TAR Lombardia (MI), Sez. II, n. 612, del 10 marzo 2014
Ambiente in genere.Libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e tutela degli interessi sensibili
I recenti interventi normativi (art. 31 del d.l. n. 201/2011 convertito con L. n 214/2011 e s.m.i.) hanno consacrato, quale principio generale dell’ordinamento nazionale, la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti o limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla “tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano e dei beni culturali”. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00612/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00852/2012 REG.RIC.
N. 02699/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 852 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
- Dong Zhou Xiao, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Laruffa, con domicilio eletto presso Francesco Laruffa in Milano, Via Malpighi, 4;
contro
- Comune di Bellusco, rappresentato e difeso dall'avv. Carlo Orlandi, con domicilio eletto presso Carlo Orlandi in Milano, Piazzetta Guastalla, 5;
sul ricorso numero di registro generale 2699 del 2012, proposto da:
- Schiavi S.p.A., rappresentata e difesa dall'avv. Lino Cianfrone, con domicilio eletto presso Lino Cianfrone in Milano, Via Santa Croce, 9;
contro
- Comune di Bellusco, rappresentato e difeso dall'avv. Carlo Orlandi, con domicilio eletto presso Carlo Orlandi in Milano, Piazzetta Guastalla, 5;
per l'annullamento
>> quanto al ricorso n. 852 del 2012:
( con il ricorso introduttivo:
- del provvedimento n. 30/2011/1 di rigetto della domanda di permesso di costruire in sanatoria per interventi strutturali e modifica di destinazione d’uso di parte del capannone destinata a deposito;
nonché per la disapplicazione o l'annullamento, in parte qua:
- del vigente Piano di Governo del Territorio del Comune di Bellusco e, segnatamente, dell'articolo 122 del Piano delle Regole, nonché di ogni altro atto ad esso eventualmente connesso, presupposto o conseguente;
( con i motivi aggiunti depositati il 31.10.2012:
- dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi in Corso Alpi n. 23/2, n. 32/2012 emessa in data 26.7.2012;
>> quanto al ricorso n. 2699 del 2012:
- dell'ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi in Corso Alpi n. 23/2 a carico di Zhou Xiao Dong e Schiavi SPA, n. 32/2012 del 26 luglio 2012.
Visti i ricorsi i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Bellusco;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 novembre 2013 la dott.ssa Concetta Plantamura e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Col ricorso notificato il 26.03.2012 e depositato il successivo 11.04.2012, Zhou Xiao Dong ha impugnato, in proprio e in qualità di titolare dell’impresa individuale “Kin Kin Store”, il diniego di permesso di costruire in sanatoria adottato dal Comune di Bellusco in ordine alla sua domanda del 6.04.2011.
L’intervento oggetto di diniego ha riguardato, in particolare, le opere meglio descritte nel verbale n. 781 del 20.01.2011 dell’ufficio tecnico comunale (allegato n. 2 della produzione di parte resistente), relative alla realizzazione: a) di una porta di collegamento tra lo spazio commerciale esistente e la porzione di capannone a Sud; b) di una bussola d’ingresso nella facciata a S/O con ripostiglio laterale; c) di un muro di separazione in corrispondenza dei pilastri portanti lungo il lato N/O; d) del controsoffitto su tutta la superficie del locale; nonché, relative all’utilizzazione di tutta la superficie del locale per la vendita di capi d’abbigliamento anziché come deposito.
Tale intervento sarebbe, ad avviso del Comune, contrario all’art. 122 del piano delle regole (PdR) del vigente piano di governo del territorio (PGT) – che consente in ciascuna area a ciò deputata una sola media struttura di vendita – oltreché in violazione dell’atto unilaterale d’obbligo stipulato in data 29.05.2007 tra l’impresa Schiavi, proprietaria dell’area de qua, e il Comune di Bellusco.
I motivi di ricorso fanno leva:
1) sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 36 d.P.R. n. 380/01; nonché sull’eccesso di potere per errore e travisamento dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, illogicità e contraddittorietà.
Il Comune di Bellusco avrebbe, cioè, motivato il diniego di permesso di costruire in sanatoria sull’erroneo presupposto che l'intervento realizzato ad opera del ricorrente comporti il mutamento di destinazione d'uso di parte dell'immobile che, per contro, secondo l’istante avrebbe già integralmente una destinazione d'uso commerciale.
Anche laddove dovesse essere configurato, nella fattispecie cui ha dato causa il ricorrente, un cambio di destinazione d’uso, non per questo, prosegue la difesa istante, il permesso di costruire in sanatoria poteva essere denegato, potendo l’amministrazione valutare, ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380/2001, l’ammissibilità di detto mutamento.
2) Violazione dell'articolo 31 D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214; violazione e falsa applicazione di legge; eccesso di potere per insufficienza di motivazione, travisamento dei fatti, contraddittorietà ed erroneità dei presupposti.
Ciò, in quanto già in forza del vigente PGT l'edificio ove ha sede l'esercizio commerciale del ricorrente ricadrebbe in zona urbanistica destinata alle medie strutture di vendita, sicché le norme urbanistiche consentirebbero la destinazione dell'intero immobile, e non solo della superficie di 300 mq., a media struttura di vendita.
D’altra parte, prosegue il patrocinio ricorrente, l'art. 122 del PdR, laddove consente l'insediamento di una sola media struttura di vendita in ogni area che il PGT destina all'insediamento di medie strutture di vendita, appare del tutto privo di logicità e in contrasto con quanto oggi disposto dall'articolo 31 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214.
Con motivi aggiunti notificati il 22.10.2012 e depositati il 31.10.2012 il ricorrente ha esteso l’impugnazione all’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi emessa dal Comune di Bellusco in data 26.07.2012, deducendo, oltre al vizio di invalidità derivata dall’atto presupposto impugnato col ricorso introduttivo, i seguenti, autonomi motivi:
3) Violazione degli articoli 6, 10, 22, 31, 32, 33 e 37 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380; violazione e falsa applicazione degli articoli 27 e 42 della L.R. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12; violazione e falsa applicazione di legge; eccesso di potere per insufficienza di motivazione, travisamento dei
fatti, contraddittorietà ed erroneità dei presupposti.
Gli interventi eseguiti dal ricorrente non avrebbero, in sostanza, le caratteristiche richieste ai fini dell’applicazione dell’art. 31 citato rientrando, semmai, tra quelli previsti dall'art. 27, comma l, lett. b) della L.R. Lombardia n. 12/2005 definiti di "manutenzione straordinaria".
Il signor Zhou Xiao Dong avrebbe semplicemente riorganizzato la ripartizione interna degli spazi attraverso la realizzazione di un muro di separazione interno in cartongesso e di un controsoffitto.
Dal punto di vista sanzionatorio non potrebbe, dunque, applicarsi la sanzione prospettata dal Comune di Bellusco dell’acquisizione di diritto e gratuita al patrimonio comunale dell'opera abusiva, che si riferisce alla fattispecie di cui all'art. 31 D.P.R. n. 380/2001, mentre qui, sempre ad avviso del ricorrente, trattandosi di intervento riconducibile all'art. 22 del medesimo D.P.R. (opere realizzabili mediante D.I.A.) il regime sanzionatorio applicabile sarebbe quello disciplinato dall'art. 37 del D.P.R. n. 380/200l (che prevede la sola sanzione pecuniaria).
Si è costituito il Comune di Bellusco, controdeducendo con separata memoria.
Stando alla difesa comunale, per effetto delle opere realizzate senza titolo dal ricorrente la porzione di capannone precedentemente destinata a deposito, oggi abusivamente utilizzata quale negozio di vendita al dettaglio di capi d'abbigliamento, sarebbe stata resa del tutto autonoma quanto alla sua fruibilità grazie alla formazione di un nuovo accesso, realizzato nella facciata lato sud-ovest. In conseguenza di ciò, il ricorrente avrebbe posto in essere un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche di utilizzazione rispetto a quello originario.
Con l'atto unilaterale d'obbligo stipulato in data 29/5/2007, inoltre, l'impresa Schiavi S.p.A. - proprietaria dell'immobile concesso in affitto al ricorrente – avrebbe assunto l’obbligazione di insediare una media struttura di vendita sino al raggiungimento della superficie totale massima ammessa per l'insediamento di mq. 1500.
Prima dell’intervento abusivo di cui si tratta, prosegue la difesa comunale, nel fabbricato di proprietà della Schiavi risultava insediata, accanto ad un’attività commerciale della superficie di mq. 1200 circa (“Billa”), un “Kin Kin Store”, di titolarità dell’istante, con una superficie commerciale di mq. 300, per complessivi mq. 1500.
Dopo la realizzazione dell'abuso, invece, la superficie commerciale risulta incrementata di mq. 900 circa, per un totale di mq. 2.400, con conseguente sforamento della superficie destinata alla vendita rispetto a quanto previsto dal PdR e precisato nell'atto unilaterale d'obbligo.
In altri termini, secondo la ricostruzione del Comune, essendo unica l'area su cui è insediato il corpo di fabbrica di proprietà della Schiavi SpA., su di essa risulterebbe ammessa una sola media struttura di vendita, per complessivi 1500 mq, qual era quella esistente prima dell’abuso, benché condotta in locazione da due diversi soggetti: supermercato Billa e Kin Kin Store.
La difesa comunale evidenzia, in aggiunta, l’inammissibilità e/o la tardività del ricorso, atteso che l’esponente avrebbe prestato acquiescenza, con la propria richiesta di permesso di costruire in sanatoria, all'art. 122 del Piano delle Regole. In ogni caso, l’acquiescenza discenderebbe, sempre secondo la difesa comunale, dalla mancata impugnazione dell’ordinanza sindacale n.6/2012, di contestazione dell’ampliamento abusivo della superficie di vendita e conseguente inflizione della prescritta sanzione amministrativa.
Infine, il Comune rileva l’inammissibilità dei motivi aggiunti, stante l'evidente carenza di interesse ad agire del ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione, rivestendo lo stesso i panni del conduttore dell'immobile e non anche quelli del proprietario, a cui soltanto spetterebbe di dolersi dell'ingiunta acquisizione in caso di inottemperanza.
Col ricorso n. 2699/2012 r.g., notificato il 02.11.2012 e depositato il 16.11.2012, anche la soc. Schiavi ha impugnato l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi n. 32/2012 del 26.07.2012, deducendone la illegittimità per i seguenti motivi (proseguendo la numerazione di cui sopra):
4) Violazione dell’art. 31 d.P.R. n. 380/2001, atteso che la ricorrente non sarebbe affatto responsabile degli abusi contestati nelle premesse dell’atto impugnato, trattandosi di interventi realizzati dal conduttore su immobile da essa concesso in locazione (al riguardo, l’istante ha poi precisato di avere essa stessa diffidato il conduttore, con raccomandata del 15.10.2012, al ripristino dello stato dei luoghi).
5) Si ripropone qui il motivo articolato sopra sub n.3, nel ricorso del sig. Zhou.
Si è costituito anche qui il Comune di Bellusco, controdeducendo con separata memoria al ricorso avversario.
La difesa comunale ha contestato la circostanza della non conoscenza degli abusi da parte della proprietaria, rilevando come la stessa avrebbe conosciuto dell’esistenza degli abusi quanto meno sin dal 21.01.2011, data di ricevimento della comunicazione di avvio del procedimento relativo agli abusi medesimi.
All’udienza pubblica del 21 novembre 2013 il Collegio, dopo la discussione delle parti (la difesa ricorrente ha eccepito la tardività della memoria depositata dalla resistente, nel ricorso 2699/2012, in data 22.10.2013), ha trattenuto la causa per la decisione.
Preliminarmente, il Collegio dispone la riunione del ricorso n. 2699/2012 al ricorso n. 852/2012, per evidenti ragioni di connessione oggettiva e soggettiva (trattasi della medesima vicenda fattuale e dell’impugnazione della medesima ordinanza di riduzione in pristino, proposta in un caso dal conduttore e nell’altro dalla proprietaria del medesimo immobile).
Indi, partendo dall’esame del ricorso n. 852/2012, occorre in primo luogo scrutinare l’eccezione, sollevata dalla resistente amministrazione, di inammissibilità per intervenuta acquiescenza.
Il Collegio ritiene che la stessa debba essere disattesa.
Le circostanze in relazione alle quali viene affermata l’intervenuta acquiescenza agli atti sub iudice sono, da un lato, che il ricorrente non ha proposto azione impugnatoria avverso l’ordinanza di sospensione dell’attività per violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 114/1998; e, dall’altro, che lo stesso ha, anzi, presentato domanda di sanatoria, con cui avrebbe riconosciuto che l’area di riferimento è normata dall’art. 122 del PdR.
Sennonché, entrambe queste circostanze appaiono al Collegio inidonee ad evidenziare un comportamento inequivocabilmente incompatibile con la coltivazione dell’azione impugnatoria proposta con il ricorso in epigrafe specificato.
Quanto alla sanzione amministrativa, infatti, essa viene applicata bensì, per l'ampliamento della superficie di una media struttura di vendita, ma poiché realizzata senza l’ “autorizzazione rilasciata dal comune competente per territorio” (cfr. art. 8 cit.). Trae, da ciò spiegazione, allora, la successiva richiesta di permesso in sanatoria dell’istante, denegata dal Comune col provvedimento qui avversato.
Ne consegue che, la mancata impugnazione della suindicata ordinanza non è in grado di evidenziare la sussistenza di una volontà, in capo al ricorrente, contrastante con l’interesse alla coltivazione del ricorso.
Né si può, poi, ritenere che la domanda di sanatoria presentata il 6.04.2011, siccome redatta su modulo che faceva riferimento alla disciplina urbanistica della zona, potesse valere come rinuncia alla volontà di impugnare l’art. 122 PdR, essendo evidente che proprio tale richiamo, contenuto nella predetta domanda, denoti il convincimento del ricorrente in ordine alla non ostatività della norma stessa ai fini del rilascio del titolo edilizio richiesto.
Più in generale, va rammentato che l’acquiescenza esige un'esplicita e non equivoca manifestazione di volontà di piena accettazione degli atti che si pretende di impugnare, mediante il compimento di atti o comportamenti univocamente rivelatori della volontà di accettarne gli effetti, posta in essere in un momento successivo a quello in cui si è verificata la lesione dell'interesse legittimo azionato.
Discende da ciò che nessuna acquiescenza alla tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo azionato è configurabile in caso di mancata impugnazione di atti (com’è qui per l’art. 122 cit.) precedenti a quello impugnato.
Quanto all’eccezione di tardività dell’impugnazione spiegata avverso tale norma regolamentare, va notato come i provvedimenti legislativi sopra menzionati (D.L. 201/2011 conv. in legge da L. n. 214/2011) siano sopravvenuti al PGT e i loro effetti sulla normativa preesistente saranno meglio chiariti nel prosieguo.
In ogni caso, va da subito notato come la concreta lesività della norma regolamentare non potesse essere nota all’istante, discendendo la stessa dalla concreta applicazione che l’amministrazione ne avrebbe fatto mediante il diniego qui avversato (siccome adottato senza esplicitare le esigenze di ordine ambientale o urbanistico cui le limitazioni introdotte dall’art. 122 citato potevano essere preordinate).
Passando ad esaminare il merito del ricorso, il Collegio, ad un più approfondito rispetto a quanto emerso in sede di cognizione sommaria, osserva quanto segue.
La giurisprudenza più recente, anche di questo Tribunale (cfr. TAR Lombardia, Milano, I, sentenze 10.10.2013 n. 2271; id., 29.01.2014, n. 326) è incline a ritenere che gli atti di pianificazione urbanistica non possono introdurre limiti e restrizioni all’insediamento o ampliamento delle attività economiche in determinati ambiti territoriali, se essi non sono riconducibili ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale.
A tale conclusione si perviene in base ad una ricostruzione del quadro normativo vigente che, partendo dal d.lgs. n.114/1998, passa attraverso il d.l. n. 223/2006, giungendo così ad esaminare le conseguenze derivanti dalla direttiva comunitaria n. 123/2006 (detta “Bolkestein”).
In tal senso, viene rammentato come proprio la normativa comunitaria preveda che l’iniziativa economica non possa essere di regola assoggettata ad autorizzazioni e limitazioni, essendo ciò consentito solo qualora sussistano motivi imperativi di interesse generale, rientranti nel catalogo formulato dalla Corte di Giustizia.
La direttiva Bolkestein è stata recepita nell’ordinamento interno dal d.lgs. n. 59 del 2010 e ad essa sono ispirati tutti i provvedimenti di liberalizzazione varati nella scorsa legislatura, i quali ne hanno precisato la portata e gli effetti.
Costituisce una costante di tutti questi atti normativi la distinzione fra atti di programmazione economica – che in linea di principio non possono più essere fonte di limitazioni all’insediamento di nuove attività – e atti di programmazione aventi natura non economica, i quali, invece, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono imporre limiti rispondenti ad esigenze annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale (cfr. art. 11, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 59 del 2010, art. 34, comma 3, lett. a) del d.lgs. 201/2011).
Tale distinzione riverbera i suoi effetti anche nell’ambito degli atti di programmazione territoriale, i quali non vanno esenti dalle verifiche prescritte dalla direttiva servizi per il solo fatto di essere adottati nell’esercizio del potere di pianificazione urbanistica, dovendosi in concreto verificare se essi perseguano finalità di tutela dell’ambiente urbano o, comunque, riconducibili all’obiettivo di dare ordine e razionalità all’assetto del territorio, oppure perseguano la regolazione autoritativa dell’offerta sul mercato dei servizi attraverso restrizioni territoriali alla libertà d’insediamento delle imprese.
Il legislatore ha stabilito, infatti, che:
a) ricadono nell’ambito delle limitazioni vietate (salvo la sussistenza di motivi imperativi d’interesse generale) non solo i piani commerciali che espressamente sanciscono il contingentamento numerico delle attività economiche, ma anche gli atti di programmazione che impongono “limiti territoriali” al loro insediamento (cfr. artt. 31, comma 1 e 34, comma 3 del D.L. 201/2011);
b) debbono, perciò, considerarsi abrogate le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici (art. 1 del D.L. n. 1/2012).
La conclusione, in definitiva, è nel senso che le norme sopra menzionate impongono al giudice chiamato a sindacare la legittimità degli atti di pianificazione urbanistica che dispongono limiti o restrizioni all’insediamento di nuove attività economiche in determinati ambiti territoriali, l’obbligo di effettuare un riscontro molto più penetrante di quello che si riteneva essere consentito in passato. Ciò, per verificare, attraverso un’analisi degli atti preparatori e delle concrete circostanze di fatto che a tali atti fanno da sfondo, se effettivamente i divieti imposti possano ritenersi correlati e proporzionati ad effettive esigenze di tutela dell’ambiente urbano o afferenti all’ordinato assetto del territorio sotto il profilo della viabilità, della necessaria dotazione di standard o di altre opere pubbliche, dovendosi, in caso contrario, reputare che le limitazioni in parola non siano riconducibili a motivi imperativi di interesse generale e siano, perciò, illegittime (cfr., sul punto, la sentenza 15/3/2013, n. 38 della Corte costituzionale, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale per contrasto con l’art. 31 del D.L. 201 del 2011 dell’art. 5, commi 1, 2, 3, 4 e 7, e dell'art. 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 16 marzo 2012, n. 7, perché con essi veniva precluso l’esercizio del commercio al dettaglio in aree a destinazione artigianale e industriale, in assenza di plausibili esigenze di tutela ambientale che potessero giustificare il divieto).
E’ interessante, all’uopo, rimarcare anche la soluzione data dalla citata sentenza n. 2271/2013 all’obiezione secondo la quale le norme di liberalizzazione non potrebbero trovare applicazione nel caso in cui siano sopravvenute rispetto alla disciplina urbanistica e commerciale da essa adottata, la cui efficacia, in difetto di tempestiva impugnazione, non avrebbe potuto più essere rimessa in discussione nell’ambito dei ricorsi riguardanti gli atti applicativi.
Replica, sul punto, il Tribunale che i provvedimenti legislativi sopra menzionati non dispongono solo per il futuro, ma contengono clausole di abrogazione attraverso le quali il legislatore statale ha manifestato la volontà di incidere sulle norme regolamentari e sugli atti amministrativi generali vigenti, imponendo alle regioni e agli enti locali una revisione dei propri ordinamenti finalizzata ad individuare quali norme siano effettivamente necessarie per la salvaguardia degli interessi di rango primario annoverabili fra i motivi imperativi di interesse generale e quali, invece, siano espressione diretta o indiretta dei principi dirigistici che la direttiva servizi ha messo definitivamente fuori gioco (vedasi l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 31 del D.L. 201 del 2011 e il comma 4 dell’art. 1 del D.L. n. 1 del 2012).
Il problema se, una volta decorso il periodo assegnato agli enti territoriali per recepire i nuovi principi nei propri ordinamenti, le norme regolamentari e gli atti amministrativi generali con essi incompatibili debbano considerarsi automaticamente abrogati (e, quindi, non più applicabili anche nei giudizi concernenti l’impugnazione di atti applicativi) ha già trovato risposta nella giurisprudenza amministrativa, la quale ha sancito che l’inutile decorso del termine assegnato dal legislatore statale per l’adeguamento degli ordinamenti regionali e locali ai principi in materia di concorrenza determina la perdita di efficacia di ogni disposizione regionale e locale, legislativa e regolamentare, con essi incompatibili. E ciò in forza di quanto sancito dal comma 2 dell’art. 1 della L. 131 del 2003, a mente del quale le disposizioni regionali vigenti nelle materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle disposizioni statali in materia (cfr. Cons. Stato, V, sent. 5/5/2009, n. 2808; TAR Toscana, n. 6400/2010; TAR Sicilia, Palermo, n. 6884/2010, TAR Friuli Venezia Giulia n. 145/2011).
In definitiva, va rimarcato come i recenti interventi normativi (art. 31 del d.l. n. 201/2011 convertito con L. n. 214 del 22 dicembre 2011, modificato dal d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito dalla Legge n. 98 del 9 agosto 2013) abbiano ulteriormente consacrato, quale principio generale dell’ordinamento nazionale, la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti o limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla “tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano e dei beni culturali” (cfr. Consiglio di Stato, n. 1945/2013; Consiglio di Stato n. 4337/2013; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. III, sent. 23.9.2011 n.1674).
Con specifico riguardo al caso in esame, emerge la fondatezza delle censure con cui si lamenta la violazione dell’art. 31 D.L. 201/2011, nonché il difetto di istruttoria e di motivazione dell’operato dell’amministrazione sfociato nel diniego di sanatoria, atteso che, al cospetto della limitazione all’insediamento e/o all’ampliamento di medie strutture di vendita posta dall’art. 122 citato, il Comune stesso non ha fornito alcuna dimostrazione che detta limitazione fosse giustificata dai superiori motivi imperativi di interesse generale sopra ricordati.
È utile osservare, per maggiore dettaglio, che l’amministrazione avrebbe dovuto evidenziare nel diniego, anche al cospetto degli obblighi assunti dalla soc. Schiavi nell’atto d’obbligo più volte richiamato, l’insufficienza degli stessi ai fini dell’insediamento di una nuova struttura di vendita o, comunque, la indisponibilità della stessa società all’assunzione di ulteriori obblighi, che si fossero resi necessari a salvaguardia dei superiori motivi più sopra evidenziati, di cui pure occorreva dare contezza.
Nulla di tutto, invece, è emerso dagli atti di causa, poiché il Comune ha ritenuto che la presenza della norma impedisse ex se la possibilità di insediare nell’area di proprietà della soc. Schiavi un’altra struttura di vendita, in aggiunta a quella per la quale era stato stipulato l’atto d’obbligo più volte richiamato.
In tal senso, giova precisare come la difesa comunale affermi, ma senza fornirne alcuna dimostrazione, che gli impegni assunti dalla società Schiavi nell’atto unilaterale d’obbligo del 29.05.2007 sono inadeguati rispetto alla dotazione di standard o di altre opere pubbliche richieste dalla destinazione d’uso realizzata dal ricorrente.
Sussiste, per tale via, la lamentata violazione dell’art. 31 citato, in uno col difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento di rigetto impugnato, in quanto non preceduto da una verifica in concreto della ricorrenza delle finalità di interesse generale, che sole potrebbero consentire le limitazioni all’insediamento di nuove attività economiche, come quelle contenute nell’art. 122 citato, da parte di atti di programmazione aventi natura non economica.
La pregnanza delle suesposte censure consente di soprassedere dallo scrutinio dei restanti motivi del ricorso introduttivo, da reputarsi dunque assorbiti.
Dall’accoglimento del ricorso introduttivo consegue quello dei motivi aggiunti che, vertendo sull’atto conseguente a quello impugnato col ricorso, fanno principalmente leva sul vizio di invalidità derivata da reputarsi, per quanto sin qui esposto, fondato.
In conclusione, quindi, va accolto, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso n. 852/2012 e i relativi motivi aggiunti e, per l’effetto, vanno annullati il diniego di permesso di costruire in sanatoria e l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, come in epigrafe meglio specificati.
Dall’accoglimento del ricorso n. 852/2012 consegue l’improcedibilità per difetto di interesse del ricorso n. 2699/2012, vertente sulla medesima ordinanza impugnata coi motivi aggiunti nel ricorso n. 852/2012, già annullata con effetto erga omnes.
Sulle spese il Collegio, stante la novità delle questioni trattate e la diversa valutazione operata in sede di cognizione sommaria, ritiene sussistano valide ragioni per disporne la compensazione fra le parti costituite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti, così statuisce:
- riunisce il ricorso n. 2699/2012 al ricorso n. 852/2012;
- accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il ricorso n. 852/2012, e relativi motivi aggiunti e, per l’effetto, annulla gli atti con essi impugnati;
- dichiara improcedibile il ricorso n. 2699/2012.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Milano nelle camere di consiglio dei giorni 21 novembre 2013 e 4 febbraio 2014, con l'intervento dei magistrati:
Angelo De Zotti, Presidente
Concetta Plantamura, Primo Referendario, Estensore
Silvia Cattaneo, Primo Referendario
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/03/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)