire e proporre al competente direttore regionale «i provvedimenti di verifica o di dichiarazione dell'interesse culturale, le prescrizioni di tutela indiretta, nonché le dichiarazioni di notevole interesse pubblico paesaggistico ovvero le integrazioni del loro contenuto, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 12, 13, 45, 138, comma 3, e 141-bis del Codice». Attribuzioni che, come appare chiaro dal tenore letterale della disposizione, non soffrono di alcuna limitazione in relazione ai periodi storici cui si riferiscono le cose di interesse archeologico, storico o artistico, oggetto di tutela.

9. – Passando al primo, complesso, motivo di ricorso, sotto un primo profilo il ricorrente contesta l’affermazione della Soprintendenza (contenuta nella relazione archeologica allegata al decreto impugnato) secondo cui i reperti archeologici rinvenuti nell’area sarebbero attribuibili al periodo compreso tra il XIII e il XIV secolo. Sulla scorta di due consulenze di parte, depositate agli atti del presente giudizio, si sostiene, infatti, che «i frammenti ceramici rinvenuti sono tutti decontestualizzati, ossia privi di dati stratigrafici di riferimento, ascrivibili ad un ampio arco cronologico e con diverse provenienze, dall’Età basso medioevale al XIX secolo». E in particolare si osserva come il frammento di iscrizione latina funeraria, richiamato dalla Soprintendenza, è riferibile alla vasta necropoli pluristratificata (quindi di epoca precedente l’insediamento degli aragonesi) che occupa il colle di Bonaria. Altri frammenti (di lapide funeraria, di lastra marmorea senza iscrizione) sarebbero poco significativi, dal momento che sono stati rinvenuti nel materiale di riempimento dei vani e non possono, quindi, essere considerati quali materiali di costruzione delle strutture murarie. Proprio questa caratteristica dei materiali rinvenuti smentirebbe la tesi della Soprintendenza, dimostrando - ad avviso del ricorrente - che si tratta di materiali di varia provenienza, utilizzati come terra di riporto per la sistemazione del lotto avvenuta nel corso del XX secolo.

Anche il riferimento alle tecniche edilizie e costruttive delle murature rinvenute sarebbe affetto da contraddittorietà, considerato che nella relazione allegata al decreto si riferisce della presenza di tracce di una domus solariata e di una domus balatoriata, che sarebbero, invece, tipici esempi di architettura pisana. Anche i frammenti di calce e cocci non potrebbero essere riferiti a pavimenti riconducibili al XIV secolo, perché all’epoca i pavimenti avrebbero dovuto essere coperti da assi di legno che fungevano da pavimento del piano superiore; materiale di cui, tuttavia, non vi sarebbe traccia nei rinvenimenti attestati dalla Soprintendenza.

Il ricorrente, inoltre, revoca in dubbio anche l’ipotesi che l’insediamento militare aragonese si estendesse fino al terreno di cui trattasi.

In definitiva, nessuna delle prove indicate dalla Soprintendenza dimostrerebbe una connessione tra il Castrum aragonese e l’area di proprietà del ricorrente.

10. - Le censure esposte non sono fondate.

In premessa, ritiene il Collegio di dover rammentare il consolidato orientamento secondo cui il giudizio che presiede all’imposizione di una dichiarazione di interesse culturale è connotato da un’ampia discrezionalità tecnico-valutativa, che implica un apprezzamento riservato all’Amministrazione competente alla tutela; e sottratto al controllo di legittimità, se non entro i limitati margini del sindacato esterno, sotto i diversi profili del difetto di motivazione, del palese travisamento dei fatti, della abnorme illogicità o della manifesta irrazionalità (ex multis, recentemente, v. Cons. St., VI, 2 marzo 2015, n. 1000; in precedenza, Cons. St., VI, 6 marzo 2009, n. 1332; VI, 24 maggio 2013, n. 2851).

10.1. - Con riguardo al caso di specie, il Collegio ritiene che proprio tale sindacato esterno evidenzi come gli elementi e i dati rilevati dalla Soprintendenza nella relazione allegata al provvedimento del direttore regionale impugnato col ricorso in esame e la complessiva motivazione con la quale tali elementi sono stati coerentemente esaminati e inquadrati, anche sotto il profilo scientifico, siano sufficienti a supportare la dichiarazione di interesse archeologico particolarmente importante dell’area in questione.

10.2. - Le conclusioni appena anticipate trovano ampie conferme sia nella citata relazione, sia dall’esame degli atti del procedimento amministrativo sfociato nel provvedimento di tutela adottato dalla direzione regionale per i Beni Culturali.

In tale prospettiva, alcuni passaggi argomentativi debbono essere necessariamente valorizzati, in funzione delle analitiche censure dedotte da parte ricorrente.

10.3. - In primo luogo, per quanto concerne il rilievo secondo cui i reperti rinvenuti (sia per la scarsa consistenza che per l’assenza di precisi dati stratigrafici) non sarebbero attribuibili al XIV secolo, appaiono convincenti le ulteriori analisi sul piano storico e scientifico proposte dalla Soprintendenza (si veda, in specie, la relazione del 19 gennaio 2015, predisposta dal Soprintendente in sede di istruttoria della decisione sul ricorso amministrativo proposto dal ricorrente, che illustra in maniera più diffusa le conclusioni contenute nella relazione allegata al decreto impugnato: all. 2 della produzione documentale Avv. St.), dalle quali emerge come, per un verso, non corrisponda al vero l’asserzione relativa alla modestia dei reperti rinvenuti (cfr. pag. 11 della relazione datata 19 gennaio 2015 cit.). E in particolare, si dimostra come tale reperti siano riferibili, in larga parte (circa il 97% dei rinvenimenti), a un periodo non successivo al XIV secolo.

Anche il criterio storico-scientifico utilizzato dalla Soprintendenza per provare la datazione non appare sindacabile in sede di legittimità; e anzi, appare del tutto corretto e congruo, in particolare ove si precisa che per l’attribuzione a un determinato periodo storico dei reperti derivanti da strutture murarie (del tipo di quelle ritrovate nell’area in questione) è essenziale, in primo luogo, provare che tali reperti siano stati utilizzati per la costruzione di dette strutture; e, in secondo luogo, risalire al presumibile periodo al quale i reperti sono riferibili. Operazioni, di carattere sia logico che materiale, le quali, nel caso di specie, trovano sufficiente esplicazione nella citata relazione della Soprintendenza.

Non appare persuasivo, inoltre, il rilievo formulato dal ricorrente, circa la erroneità e contraddittorietà dell’elemento costituito dalle tecniche edilizie e costruttive utilizzate nel periodo aragonese, esaminato alla luce delle argomentazioni che hanno sorretto la decisione dell’amministrazione. Premesso che l’affermazione del ricorrente, secondo cui la tipologia delle domus (solariata e balatoriata) apparterrebbe all’architettura pisana, non è confortata da riferimenti storici e scientifici puntuali (per cui non può che ritenersi affetta da genericità e apoditticità), è dirimente sul punto l’osservazione secondo cui l’appello alle “tecniche costruttive” di una determinata epoca storica costituisce un criterio malsicuro sotto il profilo scientifico, se non è corroborato da ulteriori elementi storici concreti.

11. - In conclusione, nel provvedimento impugnato sono indicate in maniera adeguata le ragioni per le quali il bene in questione presenta quell’interesse archeologico particolarmente importante, ai sensi dell’art. 10, comma 3, lett. a), del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42; e dunque merita di essere dichiarato bene culturale, ai sensi dell’art. 13 del codice, e sottoposto al relativo regime.

12. - Sotto altro profilo, il ricorrente deduce anche la violazione del principio di proporzionalità, in quanto la decisione dell’amministrazione di apporre il vincolo sull’intera area di proprietà del privato non terrebbe conto del fatto che l‘area di proprietà del ricorrente è inserita in un contesto integralmente urbanizzato ed edificato.

Anche quest’ultima censura non può essere favorevolmente apprezzata, alla luce della più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato che riserva all’amministrazione la valutazione dell’estensione del vincolo, affermando che «quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano» (Cons. Stato, VI, 29 gennaio 2013, n. 522; nello stesso senso sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1906).

14. - Il ricorso, in conclusione, deve essere integralmente rigettato.

15. - Considerata la peculiarità delle questioni esaminate, si giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 4 novembre 2015 e, in proseguo, nella camera di consiglio del 12 gennaio 2016, con l'intervento dei magistrati:

Francesco Scano, Presidente

Tito Aru, Consigliere

Giorgio Manca, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 03/02/2016

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)