Il caso ILVA: profili penali-ambientali

di Carlo RUGA RIVA

 

Il caso ILVA: profili penali-ambientali



Sommario: 1. Premessa. – 2. Il significato di fondo del processo Ilva. – 3. Il capo di imputazione. – 3.1. Il disastro ambientale. 3.2. – L’omissione dolosa di cautele. – 3.3. L’avvelenamento di acque e di sostanze alimentari. – 4. L’eventuale rispetto dei valori-soglia è irrilevante? – 5. Il grande assente: i morti e i malati. – 6. La responsabilità da reato dell’ente e il concetto di interesse o vantaggio. – 7. Il caso Ilva: paradigma della lotta della magistratura all’industria inquinante, da combattersi (anche) in fase cautelare.

1. Premessa

Il caso Ilva1, nel momento in cui scriviamo, si trova alle prime battute dell’udienza preliminare.

Le riflessioni che seguiranno non potranno quindi che prendere le mosse dall’ipotesi di accusa, fin qui largamente avallata dalla magistratura giudicante tarantina in sede cautelare.

Consci della provvisorietà dei fatti, della loro prova e del loro inquadramento giuridico, ci limiteremo pertanto ad uno sguardo dall’alto, cercando di cogliere le linee di fondo di un procedimento che, ancor prima di approdare alla fase processuale, ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, del Governo e del Parlamento in relazione a provvedimenti cautelari di enorme portata storico-giudiziaria: sequestro di interi reparti dell’attività produttiva (in particolare area a caldo), con conseguente blocco della produzione e nomina di custodi-amministratori giudiziari con compiti inizialmente di spegnimento degli impianti, e poi di risanamento ambientale2; sequestro di ingenti quantitativi di prodotti finiti e semilavorati; sequestro per equivalente finalizzato alla confisca per l’astronomica cifra di 8 miliardi e cento milioni di euro, poi annullato dalla Cassazione.

  1. Il significato di fondo del processo Ilva.

Il processo all’Ilva3 di Taranto e ai suoi vertici aziendali è anzitutto un processo ad un modo di produzione4.

L’Ilva – in ipotesi di accusa - avrebbe scientemente e sistematicamente organizzato la propria attività produttiva massimizzando il profitto a discapito dell’ambiente, della vita e della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini.

Peraltro, la quantità e qualità delle imputazioni (35 capi di imputazione contestati a 50 persone fisiche, 3 capi contenenti illeciti amministrativi da reato contestati a 3 persone giuridiche), cosiccome le vicende cautelari che hanno attinto Ilva e le società controllanti, ingenerano il dubbio che si tratti, più radicalmente, di un processo ad un tipo di produzione (grande industria dell’acciaio), reputato in sé non sostenibile sul piano ambientale.

Basti pensare alla cifra oggetto di sequestro per equivalente finalizzato alla confisca (8 miliardi e cento milioni di euro, pari nell’impostazione della magistratura tarantina ai costi di risanamento ambientale, ovvvero di riadeguamento degli impianti), all’evidenza non sostenibile da alcun soggetto, né privato né pubblico.

Il processo all’Ilva è anche un processo ai poteri dello Stato: risultano indagati a vario titolo i rappresentanti del potere esecutivo (Sindaco di Taranto, Presidente e Assessore all’ecologia ed ambiente della Provincia di Taranto, Presidente e taluni assessori della Regione Puglia; dirigenti e funzionari di Arpa Puglia e della commissione IPCC-AIA).

Sotto processo sono finiti anche attori e comprimari della giustizia: avvocati, consulenti tecnici, ispettori della polizia di Stato e luogotenenti dei Carabinieri, nella veste, volta a volta, di corrotti, rivelatori di segreti di ufficio e di favoreggiatori.

Tali soggetti rappresentano circa la metà degli imputati, gli altri essendo riconducibili alle società del gruppo Riva (dai Presidenti del Cda agli amministratori delegati fino ai vari capo-reparto).

Breve: il processo all’Ilva è anche un processo al sistema di potere che a vari livelli avrebbe consentito all’azienda di inquinare in modo massiccio per decenni sulla pelle di cittadini e lavoratori.

Non troppo sorprendentemente dal fuoco accusatorio si salva solo la medesima magistratura, che pure in passato ha imbracciato contro Ilva la sola arma spuntata delle contravvenzioni ambientali e antinfortunistiche, o talvolta quella del delitto di omissione dolosa di cautele, anziché quella più incisiva dell’insieme dei gravi delitti dolosi contestati oggi, ma la cui consumazione sarebbe iniziata dal 1995.

Infine, il caso Ilva chiama in causa anche il potere legislativo, o meglio i rispettivi confini e responsabilità dell’azione giudiziaria (in specie cautelare) e dell’azione legislativa, cosiccome i rapporti tra provvedimenti giurisdizionali cautelari e provvedimenti della pubblica amministrazione.

E’ noto infatti che si è assistito ad un aspro conflitto tra potere giudiziario e potere legislativo5 (cfr. infra, 7): il secondo ha emanato provvedimenti volti a “superare” l’impasse del blocco dell’attività produttiva, arrivando a nominare un Commissario straordinario per la gestione dello stabilimento con poteri e funzioni degli organi di amministrazione dell’impresa, e a incorporare l’AIA in una legge pensata appositamente per affrontare il problema Ilva; in tutta risposta la Procura della Repubblica di Taranto, il Tribunale del Riesame e il Gip hanno sollevato conflitto di attribuzione e questioni di illegittimità costituzionale di tali provvedimenti, lamentando in particolare un’invasione di campo del potere legislativo rispetto ad un procedimento in corso (e a provvedimenti di sequestro in atto), con lesione delle prerogative di autonomia del potere giudiziario (sull’intera vicenda si vedano i vari contributi pubblicati su www.penalecontemporaneo.it).

  1. Il capo di imputazione.

Il nucleo duro dell’accusa si incentra sulla associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti contro l’incolumità pubblica (omissione dolosa di cautele; disastro c.d. ambientale; avvelenamento di sostanze destinate all’alimentazione, cfr. infra, 3.1., 3.2. e 3.3.) e contro la pubblica amministrazione (concussione, corruzione, falsi e abuso di ufficio, nonché sui correlati delitti-scopo).

Vi sono poi accuse di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento a carico di soggetti che a vario titolo avrebbero cercato di agevolare l’attività inquinante di Ilva, o di “coprire” i vertici aziendali o i politici e i funzionari collusi.

Compaiono infine una lunga serie di contravvenzioni in materia ambientale (concernenti la disciplina dei rifiuti e delle discariche, l’aria, le acque e la disciplina sulla prevenzione di incidenti rilevanti), nonché fattispecie codicistiche ˗ art. 674, 635, 639 c.p. ˗ secondo l’uso della giurisprudenza impiegate a fini di tutela ambientale.

L’accusa, nel procedimento in commento, non contesta alcuna violazione dell’AIA; non è dato sapere se tale scelta dipende dal fatto che le prescrizioni sarebbero state formalmente rispettate, o, più plausibilmente, se le relative violazioni, sanzionate ai sensi dell’art. 29-quattuordecies, co. 2 d.lgs. n. 152/20066, siano state ritenute soccombenti rispetto alla clausola “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, a vantaggio dei molti reati contravvenzionali in tema di inquinamento puniti più severamente7.

In ogni caso, si contesta più radicalmente il rilascio di un’AIA illegittima (il cui rilascio costituirebbe abuso di ufficio a vantaggio dei proprietari dello stabilimento, capo PP di imputazione), frutto di indebite pressioni da parte di un legale di Riva, ritenuto membro dell’associazione per delinquere formata in accordo con i vertici aziendali di Ilva (capo A di imputazione).

Infine, vi sono contestazioni per omicidio e lesioni colpose da violazione di norme antinfortunistiche, mosse sia a dirigenti che all’Ilva ex d.lgs. 231/2001.

L’associazione per delinquere avrebbe dato vita ad un “programma associativo teso all’ottenimento del massimo profitto a scapito delle criticità ambientali e di sicurezza degli impianti dello stabilimento” (capo A di imputazione).

Il programma di massimizzazione del profitto (in sé lecito e fisiologico, nonostante l’enfasi contraria posta dall’accusa) sarebbe appunto stato perseguito illecitamente, omettendo investimenti doverosi in tutela dell’ambiente e sicurezza, grazie prima alla connivenza del potere amministrativo e politico, e poi al favoreggiamento di molti soggetti, anche appartenenti al mondo investigativo.

Si noti che l’associazione criminale coincide perfettamente con l’organigramma aziendale, a partire dalla data del suo inizio, ovvero dal 1995, epoca in cui la famiglia Riva acquisì la proprietà degli stabilimenti tarantini, mentre nessuna contestazione è mossa ai vertici delle precedenti proprietà, che pure hanno gestito lo stabilimento dal 1960, contribuendo verosimilmente all’emissione di sostanze (quali la diossina) che permangono nell’ambiente per molti decenni.

Sicché nell’impostazione accusatoria – davvero radicale - ILVA nasce e cresce come associazione per delinquere, fin da subito tesa a commettere svariati gravi reati onde evitare il rispetto delle normative di tutela ambientale e di sicurezza via via succedutesi, e così assicurarsi il massimo profitto.

Non è questa la sede per riflettere sulla tenuta logico-giuridica di un programma associativo siffatto, che tra i reati scopo annovera taluni delitti (disastro doloso, omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, avvelenamento doloso di acque e sostanze alimentari) ben difficilmente riconducibili ad un interesse di Ilva tale da orientarvi da subito la propria attività produttiva e le proprie risorse organizzative, cosiccome non vi è spazio per interrogarsi sulla riconducibilità al programma criminoso di delitti al più commessi – verosimilmente - con dolo eventuale (si pensi al disastro ambientale, che tra l’altro richiede un dolo più intenso, e all’avvelenamento di sostanze destinate all’alimentazione).

Ragioni di spazio impongono di concentrare l’attenzione sui reati contro l’incolumità pubblica e contro l’ambiente.

3.1. Il disastro ambientale

L’accusa contesta a 17 dirigenti di Ilva il c.d. disastro ambientale8, in forma dolosa e aggravata (art. 434 co. 2, capo B di imputazione), commesso dal 1995 al 20.06.2013 per i rispettivi periodi di carica.

In sintesi coloro che avevano responsabilità di gestione avrebbero, attraverso massive emissioni di sostanze nocive nell’aria (specie diossina), sia interne che esterne allo stabilimento, determinato “gravissimo pericolo per la salute pubblica” e cagionato “eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico”.

L’accusa, nel capo di imputazione relativo al disastro, non fa riferimento ad alcun superamento di valori-soglia o a violazioni di prescrizioni, né più in generale alla illiceità delle emissioni nell’aria (cfr. infra, 4), né caratterizza nel dettaglio l’estensione e gli effetti di contaminazione ambientale causati dalla emissione delle polveri.

In altre parole l’accusa descrive la condotta (l’emissione di fumi e polveri) e l’evento finale (il pericolo per la salute pubblica), ma non l’evento intermedio, che pure, secondo consolidata giurisprudenza, avallata dalla Corte costituzionale9, deve consistere in un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, da legare causalmente al distinto pericolo per l’incolumità pubblica.

Ora, sono note le critiche della dottrina largamente prevalente sulla riconducibilità di contaminazioni frutto di inquinamenti decennali allo schema del disastro innominato, il quale esigerebbe una compromissione violenta e puntuale della realtà fenomenica, incompatibile con contaminazioni “per accumulo” stratificate nel tempo10.

E’ altrettanto noto che la prassi giurisprudenziale, sorda alle critiche dottrinali, applica costantemente il reato di c.d. disastro innominato a molti casi di inquinamenti pericolosi per la salute: talvolta omettendo la descrizione dell’evento intermedio, talaltra individuandolo in fenomeni di grave contaminazione ambientale per una o più matrici ambientali11, o, da ultimo, come sostenuto di recente nella sentenza di Appello Eternit12, risolvendolo nel fenomeno epidemico rappresentato dall’elevato eccesso di mortalità e morbilità in relazione a talune patologie.

La Procura della Repubblica tarantina sembra seguire la prima strada.

Parrebbe, nella tesi d’accusa, che l’evento intermedio dell’inquinamento sia ritenuto implicito nella produzione dell’evento “gravissimo pericolo per la salute pubblica”, affiancato, come vedremo subito, dalla descrizione di un evento di danno alla vita e alla salute dei residenti limitrofi allo stabilimento (i morti e gli ammalati, pur non quantificati neppure sul piano epidemiologico).

Nel capo di imputazione sul disastro ambientale si fa riferimento espresso alla sola matrice ambientale-aria, nonché, parrebbe, riferimento implicito al suolo, allorché si menzionano le “aree interne allo stabilimento, nonché rurali ed urbane circostanti” lo stabilimento” quali zone di sversamento delle sostanze nocive; nessuna menzione è viceversa fatta a contaminazioni di acque o di animali, pure contestati in distinti capi di imputazione (sull’avvelenamento di acque e sostanze alimentari, ovvero mitili e ovini-caprini).

Il complessivo compendio probatorio (si veda il capo L sulle contravvenzioni ambientali e i capi sull’avvelenamento delle sostanze alimentari) ben avrebbe potuto fondare una contestazione in termini di evento intermedio (grave contaminazione ambientale intesa come evento distruttivo produttivo di effetti dannosi gravi, complessi ed estesi alle matrici ambientali aria, acqua e suolo, nonché agli animali), quanto meno al metro della giurisprudenza ormai consolidata.

Tuttavia così non è stato: nel capo di imputazione non vi è traccia dell’evento di contaminazione, ma solo del gravissimo pericolo per l’incolumità pubblica, il quale ha polarizzato la descrizione del fatto.

Anzi, ad essere più precisi l’accento, nel capo B) di imputazione, cade sugli “eventi di malattia e di morte”, pur non quantificati.

Insomma, nessuna precisa caratterizzazione e quantificazione della contaminazione ambientale (contenuto, effetti, costi di bonifica) quale evento intermedio produttivo a sua volta del pericolo per la incolumità pubblica.

Tale vaghezza si riscontra anche nel capo di imputazione specificamente dedicato ai reati ambientali, dove compare solo un fugacissimo cenno al reato di omessa bonifica (capo L, g.), circoscritto a “polveri abbattute dai sistemi di elettrofiltrazione dei fumi dell’impianto di agglomerazione AGL/2 che avrebbero inquinato l’ambiente con superamento delle concentrazioni soglia di rischio” (non menzionate numericamente né in riferimento alla classe di sostanze chimiche incriminate).

Qualche maggiore dettaglio è fornito dal Tribunale del Riesame di Taranto, che nel provvedimento del 20.8.2012 specifica che “la durata temporale e l’ampiezza in termini spaziali delle attività di inquinamento giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi di disastro innominato”…; “si tratta di azioni ed omissioni aventi una elevata potenzialità distruttiva dell’ambiente con conseguente grave ed estesa capacità lesiva, tale da provocare un effettivo pericolo per l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone” (p. 81 delle motivazioni).

Anche il Giudicante non sembra però sciogliere del tutto l’ambiguo riferimento a fatti che avrebbero potenzialità distruttiva dell’ambiente, ma che non l’avrebbero distrutto effettivamente.

Che cosa deve intendersi per evento di danno ambientale grave all’ambiente? Un rischio potenziale alle matrici ambientali, o una loro notevole, effettiva compromissione?

A nostro parere la risposta al quesito non va rintracciata nella definizione normativa di danno ambientale, la quale è pensata, come spiega la rubrica della Parte sesta del d.lgs. n. 152/2006, sul criterio civilistico della tutela risarcitoria (art. 300).

E’ dunque evidente che l’evento distruttivo con effetti dannosi gravi, complessi ed estesi per l’ambiente, dal punto di vista penalistico, deve intendersi come danno di ingente portata per l’ambiente, e non come mero rischio.

Questa interpretazione sembra tra l’altro l’unica in grado, non senza qualche forzatura, di sussumere la contaminazione ambientale grave nel già ricordato concetto di “evento distruttivo”, paragonabili agli “altri” disastri tipizzati.

Ai fini della integrazione dell’evento intermedio “disastro” ambientale non rilevano allora, ad esempio, talune definizioni contenute nell’art. 300, co. 2 del d.lgs. n. 152/2006 con riferimento sia alle acque (ove si parla tra l’altro di “potenziale ecologico delle medesime”, lett. b.) che al terreno: “qualsiasi contaminazione che crei un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana a seguito dell’introduzione sul suolo…di sostanze, preparati…nocivi per l’ambiente” (lett. d.).

D’altra parte la diversa possibile ricostruzione dell’evento intermedio come fenomeno epidemico, secondo l’impostazione di recente dal Giudice di Appello nel caso Eternit, non sarebbe stata convincente; è infatti evidente, come sostenuto di recente da un attento studioso dei rapporti tra diritto penale ed epidemiologia13, che l’eccesso di mortalità ricavabile in ipotesi dalla citata perizia costituisce la verifica di un danno ex post e non la prognosi ex ante di un pericolo per la pubblica incolumità.

D’altro canto la pena prevista per il disastro doloso aggravato è inferiore a quella prevista per l’omicidio colposo plurimo: indizio significativo del fatto che morti e malattie non rientrano tra gli elementi costitutivi del disastro14.

A ciò si può aggiungere che gli “altri” disastri (valanga, inondazione, disastro ferroviario, crollo di costruzioni ecc.) condividono con la contaminazione ambientale “dannosa” il requisito della modificazione effettiva della realtà delle cose (natura o manufatti), che verrebbe a mancare nell’ipotesi del fenomeno epidemico, che è appunto un danno alla salute (ai corpi di essere umani).

3.2. L’omissione dolosa di cautele

Si contesta in secondo luogo (capo C di imputazione) l’omissione dolosa di cautele; segnatamente, l’omessa collocazione di “impianti ed apparecchiature idonee ad impedire lo sversamento di una quantità imponente di emissioni diffuse e fuggitive in atmosfera, nocive per la salute dei lavoratori…che subivano altresì eventi di danno alla salute stessa (malattia e morte)”.

L’accusa intreccia due profili: quello ambientale e quello della prevenzione degli infortuni.

La contestazione appare non priva di aspetti problematici: l’inadeguatezza funzionale degli impianti e delle apparecchiature riguarda anzitutto l’ambiente, e non, almeno direttamente e in vari casi, la prevenzione degli infortuni15.

Sul punto si è sottolineato come “la finalità antinfortunistica rappresenta non solo il fondamento, ma anche il limite dell’incriminazione”16.

Tale profilo problematico si apprezza chiaramente, a contrario, ponendo mente al distinto capo E di imputazione, ove si contesta un’omissione dolosa di cautele di stampo “classico”: l’uso di apparecchiature di sollevamento non idonee all’uso perché obsolete e inefficienti, tanto da avere causato la morte di un lavoratore: qui si tratta di un collegamento finalistico diretto tra un (inadeguato) apparecchio destinato ad essere utilizzato dai lavoratori ed un evento puntuale di infortunio.

In secondo luogo molte delle cautele omesse riguardano modalità di lavorazione reputate inidonee ad evitare diffusione di polveri e fumi (ad es. “scorrette modalità operative delle lavorazioni…fenomeni accidentali quali lo slopping…” (Tribunale del Riesame di Taranto, pag. 86), più che omesse collocazioni di impianti, apparecchi o segnali propriamente dette; circostanza che pone qualche dubbio sulla riconducibilità della fattispecie concreta allo schema dell’art. 437 c.p., come evidenziato in un caso non dissimile dal Tribunale di Venezia nel caso Petrolchimico.17

Nella omissione dolosa di cautele concernenti dispositivi anti-inquinamento si contesta la circostanza dell’essere il disastro (e l’infortunio) avvenuti (art. 437, co. 2 c.p.).

Analogamente alla contestazione ex art. 434 c.p., l’evento “disastro” viene correlato al massiccio sversamento in atmosfera di polveri nocive, affiancandovi il riferimento a malattie e morti (peraltro non quantificati nel capo di imputazione: né è dato sapere se e in che misura i numeri di decessi e patologie risultanti dalla perizia assunta nell’incidente probatorio si riferiscono a lavoratori18 anziché a “generici” cittadini tarantini).

L’evento “infortunio” viene riferito alle malattie, conformemente ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, per quanto criticato da larga parte della dottrina19 .

L’accusa sembra voler distinguere il disastro “interno” al perimetro dello stabilimento, ricondotto allo schema dell’art. 437, co. 2 c.p. e concernente i “lavoratori”, da quello “esterno”20, riferito all’art. 434, co. 2 c.p. e alla “popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico”: tuttavia, la fluidità dei confini tra stabilimento e città e tra lavoratori e popolazione limitrofa alla “fabbrica” emerge dalle contestazioni; in ambedue le imputazioni, infatti si fa riferimento alla diffusione di sostanze nocive sia nelle aree interne allo stabilimento che nell’ambiente circostante.

3.3. L’avvelenamento di acque e di sostanze alimentari

Si contestano poi due ipotesi di avvelenamento di sostanze alimentari: l’avvelenamento da diossina e PCB di 2.271 capi di bestiame (ovini-caprini) destinati all’alimentazione diretta e indiretta, abbattuti prima del consumo (capo H di imputazione) e l’avvelenamento dello specchio acque del 1° Seno del Mar Piccolo, ove si trovavano numerosi impianti di coltivazione di mitili, con contaminazione da diossina, PCB e metalli pesanti di diverse tonnellate di mitili, anch’essi distrutti per ragioni sanitarie.

L’accusa, per dare corpo al concetto di avvelenamento, non menziona il superamento di determinati valori soglia relativi alle varie sostanze nocive, assunte per via alimentare, limitandosi a collegare il pericolo per la salute pubblica con l’avvenuto abbattimento/soppressione del bestiame e dei mitili.

Il Tribunale del Riesame (p. 66 ss.) si è limitato a ritenere integrato l’elemento oggettivo del reato sulla base della elevata tossicità e quindi dannosità per la salute di diossine e PCB rinvenute nei terreni agricoli limitrofi allo stabilimento e nei tessuti di alcuni animali da pascolo, senza citare dati scientifici specifici legati alla pericolosità per l’uomo di determinate quantità o frequenze di consumo di cibi contaminati, salvo un fugace cenno a “valori residui di PCDD/PCDF significativi e, in più casi, superiori ai limiti previsti dalla normativa in materia di consumo alimentare” rinvenuti su animali abbattuti.

Naturalmente sarà da verificare in giudizio se le ragioni sanitarie sottese alla soppressione degli animali e a valori-soglia in tema di consumo alimentare valgano a meri fini precauzionali o se, viceversa, possano essere valorizzate come espressione di un pericolo reale di offesa21 alla salute e incolumità pubbliche; nel qual ultimo caso si dovrà valutare l’impatto causato da determinate assunzioni di cibo con determinate frequenze in dati campioni di assuntori.

Insomma, il concetto di avvelenamento dovrà essere spiegato al metro della scienza, non bastando il mero richiamo a provvedimenti amministrativi di abbattimento, la cui logica preventivo-precauzionale non coincide necessariamente con la logica penalistica dell’accertamento scientifico ex post di un pericolo reale corso dal bene tutelato.

Si noti che la contaminazione di bestiame e mitili sarebbe avvenuta dal 1995 al giugno 2013: tuttavia tale “avvelenamento” lento e costante non è contestato – al di là dei due casi puntuali citati, – come elemento materiale di altri reati (per es. disastro o altri delitti contro l’incolumità pubblica o l’integrità fisica).

In particolare il disastro è concepito come contaminazione dell’aria (non delle acque), e la salute animale è menzionata nel capo B) di imputazione come distinta, e non collegata, a quella umana.

La contestazione in esame fornisce un’interpretazione estensiva dell’oggetto di tutela, visto che le acque del 1° seno del Mar Piccolo di Taranto non erano direttamente “destinate all’alimentazione” umana, bensì all’allevamento dei mitili; analogamente gli ovini e i caprini contaminati vengono considerate “sostanze destinate all’alimentazione”, mentre a rigore lo saranno solo dopo determinate operazioni (di macellazione, di trasformazione dei derivati del latte ecc.).

E’ peraltro nota la tendenza della giurisprudenza, certo problematica rispetto al divieto di analogia, di ricomprendere nello spettro della fattispecie anche le acque destinate solo indirettamente all’alimentazione (ad es. tramite coltivazione di ortaggi o allevamento di bestiame)22.

4. L’eventuale rispetto dei valori soglia è irrilevante?

Nel caso in esame non sembra sia stato adeguatamente tematizzato il problema giuridico principale sotteso a molte imputazioni: l’eventuale conformità delle emissioni, per quanto in ipotesi nocive, alle soglie di legge o ai limiti contenuti nelle autorizzazioni cui Ilva doveva sottostare nei vari periodi oggetto di contestazione.

L’accusa infatti non contesta superamenti puntuali di valori specifici; e il Tribunale del Riesame23 ammette anzi che i valori di legge e quelli contenuti nell’AIA sono in larga parte rispettati (ad es. in tema di PM10, p. 63, e di diossina, p. 52; riassuntivamente p. 49). Tuttavia le emissioni diffuse e fuggitive (pp. 28 e 49), consentite dalle autorizzazioni senza specificazione di limiti quantitativi, non sarebbero state eliminate o ridotte ai minimi conseguibili impiegando le migliori tecnologie disponibili, e in ogni caso avrebbero superato la normale tollerabilità.

Certo, aleggia qua e là scetticismo sulla affidabilità dei dati forniti da ILVA (per es. per automonitoraggio incompleto, p. 77), e il rilascio dell’AIA del 2011 è considerato un abuso di ufficio a vantaggio di ILVA (capo PP di imputazione), ma nel complesso non si contesta lo sforamento dei valori-soglia, laddove previsti (p. 49).

Ed anzi, teorizza il Tribunale del Riesame (p. 88 s.), “nell’attuale assetto legislativo non può trovare ingresso una interpretazione che intenda i valori-limite fissati in relazione a determinate attività produttive quali soglie entro le quali non possano esigersi dai destinatari dei precetti interventi in chiave preventiva…ove venga in rilievo un conflitto tra due beni di rango costituzionale quali l’iniziativa economica e il diritto alla salute (dei cittadini e dei lavoratori) è scontato che debba prevalere il secondo…non sono difatti esistenti, per l’attività produttiva d’impresa, interessi che possano bilanciare e legittimare una compromissione del superiore interesse della pubblica incolumità”.

In questa sede possiamo solo accennare ad un tema di tale complessità, studiato in dottrina e affrontato in giurisprudenza con riferimento all’art. 674 c.p., a partire dalla controversa clausola “nei casi non consentiti dalla legge”, che nella più recente giurisprudenza viene interpretato perloppiù nel senso della irrilevanza penale di emissioni conformi ai valori-soglia (ove esistenti), per quanto eventualmente moleste24, ritenendo che tale formula, prevista nella seconda parte dell’art. 674, valga anche per la prima parte, e dunque in particolare anche per le polveri25.

Nell’ambito del getto pericolo di cose il valore soglia è stato variamente interpretato come elemento negativo del fatto tipico26, come elemento di illiceità espressa o speciale27 escludente l’antigiuridicità28, in entrambi i casi attraverso il rinvio alla legislazione di settore, oppure come regola cautelare la cui inosservanza integra colpa specifica (ma “lascia in piedi” il problema della colpa generica, ad esempio in caso di offese prevedibili ed evitabili adottando le migliori tecnologie disponibili), nell’orizzonte del c.d. rischio consentito29.

Ovviamente le questioni sorte nell’interpretazione dell’art. 674 c.p. non possono essere traslate acriticamente in relazione a distinte fattispecie (disastro ambientale, avvelenamento ecc.) che non contengono la clausola “nei casi non consentiti dalla legge”, né altre analoghe, quanto meno laddove si consideri tale clausola un elemento negativo del fatto30.

Se viceversa il rispetto del valore soglia viene considerato come soglia di liceità, o come limite di rischio consentito, concettualmente comuni a tutti i reati che possono essere realizzati tramite emissioni nell’ambito di attività autorizzate31, allora le riflessioni sorte sulla clausola “casi non consentiti” dalla legge possono essere riproposte con opportuni adeguamenti critici anche in relazione a reati diversi dall’art. 674 c.p.

E’ ciò che ha fatto di recente il Gip presso il Tribunale di Savona, in un noto provvedimento di sequestro32 (caso Tirreno Power), il quale, dopo avere riportato la recente giurisprudenza di legittimità sulla liceità, ex art. 674 c.p., di emissioni pur moleste, se e in quanto conformi ai valori soglia, ha esplicitamente ritenuto che tale orientamento non valga “laddove si verifichi un danno alla salute integrante una lesione personale, o addirittura un decesso, ovvero una pluralità di tali eventi, rientranti nella più ampia nozione di disastro”.

Sottesa a questa impostazione giurisprudenziale sembra esservi una logica di bilanciamento tra interessi confliggenti (produzione vs incolumità pubblica), con prevalenza del secondo, nell’ambito di un discorso giustificativo inquadrabile nella categoria della antigiuridicità.

In effetti se il valore-soglia segnasse il confine di liceità dell’emissione dal punto di vista del legislatore ambientale, ma nel caso concreto si dimostrasse che i suoi effetti sono concretamente pericolosi o dannosi per l’incolumità delle persone, si tratterebbe di rinvenire un criterio di risoluzione dell’antinomia capace di far prevalere gli uni o gli altri interessi in gioco,33 il cui bilanciamento spetterebbe al giudice, in base ai criteri generali (specialità, gerarchia, rango dei beni giuridici), diversamente da quanto previsto dall’art. 674 c.p., almeno qualora si legga la clausola “nei casi non consentiti dalla legge” come clausola di illiceità speciale avente la funzione di far prevalere l’emissione conforme alla legge, ovvero di risolvere ex lege il contrasto tra beni confliggenti.

L’esito di un tale bilanciamento, agli occhi della giurisprudenza di merito, sembra fatalmente segnato nel senso della prevalenza accordata all’interesse all’incolumità pubblica, specie se “dietro” il requisito formale del pericolo vi sia, come nei casi giudiziari ricordati, il dato epidemiologico sostanziale del danno al bene della vita e della salute di centinaia di persone.

A ben vedere, però, l’esito del bilanciamento parrebbe più problematico rispetto a quanto ritenuto dalla giurisprudenza richiamata: laddove vi sia un valore-soglia previsto dalla legge o dall’autorizzazione (l’AIA, nei casi citati), è la stessa Corte costituzionale34 ad attribuirvi il significato di punto di equilibrio tra interessi contrapposti, demandato alla legge o alla pubblica amministrazione ex ante, e non al giudice penale ex post.

Scrive la Corte costituzionale: “l’AIA riesaminata indica un nuovo punto di equilibrio, che consente…la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni…il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non è necessariamente il migliore in assoluto…ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo…”35

Insomma, se non esistono “diritti tiranni” aprioristicamente prevalenti sempre e comunque gli uni sugli altri – come ha ricordato la Corte costituzionale proprio in relazione ad una legge “ad Ilvam”36, – il bilanciamento andrà operato caso per caso, alla luce del complessivo quadro fattuale e normativo di riferimento, comprensivo anzitutto dei valori soglia vigenti al momento della condotta.

Il problema, tuttavia, sembra meglio inquadrabile nella prospettiva del rischio consentito37.

Senza alcuna pretesa di esaustività di un tema tanto complesso, va sottolineato che i reati in esame sarebbero stati commessi nell’esercizio di attività produttive inquinanti, subordinate al previo rilascio di un titolo abilitativo amministrativo, al rispetto di valori-soglia di legge o contenuti nell’autorizzazione e di prescrizioni dettate ad hoc sulle caratteristiche del singolo stabilimento industriale, delle sostanze inquinanti prodotte e del contesto ambientale di riferimento, all’esito di lunghi – troppo lunghi – confronti tra varie autorità pubblica e il titolare dell’insediamento produttivo.

Ciò premesso, la condotta tipica di inquinamento sembra essere solo quella inosservante delle prescrizioni e dei valori limite contenuti nell’autorizzazione, o comunque imposti dalla legge o dalle autorità amministrative competenti, non quella che abbia causato una qualsiasi offesa a questa o quella matrice ambientale, in una prospettiva puramente “naturalistica”.

Detto diversamente, la condotta conforme alle regole di settore non è penalmente tipica, perché (e finché) si muove nel perimetro di un rischio ponderato dal legislatore e/o dalla pubblica amministrazione, in una cornice normativa predeterminata, prima e a prescindere da ogni valutazione circa la prevalenza di uno degli interessi in gioco, ovvero prima di ogni valutazione in punto antigiuridicità.

Allo stesso risultato si perviene assumendo il punto di vista della teoria della imputazione oggettiva dell’evento38: la condotta osservante le norme di settore e le prescrizioni dell’autorità amministrativa, per quanto abbia in ipotesi causato un evento pericoloso (il disastro, l’avvelenamento) non ha creato un pericolo giuridicamente riprovato dall’ordinamento.

Soluzione in linea con la recente proposta di introduzione di uno specifico delitto di disastro ambientale, in cui l’evento deve essere realizzato “in violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale”39.

Proprio la gestione “taylor made” del rischio – certo salvo la patologia di abiti cuciti, come dire, troppo su misura del cliente… – concernente il singolo stabilimento industriale, con valori soglia e prescrizioni ad hoc o comunque tagliate su tipologie uniformi di attività e per determinate caratteristiche scientifiche delle sostanze inquinanti prodotte, pone preliminarmente un quesito estremamente delicato: è davvero ipotizzabile un disastro ambientale frutto di emissioni in atmosfera conformi ai valori-limite?

Il punto cruciale riguarda i criteri scientifici di fissazione e lo scopo dei valori-soglia: il loro superamento rappresenta un pericolo reale per le matrici ambientali o per l’uomo?

Una risposta adeguata richiederebbe uno studio scientifico caso per caso del senso dei singoli valori soglia per le singole sostanze, anche alla luce del bene di volta in volta tutelato, o quanto meno un accesso trasparente al dibattito scientifico sotteso alla individuazione dei valori e ai criteri politici utilizzati anche per l’adozione dei fattori di sicurezza.

I valori-soglia, si legge nella più autorevole letteratura penalistica impegnatasi sul tema40, vengono fissati, di regola, sulla base di valutazioni scientifiche preliminari, che individuano un livello di esposizione al quale non si osserva alcun effetto avverso; al valore così individuato le agenzie preposte alla fissazione dei valori-limite applicano un fattore di sicurezza, ispirato ad una logica ipercautelativa, normalmente pari a 10, 100 o 1000, in modo da giungere alla cristallizzazione di un dato il cui superamento non esprime alcun pericolo reale per la salute.

Non abbiamo le competenze scientifiche per valutare se anche nel caso di specie i valori-soglia concernenti le sostanze (IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli e polveri sottili) che avrebbero causato il disastro e l’avvelenamento siano stati fissati sulla base di una logica ultraprudenziale, o se viceversa il superamento dei valori limiti rappresenti già un pericolo reale.

Sulla diossina ci limitiamo a richiamare la dottrina e una parte della giurisprudenza, secondo cui il superamento dei valori limite riscontrato in animali destinati all’alimentazione non costituisce pericolo reale per l’incolumità pubblica41.

Meritevole di maggiori approfondimenti appare il caso delle polveri sottili (PM 10): secondo la citata perizia epidemiologica il superamento del valore limite di 20 μg/m³ suggerito dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (ma non dalla legge, che all’epoca della condotta imponeva il limite di 40 μg/m³) avrebbe causato un aumento di morti e ammalati rispetto a quelli attesi, dunque non solo un pericolo reale, ma addirittura un danno.

Senza alcuna pretesa di esaustività, va solo accennato ai formidabili problemi scientifici, politici e giuridici scaturenti dai valori-soglia concernenti il PM 1042.

Secondo recenti Guideline emanate dalla WHO nel 2006, con il fine di informare i “policy makers” sui rischi connessi all’inquinamento atmosferico causato da varie sostanze, comprese le polveri sottili (PM 10 e PM 2,5), la scienza non ha identificato valori limite sotto i quali non si osservano effetti avversi, sicché i valori-soglia proposti nelle Guideline non garantiscono piena protezione alla salute umana”43.

Ciò nonostante le Guideline suggeriscono ai policy makers determinati valori da raggiungere in vari step, anche in considerazione dei fattori locali (rischi per la salute, fattibilità tecnologica, considerazioni economiche e sociali).

Insomma, premesso che l’inquinamento cittadino atmosferico causa più di 2 milioni di morti ogni anno, e i fattori noti, quanto alla produzione di PM 10, riguardano attività socialmente utili (attività industriale, riscaldamento domestico e industriale, circolazione veicolare)44, è evidente che la WHO fornisce informazioni ai decisori pubblici, le cui strategie di contenimento del rischio dipenderanno da molte considerazioni, e da ultimo da un bilanciamento tra interessi confliggenti.

Si tratta di delicate scelte politiche, intrise di discrezionalità, che non possono e non devono essere demandate al giudice, il quale, in base al principio della separazione dei poteri, non può divenire arbitro delle politiche ambientali e industriali di un Paese.

In linea generale, e a prescindere dal caso delle polveri sottili, se e nella misura in cui si parli di valori soglia fissati in logica ultracautelativa, è scientificamente implausibile che le emissioni incriminate, per quanto durature nel tempo, possano offendere seriamente l’incolumità pubblica, salvo che il sapere scientifico successivo alla fissazione dei valori limite ne dimostri la palese inadeguatezza rispetto agli scopi di tutela45.

Insomma, con le anzidette eccezioni e cautele, delle due l’una: o il disastro non sussisterà, perché il livello di inquinamento conforme alle soglie è presuntivamente inidoneo – al metro della scienza recepita dal diritto – a causare disastri, o comunque è penalmente irrilevante poiché la condotta è espressione di un rischio consentito dall’ordinamento, ovvero, come pure possibile, i dati di emissione non saranno attendibili (perché falsificati, o perché incompleti, come pure parzialmente si contesta nel caso Ilva relativamente alle emissioni diffuse e fuggitive).

La tesi giurisprudenziale della rigida irrilevanza del rispetto dei valori soglia rispetto a contestazioni di disastro ambientale o di altri gravi delitti ha dunque il merito della franchezza, ma nella sua assolutezza rischia di sacrificare principi fondamentali: il principio della separazione di poteri, perché il bilanciamento effettuato dall’autorità amministrativa (o da quella legislativa), attraverso l’individuazione di valori-soglia, viene nella sostanza sostituito da quello deciso (ex post) dal giudice; il principio di colpevolezza, posto che verrebbe tradito l’affidamento del gestore nella liceità di determinate emissione conformi ai valori prescritti: esito clamoroso specie rispetto a contestazioni di delitti dolosi.

D’altra parte le migliori tecnologie disponibili, ove non imposte dalla legge in un dato momento storico o prescritte nell’autorizzazione ad esercitare una certa attività non possono sostituirsi ai limiti di legge o amministrativi46, che peraltro ordinariamente già le considerano, ad es. in fase di rilascio del titolo abilitativo dell’AIA (artt. 29-bis e sexies d.lgs. n. 152/200647) e nella determinazione dei valori-soglia (art. 271 d.lgs. n. 152/2006).

In un sistema basato sulla divisione dei poteri spetta al legislatore (o alla pubblica amministrazione entro limiti di discrezionalità vincolata) fissare le condizioni e i limiti all’attività produttiva e ai suoi effetti inquinanti, sulla base (si spera) di opportuni e informati bilanciamenti di interessi.

5. Il grande assente: i morti e i malati.

Il processo a Ilva muove da dati – peraltro pubblici – contenuti in un esposto del Sindaco di Taranto del 2010: dati su morti e ammalati ritenuti così allarmanti, dalla Procura di Taranto, da fondare una incriminazione (capo NN) del medesimo Sindaco per abuso di ufficio, consistente nella mancata adozione, da parte di costui, di provvedimenti contingibili e urgenti di sospensione dell’attività inquinante.

Sennonché, curiosamente, i morti e gli ammalati risultati dalla successiva perizia epidemiologica assunta in sede di incidente probatorio - rispettivamente, 386 decessi e 1221 ricoveri ospedalieri per il periodo 1998-2010 in conseguenza di patologie croniche; 40 morti e 120 ricoveri per patologie acute - non compaiono, quali elementi costitutivi, in nessuna delle fattispecie contestate48.

I morti e gli ammalati non vengono quantificati nel capo di imputazione, né indicati come persone offese, pur aleggiando sullo sfondo di diversi capi d’accusa (in primis il disastro ambientale e l’omissione dolosa di cautele, entrambi aggravati dalla verificazione dell’evento).

Nell’elenco delle persone offese compaiono i nomi dei titolari degli immobili imbrattati dalle polveri, non di coloro che sarebbero morti o si sarebbero ammalati per averle inalate.

La spiegazione della esclusione dei morti e degli ammalati dalla struttura formale delle contestazioni – pur in ipotesi accusatoria risultanti oltre ogni ragionevole dubbio dalla perizia epidemiologica – viene così illustrata dal Tribunale del Riesame (p. 83): morti e malattie sono indicati “per mera finalità descrittiva della entità del disastro ambientale in oggetto…tali eventi non sono previsti quali elementi strutturali del reato ex art. 434 co. 2, ove viene contemplato esclusivamente l’evento disastro”.

“Mera “finalità descrittiva dell’entità del disastro” è formula ambigua: in sostanza morti e i malati rappresenterebbero ex post la prova del pericolo corso (e ancora in atto al momento del sequestro) per l’incolumità pubblica.

Una sorta di prova ad abundantiam, nel senso che tali eventi dimostrerebbero il danno, essendo viceversa sufficiente provare qualcosa di meno, ovvero l’elemento costitutivo del pericolo per l’incolumità pubblica.

Il paradosso sta tutto qui: morti e lesioni-malattie, si sostiene, non rientrano formalmente tra i requisiti sostanziali di fattispecie, ma la prova epidemiologica dei decessi e dei ricoveri in eccesso è ritenuta utile per provare “retrospettivamente” il requisito del pericolo.

Dirà il giudizio di cognizione se i dati epidemiologici raccolti provino effettivamente un eccesso di morti e di ammalati: se solo ad es. mutasse il valore soglia preso a riferimento per le polveri PM10 (quello legale anziché quello suggerito dall’OMS, come sostenuto dalle difese), il dato epidemiologico cesserebbe di evidenziare un eccesso di decessi e di ricoveri.

Insomma, i temi da approfondire sono due: l’uno riguarda l’affidabilità delle indagini epidemiologiche svolte dai periti, o degli studi da essi richiamati; l’altro l’individuazione dei valori soglia giuridicamente rilevanti.

Il dato epidemiologico va infatti rapportato al dato giuridico (al valore-soglia), il quale a sua volta può essere considerato quello legale recepito in un dato momento o, viceversa, quello eventualmente più cautelativo suggerito da organizzazioni sanitarie o da associazioni di esperti, o quello minimo possibile raggiungibile con le migliori tecnologie disponibili.

6. La responsabilità da reato dell’ente e il concetto di interesse o vantaggio

Il Gip di Taranto, con una storica ordinanza, confermata dal Tribunale del Riesame, ha disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente della somma di 8 miliardi e 100 milioni di euro, di denaro, partecipazioni, beni mobili e immobili, impianti ecc. facenti capo a Riva F.i.r.e., quale società controllante, e, in via residuale, di Ilva, quale controllata, limitatamente a beni immobili non indispensabili per l’attività produttiva; successivamente, motu proprio, in assenza di richiesta della Procura della Repubblica, ma a seguito di istanza di chiarimento dei custodi giudiziali, il medesimo GIP ha esteso il sequestro ad altre società controllate da Ilva S.p.a.

Tali provvedimenti sono stati severamente censurati dalla Corte di Cassazione.

L’estensione del sequestro è stata ritenuta atto abnorme49, in assenza del potere di impulso istituzionalmente demandato al solo Pubblico Ministero.

D’altro canto la Suprema Corte50 ha annullato senza rinvio il sequestro della predetta somma, ritenendo che essa non rappresenti il profitto dei vari reati in relazione ai quali era stata disposta.

Non dell’art. 416 c.p., posto che i reati scopo ad essa correlati (fondamentalmente reati contro l’incolumità pubblica) non rientrano a loro volta nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti; non dei vari reati contravvenzionali in materia ambientale di cui al capo E) di imputazione, posto che sono stati inseriti nel d.lgs. 231/2001 solo nel 2011, e manca ogni prova di una derivazione causale dell’asserito profitto con i singoli reati ambientali in relazione a periodi storici ben specificati.

In particolare, e più radicalmente, la Corte di Cassazione esclude che il profitto rilevante ex artt. 19 e 54 d.lgs. n. 231/2001 possa coincidere con il risparmio di spesa legato ai mancati investimenti che Ilva avrebbe dovuto fare per adeguare gli impianti e renderli ecosostenibili.

Il concetto di profitto presupporrebbe infatti un introito positivo, un effettivo incremento patrimoniale, dal quale detrarre i costi che si sarebbero dovuti sostenere.

In altre parole il profitto ex art. 19 d.lgs. n. 231/2001 è concetto diverso dall’interesse o vantaggio rilevante ex art. 5 e 6 d.lgs. n. 231/2001, riconducibile quest’ultimo, diversamente dal primo, al risparmio di spesa.

In effetti la restituzione prioritaria al danneggiato del prezzo o del profitto confiscato sembra implicare un elemento positivo, una posta attiva cui correlare l’importo per equivalente da confiscare.

Sul piano temporale il principio di legalità comporta che debba farsi riferimento, ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9 del d.lgs. n. 231/2001, alla consumazione del fatto, e non al momento della acquisizione del profitto; di conseguenza divengono irrilevanti eventuali fatti di reato realizzati prima del relativo inserimento nel catalogo degli illeciti amministrativi da reato (ovvero, prima del luglio 2009 per l’associazione a delinquere, e dell’agosto 2011 per i reati ambientali); manca inoltre il necessario collegamento tra l’asserito profitto e le singole date di inizio della contestata permanenza dei reati-presupposto.

Certo l’interpretazione seguita dalla Corte di Cassazione finisce con il circoscrivere la confisca ad una parte sola dei reati contenuti nel catalogo, ovvero a quelli la cui commissione genera un introito positivo (corruzione, truffa ai danni dello Stato, falsità in monete, ecc.).

Una soluzione diversa, secondo quanto prospettato dalla stessa Corte, passa per una eventuale riforma normativa, nel senso che il legislatore potrebbe configurare “sulla scorta di precisi ed oggettivi criteri di quantificazione, l’ablazione di meri risparmi di spesa”.

7. Il caso Ilva: paradigma della lotta della magistratura all’industria inquinante, da combattersi (anche) in fase cautelare

Il caso Ilva ha segnato uno scontro frontale forse senza precedenti tra potere legislativo e potere giudiziario.

Come noto il Governo e il Parlamento hanno emanato provvedimenti legislativi51, consentendo la prosecuzione dell’attività produttiva per 36 mesi, a condizione che vengano rispettate le prescrizioni dell’AIA oggetto di riesame, nonché la commercializzazione dei prodotti finiti e semilavorati in giacenza, compresi quelli realizzati prima dell’entrata in vigore della nuova legge.

E’ stato altresì nominato un commissario straordinario per la gestione dello stabilimento.

Procura della Repubblica, Gip e Tribunale del Riesame hanno reagito agli interventi legislativi, vissuti come un’indebita invasione di campo, sollevando variamente conflitto di attribuzioni e eccezioni di illegittimità costituzionale contro provvedimenti del Governo e del Parlamento reputati illegittimi sotto vari profili: uguaglianza, ragionevolezza, principio del giudice naturale precostituito per legge, obbligatorietà dell’azione penale, autonomia del potere giudiziario.

Il conflitto di attribuzioni prospettato dalla Procura della Repubblica è stato dichiarato inammissibile (ordinanze nn. 16 e 17/2013) in quanto strumento residuale rispetto a questioni attinenti ad atti legislativi, poi effettivamente sottoposti a scrutinio.

L’esito è stato favorevole al potere legislativo: la Corte costituzionale ha “smontato” la tesi della magistratura tarantina, che lamentava come i provvedimenti impugnati comportassero l’impunità passata e futura, in sostanza pregiudicando l’azione giudiziaria repressiva e preventiva.

La Corte ha buon gioco nell’interpretare la legge52 – per altro piuttosto chiara sul punto –, nel senso che i provvedimenti in commento non paralizzano in alcun modo l’azione penale né prevedono cause di non punibilità o circostanze attenuanti.

L’unico effetto, reputato ragionevole, consiste nel modulare il contenuto del provvedimento di sequestro preventivo, cui si accompagna la facoltà d’uso dello stabilimento, alle condizioni previste dall’AIA.

Tale assetto di disciplina non è illegittimo, come sostenuto dalla magistratura tarantina, poiché non sacrifica irragionevolmente il bene della salute; secondo la Corte, il bene della salute è stato correttamente bilanciato con altri beni di rango costituzionale (iniziativa economica, lavoro), nell’ambito di una dialettica rimessa alla discrezionalità politico-amministrativa, che nel caso di specie non travalica il limite della manifesta irragionevolezza.

La pronuncia della Corte tocca un tema sensibile: il confine tra l’azione politico-amministrativa e quella giudiziaria, particolarmente acuto in fase cautelare.

Il sequestro preventivo, infatti, presuppone la commissione di un reato e/o la permanenza dei suoi effetti, ma al contempo guarda al futuro, alla prevenzione di ulteriori reati o di ulteriori effetti, interferendo così con il generale potere discrezionale proprio delle amministrazioni competenti circa le misure più appropriate da adottare per prevenire reati e più in generale inquinamenti, al contempo contemperando tali esigenze con quelle produttive e occupazionali53.

L’interferenza è tanto forte da far persino dubitare autorevole dottrina costituzionalistica della natura autenticamente giurisdizionale del provvedimento di sequestro, nella misura in cui tale provvedimento intervenga prima dell’esercizio dell’azione penale e più che collegarsi ad un reato pregresso miri ad assumere “finalità pubbliche di prevenzione e di tutela di interessi legati ai diritti fondamentali, come la tutela della salute e dell’ambiente”54.

Anche senza accedere ad una tesi tanto radicale, è indubbio che il potere costituzionalmente legittimato e teoricamente meglio attrezzato per compiere delicate scelte di contemperamento tra interessi confliggenti è quello politico-amministrativo, nel caso di specie rappresentato da una legge in luogo di provvedimento, ovvero da una legge che rinvia (anche) ad un atto amministrativo complesso quale l’AIA oggetto di riesame.

Ciò non esclude naturalmente che la magistratura possa e debba intervenire anche in fase cautelare per evitare conseguenze ulteriori di gravi reati in atto.

Ma la gestione degli assetti di prevenzione per il futuro, laddove vi sia uno strumento ad hoc (l’AIA), viene correttamente demandata all’autorità amministrativa, fermo restando, come ha ribadito la Corte costituzionale, che, nel frattempo, la magistratura penale valuterà la rilevanza penale di eventuali difformità dall’AIA o di altri fatti integranti altre ipotesi di reato.

Dirà il tempo chi e in che misura vincerà la “guerra” giudiziaria in corso tra magistratura tarantina e società del gruppo Riva.

E’ certo però che in assenza dell’intervento legislativo “ad Ilvam” la chiusura dell’attività produttiva dello stabilimento sequestrato avrebbe causato – più di quanto è avvenuto – danni certi e irreversibili per l’economia e per l’occupazione, sventando danni o pericoli per l’ambiente e la salute solo ipotetici, nella misura in cui il quadro fattuale, scientifico e giuridico del disastro e dei decessi (questi ultimi peraltro non autonomamente contestati) appare ancora fluido, come fisiologico in fase predibattimentale.

1*Contributo destinato alla pubblicazione nel volume Nove casi di diritto penale dell’economia. Impresa, Sicurezza e mercato, Il Mulino, Bologna, a cura di L. Foffani e D. Castronuovo.

 

 Per una prima lettura interdisciplinare v. gli Atti del Convegno “Il caso Ilva: nel dilemma tra protezione dell’ambiente, tutela della salute e salvaguardia del lavoro, il diritto ci offre soluzione?, in www.federalismi.it, 15.03.2013, e in particolare il contributo di G. Morgante, Il diritto penale nel caso Ilva tra ospite d’onore e convitato di pietra.

2 Diversi impianti dello stabilimento sono stati oggetto di sequestro preventivo con decreto del GIP emesso il 25.07.2012.

3 Il processo, più precisamente, riguarda anche le società controllanti RIVA FIRE S.p.a. e RIVA FORNI Elettrici S.p.a.

4 Richiamiamo qui una formula impiegata in un noto lavoro di F. Bricola, Responsabilità penale per il tipo e per il modo di produzione, in Atti del Convegno di studio organizzato dal CNDPS, Milano 17-18 dicembre 1976, Milano, 1976, ora in Scritti di diritto penale, a cura di S. Canestrari e A. Melchionda, vol. I, tomo II, Milano, 1997, 1231 ss.

5 Si veda per tutti D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge Ilva, nota a Corte cost. n. 85/2013, in Giur. cost., 2013, 1498 ss.; D. Pulitanò, Fra giustizia penale e gestione amministrativa: riflessione a margine del caso Ilva in Diritto penale contemporaneo, n. 1/2013, 44 s.; vedi inoltre gli altri contributi sulla medesima rivista on line.

6 Tale fattispecie, dopo la formulazione dell’imputazione, è stata parzialmente depenalizzata dal d.lgs. n. 46/2014, “salvo che il fatto costituisca più grave reato”, e salvi i casi in cui le violazioni riguardino la gestione dei rifiuti, o i valori limite di emissione, o lo scarico di sostanze pericolose di cui alle tabelle 5 e /A dell’allegato 5 alla parte terza del d.lgs. n. 152/2006. Merita sottolineare che il il Garante ha segnalato svariate violazioni dell’AIA del 2011 alla Procura della Repubblica di Taranto, come già precedentemente fatto dall’Ispra: cfr. quanto riportato in F. Giampietro, Ilva: dalla sentenza della Sovrana Corte n. 85/2013 al D.L. n. 61/2013, in A&S 2013, n. 8-9, 707. Addirittura, il d.l. n. 61/2013, con il quale Ilva è stata commissariata, riconduce l’inosservanza dell’AIA ai motivi di necessità e urgenza che legittimano l’impiego della decretazione d’urgenza. D’altra parte la Corte cost., con sentenza n. 85/2013, ha chiarito che il d.l. n. 207/2012 e la relativa legge di conversione n. 231/2012 non comportano impunità per le pregresse eventuali violazioni dell’art. 29-quattuordecies d.lgs. n. 152/2006, e neppure per le future, laddove si riscontrassero deviazioni dal percorso di riallineamento ambientale delineato dall’AIA riesaminata richiamata in tale provvedimento di legge.

7 Sulla portata di tale clausola di sussidiarietà sia consentito rinviare a C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino, 2013, 195 s. Il recentissimo d.lgs. n. 46/2014, successivo ai fatti contestati, nell’ambito di una radicale riscrittura dell’art. 29-quattuordecies, è intervenuto sui rapporti di interferenza tra le fattispecie contenute in tale articolo e i vari reati ambientali settoriali, statuendo al co. 14 che “per gli impianti autorizzati…non si applicano le sanzioni, previste da norme di settore o speciali, relative a fattispecie oggetto del presente articolo, a meno che esse non configurino anche un più grave reato”. Sulla ambiguità di tale formula v. L. GIAMPIETRO, Prime riflessioni sulle sanzioni penali introdotte nella disciplina sull’AIA, in A&S, n. 7/2014, 509 ss. Parallelamente l’art. 11 del d.lgs. n. 46/2014 ha modificato varie fattispecie penali di settore, premettendo una clausola di riserva a favore delle corrispondenti fattispecie contenute nell’art. 29-quattuordecies.

8 Più precisamente, per avere operato e non impedito “con continuità e piena consapevolezza una massiva attività di sversamento nell’aria – ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali e urbane circostanti lo stesso; in particolare IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive, determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico…”.

9 Cfr. Corte cost. 327/2008, in Giur. cost. 2008, 3529 ss., con nota di F. Giunta.

10 Per la tesi contraria all’inquadramento del disastro ambientale nello schema degli artt. 434 e 449 c.p. vedi per tutti, anche con riferimento al caso di specie, S. Corbetta, Il “disastro” provocato dall’ILVA di Taranto, tra forzature giurisprudenziali e inerzie del legislatore, in Il Corriere del merito, n. 10/2012, 867 ss.

11 Cfr. per alcune esemplificazioni tratte dalla giurisprudenza C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Milano, 2013, 199 s.

12 Corte di Appello di Torino, 3 giugno 2013, in Dir. pen. cont., con nota di S. Zirulia, Processo Eternit, a che punto siamo?

13 L. Masera, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, di prossima pubblicazione in Questione Giustizia, 22 s.

14 L. Masera, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, di prossima pubblicazione in Questione Giustizia, 22 s.

15 Per un caso non dissimile nel quale si è negata rilevanza all’art. 437 c.p. cfr. sentenza Trib. Venezia, sez. I, 22 ottobre 2001, n. 173, Cefis, 451 s., in www.petrolchimico.it.

16 S. Corbetta, in E. Dolcini-G. Marinucci, Codice penale commentato, III ed., Milano, 2011, sub art. 437, 4488.

17 Cfr. sentenza Trib. Venezia, sez. I, 22 ottobre 2001, n. 173, 451 s., in www.petrolchimico.it

18 Il Tribunale del Riesame di Taranto, nella ordinanza citata, si limita a riportare (p. 74) il dato richiamato dai periti, secondo cui tra i lavoratori dell’Ilva vi sarebbe un numero di denunce per malattie respiratorie e tumorali non asbesto correlate superiore alla media nazionale, dato plausibilmente riconducibile ad esposizione ad IPA e benzene, nonché uno studio epidemiologico dal quale si ricava che i lavoratori della batteria A della cockeria hanno livelli di esposizione all’IPA superiori al limite che segnala un rischio di incremento tumore polmonare maggiori rispetto a quelli di altri batterie.

19 S. Corbetta, in E. Dolcini-G. Marinucci, Codice penale commentato, III ed., Milano, 2011, sub art. 437, 4489.

20 Si tratta di uno schema già impiegato nel caso Eternit.

21 Su tale concetto v. F. D’Alessandro, Pericolo astratto e limiti-soglia, Milano, 2012.

22 Per una sintetica disamina degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali v. per tutti S. Brucellaria, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, Milano, III ed., 2011, sub art. 439, 4509 s.

23 La questione della illiceità delle emissioni in atmosfera è stata affrontata dal Tribunale del Riesame di Taranto il quale, con ordinanza del luglio 2012, da un lato afferma non esservi prova del superamento dei limiti tabellari per quanto concerne le emissioni convogliate, dall’altro sottolinea l’esistenza di emissioni non convogliate (diffuse e fuggitive), previste nella autorizzazione ma non soggette a limiti quantitativi, bensì solo a determinate modalità di gestione; secondo l’organo giudicante, tali emissioni fuggitive avrebbero dovuto essere eliminate, o quanto meno ricondotte al parametro della normale tollerabilità ex art. 844 c.c.; in altri passi si sottolinea che talune emissioni sarebbero superiori al valore minimo indicato nel Bref di riferimento per l’acciaio (peraltro recepito in una decisione della Commissione europea solo nel 2012); persuasivamente critico su tale impostazione G. De Santis, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica, Milano, 182 ss. Più in generale, sulla irrilevanza di tale parametro civilistico ad integrare l’offesa penalistica richiesta dall’art. 674 c.p., e sulla liceità di emissioni conformi all’autorizzazione amministrativa, sia consentito rinviare a C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Milano, 2013, 176 s.

24 Cass. Sez. III, 17.10.2013, n. 3051, in www.lexambiente.it; Cass. sez. III, 18.11.2010, n. 40489; Cass. Sez. III, 9.01.2009, n. 15707; Cass. Sez. III27.02.2008, n. 15653; contra Cass. sez. III, 15.4.2009, n. 15734.

25 Per una efficace sintesi giurisprudenziale v. S. Milesi, in E. Dolcini-G. Marinucci, Codice penale commentato, III ed., Tomo III, Milano, 2013, sub art. 674, 6750 ss.; sia inoltre consentito rinviare altresì a C. Ruga Riva, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino, 2013, 177. Il Tribunale del Riesame cita a favore della tesi della irrilevanza del rispetto dei valori soglia la giurisprudenza sull’esposizione ad amianto (Cass. sez. IV, 10.06.2010, n. 38991,Quaglierini, rectius Quaglieri); ma la citazione, pur puntuale, non pare del tutto pertinente; nel caso dell’amianto vi era al momento della condotta una norma con finalità antinfortunistica (art. 21 DPR 303/1956) che imponeva di impedire o ridurre per quanto possibile l’emissione di polveri nei luoghi di lavoro; le diverse soglie indicate da associazioni (per es. degli igienisti industriali) non potevano evidentemente derogarvi; nel caso di specie, viceversa, concernente emissioni ambientali (fuori dei luoghi di lavoro), esistevano valori-soglia di legge (o contenuti nelle autorizzazioni), il cui (eventuale) rispetto dovrebbe rendere lecita l’emissione; rimane naturalmente aperta la questione delle emissioni fuggitive, se e nella misura in cui non siano fissati limiti quantitativi di emissione e vi siano determinate prescrizioni tese a ridurle. La questione della eventuale prevalenza degli interessi sottesi all’attività produttiva sul fatto conforme al tipo del disastro ambientale è ancor più delicata: in relazione agli artt. 434 e 449 c.p. manca analoga clausola (“fuori dei casi consentiti dalla legge”), che secondo alcuni (L. Gizzi, Il getto pericoloso di cose, Napoli, 2008, specie p. 67) non sarebbe di mera illiceità espressa, bensì espressiva della scelta del legislatore di far prevalere l’interesse all’iniziativa economica. L’interesse sacrificato sarebbe sempre lo stesso, ovvero l’incolumità pubblica, seppure, come ovvio, ad uno stadio e con modalità di offesa ben diverse.

26 L. Bertagnolli, Vecchio e nuovo nei rapporti tra l’art. 674 c.p. e la legislazione speciale contro l’inquinamento atmosferico, Riv. trim. dir. pen. econ., 1993, 1109; F. Mucciarelli, Casi non consentiti dalla legge ex art. 674 c.p. e normativa sull’inquinamento atmosferico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 350.

27 Sulla distinzione tra illiceità espressa e illiceità speciale v. D. Pulitanò, Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1967, 65 ss.

28 Per una lettura della formula “nei casi non consentiti dalla legge” come causa di giustificazione v., con riferimento all’art. 674 c.p., L. Gizzi, Il getto pericoloso di cose, cit., 54 ss.

29 V. Torre, Limiti tabellari e tolleranza giudica nelle attività rischiose, in Ind. pen. 2002, 227 ss.; per questa impostazione, in generale, v. D. Pulitanò, Diritto penale, V ed., Torino, 2013, 340 s. Sul tema del rischio consentito v. V. Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988; C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, e, riassuntivamente, M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 2003, III ed., I, sub art. 43, 461.

30 Ritiene che i valori-soglia entrino a far parte del fatto tipico, ma rappresentino un secondo livello di contemperamento di interessi effettuato dal legislatore in linea generale e astratta, C. Bernasconi, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità, colpevolezza, Pisa, 2008, 201.

31 Sul ruolo dell’autorizzazione nell’ambito delle fattispecie imperniate sull’esercizio di attività in sua assenza, v. C. Bernasconi, Il reato ambientale. Tipicità, offensività, antigiuridicità, colpevolezza, Pisa, 2008, 169 ss.; M. Mantovani, L’esercizio di un’attività non autorizzata. Profili penali, Torino, 2003, specie 59 ss.; C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010, 673; S. Zirulia, in questo volume, Amianto e responsabilità penale. Profili generali, par. 6.3.

32 Gip presso il Trib. Savona, 11.03.2014, in www.penalecontemporaneo.it, pp. 35 s., con nota di S. Zirulia.

33 In materia di inquinamento atmosferico e art. 674 c.p., seppure in relazione ad un quadro normativo di settore diverso dall’attuale (il D.P.R. n. 203/1988), è sempre opportuno rinviare a Corte cost. 16 marzo 1990, in Cass. pen. 1990, 2061, con nota di F. Giampietro, secondo cui la norma che subordinava l’obbligo di applicare le misure tecniche di contenimento e riduzione delle emissioni inquinanti entro livelli accettabili per la salute e l’ambiente, alla circostanza che tali misure non comportassero costi eccessivi, è legittima, a condizione che la si interpreti nel senso che il limite del costo eccessivo viene in rilievo solo quando il limite ultimo della tollerabilità per la salute umana e per l’ambiente sia stato rispettato.

34 Corte cost. n. 85/2013, cit.

35 Corte cost. n. 185/2013, cit., par. 10.2 e 10.3 delle motivazioni in diritto.

36 Corte cost. n. 85/2013.

37 M. Donini, Imputazione oggettiva, in Enciclopedia del diritto, Annali III, Milano, 2010, 653; più in generale sul concetto di rischio cfr. V. Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988; C. Perini, Il concetto di rischio nel diritto penale moderno, Milano, 2010.

38 M. Donini, Imputazione oggettiva dell’evento (diritto penale), cit., 635 ss., specie 653.

39 Così il testo dell’art. 452-ter che verrebbe introdotto nel c.p., secondo la formulazione contenuta nel testo base sui delitti ambientali approvato dalla Commissione Giustizia della Camera il 18.12.2013, in www.penalecontemporaneo, con nota di C. Ruga Riva.

40 F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, III ed., Milano, 2003, 528 ss. e 555 ss; F. D’Alessandro, Il diritto penale dei limiti-soglia e la tutela dai pericoli nel settore alimentare: il caso della diossina, in Scritti per Federico Stella, vol. II, Milano, 2007, 1152 s.; F. D’Alessandro, Pericolo astratto e limiti-soglia, Milano, 2012, 267 ss. e 333 ss.

41 F. D’Alessandro, Il diritto penale dei limiti-soglia e la tutela dai pericoli nel settore alimentare: il caso della diossina, in Scritti per Federico Stella, vol. II, Milano, 2007, 1180 ss.; nello stesso senso Trib. Venezia 2.11.2001 e Corte d’Appello di Venezia 15.12.2004, in relazione a vongole contaminate, entrambe in www.petrolchimico.it; contra, rispetto alla distinta fattispecie di commercio di sostanze adulterate, cfr. le sentenze del Trib. Venezia richiamate da F. D’Alessandro, op. cit., p. 1199, nota 91.

42 La questione dell’inquinamento da PM10 è stata affrontata dal Trib. Palermo, con sentenza del 14.07.2011, resa nel procedimento n. 7979/07 RGNR (consultabile in www.lexambiente.it) in cui si contestavano al Sindaco di Palermo e ad altri pubblici amministratori i reati di getto pericoloso di cose e di omissione di atti di ufficio, in relazione alla mancata adozione di provvedimenti tesi a riportare l’inquinamento veicolare da PM10 sotto i valori-soglia. Il Tribunale ha assolto gli imputati perché i fatti non sussistono, negando in radice e già in astratto la possibilità di configurare una responsabilità omissiva rispetto a fatti leciti altrui (le immissioni di gas di scarico da parte di automobilisti, attività di per sé lecita), ed in ogni caso negando l’utilizzabilità dei dati epidemiologici a fini causali (pp. 215 ss.), stante la loro natura probabilistica, non corroborata nel caso di specie da altri elementi probatori.

43 WHO Air quality guidelines for particulate matter, ozone, nitrogen, dioxide and sulfur dioxide, Global update 2005, Geneva, 2006, 7.

44 WHO Air quality guidelines for particulate matter, ozone, nitrogen, dioxide and sulfur dioxide, Global update 2005, Geneva, 2006, 5.

45 Per la riconduzione del tema in esame al c.d. rischio consentito, e per la tesi secondo cui se “una disposizione specifica pone un valore soglia, di discrimine tra l’illecito e il consentito, la soglia normativa è quella, e non può essere sostituita da una soglia diversa”, v. D. Pulitanò, Diritto penale, v ed., Milano, 2013, 340 s. Lo stesso Autore aderisce all’idea, avanzata nel c.d. Progetto Grosso, che il rispetto di regole cautelari specifiche escluda la colpa “relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il progresso scientifico e tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate”.

46 Contra G.I.P. presso il Tribunale di Savona, D.P., in www.penalecontemporaneo.it., p. 36, secondo cui l’inosservanza dei limiti di emissione previsti dalle BAT, per quanto non obbligatorie all’epoca dei fatti contestati, connotano la condotta come colposa e (parrebbe) come antidoverosa.

47 Testo risultante dalla la modifica introdotta con l. n. 46/2014.

48 Sulla anomalia rappresentata da procedimenti (come Eternit, Ilva e Tirreno Power), nei quali significativi eccessi di morti e i malati rispetto agli attesi non vengono contestati a titolo di omicidio e lesioni v. L. Masera, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, di prossima pubblicazione in Questione giustizia.

49 Cass. sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 2658, in www.penalecontemporaneo.it, con nota critica di L. Carboni (secondo cui si tratterebbe di atto nullo, e non abnorme).

50 Cass. sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 988 ss., con ivi, 998 ss., con nota adesiva di C. PIERGALLINI, Responsabilità dell’ente e pena patrimoniale: la Cassazione fa opera nomofilattica, cui si rinvia per ulteriori argomenti contrari alla confiscabilità del profitto così come calcolato dai giudici tarantini; più in generale sul tema dei limiti alla confiscabilità del profitto v. A.M. MAUGERI, La responsabilità da reato degli enti: il ruolo del profitto e della sua ablazione nella prassi giurisprudenziale, in Riv. trim. dir. pen. econ. 2013, 708 ss.

51 D.l. n. 129/2012, conv. in l. n. 171/2012; d.l. n. 207/2012, conv. in l. 231/2012; d.l. n. 61/2013, conv. in l. n. 89/2013; per un sintetico commento ai vari testi v. C. Contessa, Il decreto ILVA, Libro dell'anno del Diritto 2014, in www.treccani.it

52 Corte cost. n. 85/2013, in www.cortescostituzionale.it

53 Cfr. Corte cost., n. 85/2013, cit., par. 10.3; in dottrina vedi tra gli altri D. Pulitanò, Giudici tarantini e Corte costituzionale davanti alla prima legge Ilva, nota a Corte cost. n. 85/2013, in Giur. cost., 2013, 1498 ss.

54 R. Bin, Giurisdizione o amministrazione: chi deve prevenire i reati ambientali? Nota alla sentenza “Ilva”, in Giur. cost. 2013, 1510.