Il debito ambientale tra mercato e giurisdizione

di Pasquale FIMIANI

Scuola Superiore della Magistratura

Giustizia ed economia

(Scandicci 5-7 dicembre 2017)

Il debito ambientale tra mercato e giurisdizione

Pasquale Fimiani, sostituto Procuratore generale presso la Corte di Cassazione

(Relazione 7 dicembre 2016)

Parte prima . Il mercato quale causa del “debito ambientale” e la giurisdizione - I.1. Il “debito ambientale” e le tecniche normative di tutela dell’ambiente. La sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva; I.2. Giurisdizione ordinaria e bilanciamento degli interessi tra ambiente e mercato: la sede cautelare reale; I.3. La giurisdizione quale fonte “integrativa” del “command and control”; I.4. L’applicazione giurisprudenziale del principio di precauzione nella responsabilità ambientale dell’impresa; I.5. Autocontrollo ambientale e libertà dalle autoincriminazioni - Parte seconda. Il mercato come risposta alla crisi ambientale e la giurisdizione II.1. L’insufficienza del “ command and control” e l’emersione degli strumenti volontari per la tutela dell’ambiente; II.2. Capitale naturale ed economia circolare: dall’economia un “assist” per la giurisdizione; II.3. Il ruolo del diritto vivente nella rivisitazione in chiave ambientale dei concetti di proprietà e impresa.

Parte prima. Il mercato quale causa del “debito ambientale” e la giurisdizione

I.1. Il “debito ambientale” e le tecniche normative di tutela dell’ambiente. La sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva

Le varie manifestazioni della crisi ecologica (inquinamento delle risorse naturali, loro consumo in eccedenza rispetto alla produzione, cambiamento climatico, compromissione biodiversità) esprimono, nell’insieme, la ragione di fondo alla base dell’evoluzione nel tempo del sistema di regolazione dell’ambiente: quella di trovare soluzioni ad una situazione di “ deficit” ecologico in costante espansione e che ben può ricondursi al concetto di “debito ambientale”, fenomeno che nel pensiero sociale ed economico viene ricondotto a due distinti contesti:

  • il rapporto tra paesi ricchi e paesi poveri ed il diverso livello di consumi e di impatto sull’ambiente 1;

  • gli squilibri nel rapporto uomo/società-ecosistema, dipendenti sia dal consumo di risorse naturali in eccesso rispetto a quelle che si producono, sia dalla loro compromissione “qualitativa” in conseguenza delle attività di matrice antropica, fenomeni evidenziati con l’individuazione del c.d. “earth overshoot day 2 che segna annualmente la data in cui l'umanità ha esaurito il suo budget ecologico, ovvero della c.d. “impronta ecologica” che rappresenta l’unità di misura della domanda di risorse naturali, cioè quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti 3.

Il “debito ambientale” in senso ampio costituisce quindi, nel suo complesso, il fenomeno cui il legislatore, ormai da qualche decennio, cerca di dare una risposta, adattandola alle modifiche che nel tempo si sono registrate sul versante dell’economia, secondo il consueto schema circolare che vede la prassi quale fattore di spinta della risposta regolatrice e della evoluzione del diritto vivente di matrice giurisprudenziale.

Responsabile di tale fenomeno è indubbiamente l’espansione incontrollata del “mercato”, termine che viene in questa sede sinteticamente usato per fare riferimento alla produzione dei beni e dei servizi ed ai rapporti tra operatori economici per il loro scambio.

D’altra parte il mercato costituisce una fonte indispensabile di produzione di ricchezza e di creazione di opportunità di crescita e di lavoro.

La chiave per risolvere l’inevitabile tensione tra questi due poli viene individuata nel necessario bilanciamento, sintetizzato a livello economico con il sintagma “sviluppo sostenibile4 e sotto il profilo giuridico con la locuzione “protezione bilanciata” dell’ambiente, espressione riassuntiva dei vari strumenti normativi finalizzati a trovare un punto di equilibrio tra le esigenze della produzione e quelle dell’ambiente.

Trattasi della tecnica di protezione ordinaria, alla quale si aggiunge quella della “protezione integrale”, enunciata nella materia delle aree protette.

In tal caso, l’esigenza di protezione primaria e inderogabile del territorio e dell’ecosistema comporta che “ogni attività umana di trasformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta, va valutata in relazione alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo, sicché in relazione all’utilizzazione economica delle aree protette non dovrebbe parlarsi di sviluppo sostenibile ossia di sfruttamento economico dell’ecosistema compatibile con esigenza di protezione, ma, con prospettiva rovesciata, di protezione sostenibile, intendendosi con tale terminologia evocare i vantaggi economici che la protezione in sé assicura senza compromissione di equilibri economici essenziali per la collettività, e ammettere il coordinamento fra interesse alla protezione integrale e altri interessi solo negli stretti limiti in cui l’utilizzazione del parco non alteri in modo significativo il complesso dei beni compresi nell’area protetta” 5.

Risulta, quindi, chiara l’inversione di prospettiva rispetto alla protezione “bilanciata”: non si parte dall’impresa per regolarne l’attività, ma si ha come riferimento fondamentale il patrimonio dell’area protetta, rispetto al quale ogni iniziativa economica deve recedere, essendo consentito lo svolgimento soltanto di quelle compatibili.

In tal caso può anche parlarsi di protezione “prevalente”, proprio perché nessuna mediazione viene attuata: tutto il sistema è incentrato sulla assolutezza e primarietà del patrimonio dell’area naturale e sulla ricerca e attuazione di strumenti per la sua conservazione.

Caratteristiche di tale diversa forma di tutela ambientale, che può estendersi anche alla tutela del paesaggio, quale sintesi di valori culturali ed estetici che esprimono la bellezza naturale dei luoghi protetti, sono quindi:

  • la limitazione territoriale, sia perché soltanto in zone ben determinate sono presenti particolari valori naturalistici, sia perché il sistema economico non potrebbe tollerare una limitazione generalizzata e totale;

  • una organizzazione autonoma per la gestione dell’area protetta, svincolata da legami e condizionamenti da parte dei soggetti (tecnici e politici) che gestiscono altre zone del territorio;

  • la presenza di strumenti forti di pianificazione e gestione.

Tali caratteristiche attribuiscono alla protezione integrale natura di eccezione rispetto all’ordinaria regolazione del rapporto tra impresa ed ambiente improntata sul bilanciamento tra le esigenze della produzione e quelle dell’ambiente.

Alla protezione bilanciata ha fatto riferimento la Corte costituzionale nella nota sentenza n. 85/2013 relativa alla speciale autorizzazione integrata ambientale rilasciata all’Ilva in forza del d.l. n. 207/2012, convertito dalla legge n. 231/2012 6, qualificata come “lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione”, con la precisazione che “una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni” 7.

Viene, in tal modo, a essere riconosciuto e legittimato un ambito di tutela incentrato sulla individuazione di un’area di rischio consentito per l’impresa, rappresentato dall’ambito legittimamente autorizzato, all’interno del quale l’ordinamento “tollera”, entro limiti predeterminati, forme di aggressione all’ambiente.

Tolleranza, questa, che si fonda sul riconoscimento, come ragionevole, del “bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali e il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso”, atteso che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate e in potenziale conflitto tra loro. Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe tiranno nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l'assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l'aggettivo «fondamentale», contenuto nell'art. 32 Cost. , sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell'ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una "rigida" gerarchia tra diritti fondamentali” (così la sentenza Ilva cit.).

Il ruolo della giurisdizione nell’ambito del rapporto tra ambiente e mercato va quindi esaminato in relazione al complesso sistema di bilanciamento dei due valori che si è nel tempo progressivamente attuato.

I.2. Giurisdizione ordinaria e bilanciamento degli interessi tra ambiente e mercato: la sede cautelare reale

Si pone allora una prima questione: se il bilanciamento degli interessi tra ambiente e mercato spetti solo al legislatore o possa avere spazio anche nell’esercizio della giurisdizione .

La sentenza Ilva attribuisce il compito del bilanciamento al legislatore ed al giudice delle leggi in sede di controllo 8.

Un ruolo di bilanciamento viene però svolto anche dal giudice penale per quanto riguarda la materia cautelare reale ed in particolare del sequestro preventivo finalizzato a far cessare la permanenza del reato o comunque ad impedirne ulteriori conseguenze offensive.

In tal caso, va rispettato il principio di proporzionalità ed adeguatezza che, dettato dall'art. 275 c.p.p. per le misure cautelari personali, la giurisprudenza della Cassazione è pressoché unanime nel riconoscere come applicabile anche alle misure cautelari reali 9.

Il rispetto di tali principi è strettamente dipendente dalla natura del reato e dalle sue manifestazioni concrete.

E così, il sequestro dell'intero impianto si giustifica nel caso di attività svolta senza autorizzazione, mentre si presenta come eccessivo qualora l'illecito riguardi profili gestionali rispetto ai quali anche modalità minimamente invasive della misura sono atte a contemperare le esigenze cautelari con quelle produttive 10.

In questo contesto, si pone la questione della ammissibilità dell'autorizzazione all'uso dell'impianto sequestrato.

In generale, la risposta è negativa, in quanto consentire l'uso di un impianto sequestrato finirebbe per neutralizzare l'esigenza posta a base del sequestro 11.

Vale, in questi casi, “il principio secondo il quale l'esigenza di evitare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze di un reato, ovvero la commissione di altri reati, perseguita con il sequestro preventivo di un insediamento industriale o di un singolo impianto che operino in assenza dei prescritti titoli abilitativi o, comunque, violando la legge, è incompatibile con la facoltà d'uso degli stessi senza alcuna particolare prescrizione, poiché si pone in evidente contraddizione con le finalità proprie della misura cautelare reale” 12.

L'autorizzazione all'uso dell'impianto, quindi, è ammissibile solo con le opportune cautele volte ad impedire la prosecuzione dei fenomeni inquinanti, perché altrimenti il provvedimento risulterebbe incompatibile con le finalità del sequestro 13.

L'esigenza di bilanciare le esigenze cautelari con quelle della produzione può essere, altresì, soddisfatta ricorrendo alla nomina di un amministratore giudiziario, ai sensi dell'art. 104-bis disp. att. c.p.p.

È stato, così, ritenuto legittimo il decreto di sequestro preventivo che, ritenendo opportuno non impedire totalmente l'attività produttiva nelle more della messa a norma degli impianti di smaltimento fumi e polveri, al fine di salvaguardare l'attuale livello occupazionale, aveva consentito la prosecuzione dell'attività industriale nominando un custode ed autorizzandolo a gestire l'industria in modo da contenere le emissioni nei limiti di legge 14 .

Allo stesso modo, è stata ritenuta legittima la decisione del Tribunale del riesame che aveva escluso la possibilità di operare il dissequestro di rifiuti al fine di consentire di provvedere allo smaltimento degli stessi, potendo tale operazione essere invece attuata dall'amministratore giudiziario nominato ex art. 104-bis disp. att. c.p.p. 15.

Il vincolo del sequestro non è, poi, incompatibile con operazioni di smaltimento dei rifiuti nel rispetto della vigente disciplina, o con l'adempimento degli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino dei luoghi previsti dal T.U.A., in quanto “ tali attività, che rispondono comunque alle esigenze di tutela dell'ambiente e del territorio, possono essere consentite, a domanda dell'interessato, previa autorizzazione all'accesso ai luoghi, con eventuale indicazione di particolari cautele, senza necessità di revoca del sequestro, permanendo evidentemente le esigenze cautelari sottese alla sua applicazione fino al definitivo compimento delle operazioni ed alla successiva verifica, da parte dell'autorità giudiziaria, della loro corretta esecuzione. Solo all'esito di tale verifica potrà essere valutata la cessazione delle condizioni di applicabilità di cui all'art. 321, comma 1, c.p.p .” 16 .

Le particolari prescrizioni imposte dal pubblico ministero, peraltro, presuppongono la perdurante efficacia del provvedimento di sequestro e sono caducate nel caso in cui il provvedimento sia revocato dal Gip, non esistendo alcuna norma dell'ordinamento che consenta al pubblico ministero di imporre prescrizioni all'indagato, in mancanza di un provvedimento di sequestro 17.

Nel caso di restituzione del bene sequestrato occorre distinguere due ipotesi.

Qualora la restituzione si fondi sull'art. 85 disp. att. c.p.p., secondo cui “quando sono state sequestrate cose che possono essere restituite previa esecuzione di specifiche prescrizioni, l'autorità giudiziaria, se l'interessato consente, ne ordina la restituzione impartendo le prescrizioni del caso”, le prescrizioni vanno coordinate con la normativa ambientale di settore che individua specifiche modalità di gestione 18.

Quando, invece, la restituzione consegua alla revoca del sequestro od al suo annullamento per mancanza dei presupposti per la sua adozione, la stessa non può essere subordinata ad alcuna condizione a carico di indagati nei cui confronti sia stato escluso qualsiasi “fumus” del reato contestato, in quanto costituisce un atto dovuto ed insuscettibile di essere sottoposto a condizione, salva la possibilità di convertire il sequestro per le altre finalità di legge o di sostituirlo con la confisca nei casi consentiti” 19 .

Pertanto, la restituzione di un'area interessata dall'abbandono e/o dal deposito incontrollato di rifiuti che sia subordinata alla bonifica od alla rimozione dei rifiuti non trova fondamento normativo alcuno, contrasta con l'art. 23 Cost., che istituisce una riserva relativa di legge in tema di imposizioni personali o patrimoniali e si risolve nell'esercizio di un potere che l'art. 192 T.U.A assegna esclusivamente alla autorità amministrativa 20.

I.3. La giurisdizione quale fonte “ integrativa ” del “ command and control”

Il ruolo proprio della giurisdizione, consistente nella interpretazione delle norme e nella loro applicazione alla fattispecie concreta, è stato ed è fortemente influenzato dalla evoluzione della normativa ambientale.

E così, dopo la stagione nella quale il diritto vivente esercitò un ruolo di vera e propria supplenza di fronte a fenomeni di inquinamento diffuso di matrice industriale non ancora disciplinati dalle norme vigenti 21, ricorrendo a fattispecie originariamente introdotte ad altri fini (fu l’epoca dei c.d. “pretori di assalto”), tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 cominciò a prendere forma un sistema normativo basato sul binomio precetto-controllo (il c.d. “ command and control”), caratterizzato dalla imposizione di limiti di emissione, obblighi procedimentali (autorizzazioni, iscrizioni, comunicazioni), prescrizioni gestionali, il cui rispetto veniva demandato ai controlli, per verificare inadempienze e violazioni, ed al successivo intervento sanzionatorio in sede penale, amministrativa e civile (risarcimento del danno ambientale ed obblighi di bonifica).

Rispetto a questo sistema era inevitabile che la giurisdizione, per poter individuare i margini di operatività del sistema dei controlli, dovesse fissare a monte i presupposti per la sua attivazione; in tal modo, definendo il sistema amministrativo di regolazione dell’attività ambientale dell’impresa, spesso interessato da norme imprecise ed incomplete, ha finito per assumere un ruolo “compensativo” ed “ integrativo” del “command and control” diventando vera e propria fonte del progressivo formarsi dello “statuto ambientale” dell’impresa di matrice giurisprudenziale.

In tale contesto, i reati ambientali, da un lato per la natura contravvenzionale e, quindi, per il carattere scarsamente afflittivo e, dall’altra, per l’ambito di illiceità coperto, sostanzialmente coincidente con la violazione delle norme procedimentali, delle prescrizioni e degli standards, finirono per tutelare non tanto il bene giuridico ambiente, quanto piuttosto le funzioni amministrative di controllo delle emissioni di origine industriale 22.

L’espansione del ruolo della giurisdizione quale “fonte” dello statuto ambientale dell’impresa trova conferma nella impostazione della legge n. 68 del 2015 sui delitti contro l’ambiente, caratterizzata dall’ampia “delega” conferita alla giurisdizione, realizzata mediante l’enunciazione di clausole generali e dell’affidamento all’interpretazione giurisprudenziale del compito di riempirle di contenuto 23.

Il primo versante nel quale è riscontrabile tale impostazione è quello relativo alla procedura di estinzione delle contravvenzioni in materia ambientale (articoli 318-bis/318-octies) introdotta dalla legge n. 68 del 2015 sulla falsariga del meccanismo già previsto dal d.lgs. n. 758/1994.

A differenza del d.lgs. n. 758, nel quale il legislatore ha fatto riferimento all’intera della sicurezza sul lavoro, per cui non si pongono dubbi sulla individuazione delle contravvenzioni alle quali la procedura è applicabile, nella materia ambientale, il legislatore del 2015 ha ritenuto necessaria la verifica, ai fini dell’accesso alla procedura estintiva, se il reato abbia “ cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette ”.

L’individuazione di tale condizione non è agevole, specie se si consideri che la gran parte delle contravvenzioni ambientali previste dal T.U.A. ha natura di reato di pericolo presunto, in cui è esclusa ogni valutazione del giudice sulla gravità della condotta e sulla entità del danno: l’offensività è, infatti, insita nella condotta ed è presunta per legge, poichè lede l'interesse della pubblica amministrazione al controllo preventivo sulle attività potenzialmente inquinanti (per i reati che puniscono la mancanza di autorizzazione), ovvero al rispetto delle prescrizioni indicate nel titolo abilitativo o negli “standards” di emissione, quale condizione per il regolare esercizio dell'attività autorizzata.

Viene, quindi, richiesto di effettuare una valutazione della fattispecie concreta, per verificare se l’attività posta in essere, anche se relativa a reato di pericolo presunto, rechi effettivamente danno, o pericolo concreto di danno all’ambiente.

La soluzione del legislatore è doppiamente criticabile, in quanto:

  • da un lato, la scelta di non specificare le contravvenzioni per le quali può ricorrersi alla speciale procedura, ma di subordinarne la operatività alla verifica, caso per caso, della sussistenza di determinate condizioni di concreta inoffensività, lascia spazi di opinabilità, determinando il rischio di contrasti interpretativi tra l’organo di vigilanza ed il P.M., che finirebbero per appesantire un sistema già ingolfato (ovviamente il P.M., quale “ dominus” delle indagini, avrebbe la parola definitiva sulla ammissibilità alla procedura, ma dovrebbe comunque avviare una interlocuzione con l’organo di vigilanza che dovrebbe motivare in modo specifico le proprie valutazioni);

  • dall’altro, la scelta di limitare la operatività del meccanismo estintivo alle sole contravvenzioni previste dal T.U.A., genera ingiustificate disparità di trattamento rispetto alle contravvenzioni previste da altre norme ambientali, con situazioni talvolta paradossali (ad esempio, il sistema è applicabile al reato di discarica abusiva di cui all’art. 256, comma 3, T.U.A., mentre sono esclusi i reati in tema di gestione di una discarica autorizzata previsti dal d.lgs. n. 36/2003).

Incertezze che si aggiungono a quelle relative all'applicabilità, in concreto, nella materia ambientale, della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall'art. 131-bis c.p. , introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015 .

La questione si pone, in quanto i limiti di pena previsti dal comma 1 dell’art. 131-bis c.p. per la sua applicabilità (reati per i quali è prevista una pena detentiva non superiore, nel massimo, a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena) fanno sì che la predetta causa di non punibilità riguardi gran parte dei reati ambientali; tra quelli previsti dal T.U.A. rimangono esclusi i reati di combustione illecita se relativo a rifiuti pericolosi (art. 256-bis) e le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260), mentre non tutti i delitti contro l'ambiente introdotti dalla legge n. 68 del 2015 ne rimangono esclusi (vi rientrano, il delitto di inquinamento ambientale colposo e quello di impedimento al controllo).

L’intero versante delle contravvenzioni ambientali, pur formalmente ancora intatto, si trova allora soggetto ad una duplice possibilità definitoria: quella di cui alla nuova parte sesta-bis del T.U.A. (articoli 318-bis/318-octies) introdotta dalla legge n. 68 del 2015 e quella della non punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall'art. 131-bis c.p. , introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015 .

Pur trattandosi di due versanti diversi, l’uno procedimentale e l’altro di natura sostanziale, è indubbio che la verifica delle condizioni di operatività del primo (mancanza di danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette ”) implica valutazioni sulla scarsa offensività dell’illecito, per cui finisce, inevitabilmente, per sovrapporsi con lo spazio di accertamento della speciale tenuità del fatto.

In sostanza la legge n. 68 del 2015 ha aggiunto un forte elemento di discrezionalità valutativa, relativa alla verifica se il fatto sia di speciale tenuità o se, piuttosto, sia suscettibile di applicazione della procedura di estinzione prevista dalla nuova parte sesta-bis del T.U.A..

E trattasi di verifica che, in assenza di parametri normativi sufficientemente precisi, carica di responsabilità la giurisdizione, cui viene rimessa, con una delega sostanzialmente in bianco, la modulazione, in concreto, dell’operatività delle contravvenzioni ambientali.

Tale settore è stato, di fatto, retrocesso da architrave del sistema punitivo ambientale (le contravvenzioni, per come sono disegnate, tutelano le funzioni amministrative di controllo dell’ambiente) a mera “ tutela di primo livello” (stante l’introduzione dei più gravi delitti ambientali), ad “applicazione eventuale” (stante la possibilità di applicazione della speciale causa di non punibilità o della procedura estintiva speciale), senza alcun bilanciamento attraverso la rimodulazione delle sanzioni amministrative (rimodulazione che sarebbe ora opportuna, con riferimento alle ipotesi in cui il fatto sia ritenuto di speciale tenuità).

La stessa “delega” alla giurisdizione si rinviene nelle due fattispecie centrali nel nuovo impianto, quelle di inquinamento ambientale (art. 452-bis) e disastro ambientale (art. 452-quater).

Tali delitti si collocano, rispetto alle contravvenzioni e tra loro, in evidente progressione criminosa.

Infatti, il mero superamento degli “standards” non è “ ex se” sufficiente ad integrare il delitto di inquinamento ambientale, in quanto è necessario un “quid pluris” della offensività della condotta, al fine di dare contenuto ai due parametri della significatività e misurabilità della compromissione o del deterioramento ambientale.

Una conferma di tale impostazione può rinvenirsi in quell’orientamento che, in tema di avvelenamento di acque o di sostanze alimentari, esclude per la configurabilità del reato l'esistenza di rilevamenti attestanti il superamento dei livelli di contaminazione CSC (concentrazioni soglia di contaminazione) di cui all'art. 240, comma primo, lettera b) T.U.A., trattandosi di indicazioni di carattere meramente precauzionale, il cui superamento non è sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall'art. 257 T.U.A., la quale sanziona condotte di inquinamento, ossia causative di un evento che costituisce evidentemente un "minus" rispetto all'ipotesi di avvelenamento 24.

Una volta che sia accertato un più alto livello di offensività della condotta rispetto alle contravvenzioni ambientali in tema di superamento degli “standards”, queste devono ritenersi assorbite dal reato di cui all’art. 452-bis c.p.

Se, verso il basso, le fattispecie a confine sono rappresentate dalle contravvenzioni che puniscono la violazione degli “standards” di riferimento, verso l’alto sembra evidente la progressione criminosa che caratterizza i rapporti del delitto di inquinamento ambientale con le due figure di disastro ambientale incentrate sulla alterazione dell’ecosistema irreversibile o particolarmente onerosa.

L’accertamento del livello di intensità della lesione e, quindi, della configurabilità dell’una piuttosto che dell’altra fattispecie di reato, si presenta allora problematico, in quanto i confini tra le varie fattispecie sono di incerta definizione e rimessi, sostanzialmente, a valutazioni di natura tecnica, tanto per accertare se il superamento degli “ standards” sia pericoloso o dannoso per l’ambiente, quanto per stabilire se tale danno, ancorché significativo, sia reversibile o riparabile, o, piuttosto, irreversibile od eliminabile con soluzioni eccezionali e particolarmente onerose (nel qual caso si configura il più grave reato di disastro ambientale).

I.4. L’applicazione giurisprudenziale del principio di precauzione nella responsabilità ambientale dell’impresa

Il ruolo “integrativo” del “command and control” presenta poi profili problematici.

Il primo riguarda i limiti di operatività di un principio cardine della materia ambientale, quale quello di precauzione (art. 3-ter T.U.A ed art. 191 T.U.E.), rispetto ad attività conformi all’autorizzazione amministrativa, cioè al tipico strumento di bilanciamento dei contrapposti interessi della produzione e dell’ambiente 25.

La sentenza Ilva, nell’individuare l’autorizzazione quale lo strumento tipico del bilanciamento di interesse tra ambiente e mercato, riconosce un’area di rischio consentito per l’impresa, rappresentato dall’ambito legittimamente autorizzato, all’interno del quale l’ordinamento “tollera”, entro limiti predeterminati, forme di aggressione all’ambiente.

La conferma di tale impostazione viene dalla costruzione dei delitti di inquinamento e disastro ambientale per la cui configurabilità è richiesto che la condotta sia svolta abusivamente.

Tale concetto, non riguarda soltanto i casi in cui l’attività è svolta “clandestinamente”, cioè senza autorizzazione, ma comprende anche quelli di violazione delle prescrizioni dell’autorizzazione o, comunque, delle disposizioni di legge che ne disciplinano l’esercizio.

Alla mancanza di autorizzazione vanno equiparate, come affermato per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti previsto dall’articolo 260 T.U.A., le situazioni in cui l’attività si svolga sulla base di autorizzazioni scadute, palesemente illegittime, nonché illegittimamente ottenute.

Si è, in definitiva, in presenza di una clausola di illiceità speciale.

È, questa, una scelta precisa operata dal legislatore che, al dì là di valutazioni di merito e di opportunità, non appare irragionevole, muovendosi nella prospettiva di individuare con precisione i confini della liceità dell’attività d’impresa nella stessa logica di bilanciamento tra impresa ed ambiente enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza Ilva (n. 85/2013).

Peraltro, l’abusività della condotta per violazione di una regola cautelare ha un contenuto ampio, che non deve necessariamente riguardare la materia ambientale, potendo essere interessato qualsiasi settore inerente alla gestione dell’attività (si pensi alla disciplina della sicurezza sul lavoro in materia di fattori di rischio e di agenti inquinanti).

Di qui la necessità di compiere valutazioni ad ampio spettro, al fine di individuare lo “statuto” normativo applicabile alla specifica realtà in esame26.

Si pone la questione della diretta applicabilità, quale regola di condotta, del principio di precauzione, enunciato tra quelli fondamentali dell'azione ambientale dall'art. 3-ter T.U.A. (che riprende l’articolo 191 T.U.E.)

Sul versante penale 27 la questione si è posta con riferimento al reato di cui all'art. 434 c.p. in presenza di attività autorizzata.

Si è posta la questione se tale reato sia configurabile quando il gestore dello stabilimento abbia rispettato i limiti di emissione previsti dalla legge o dall’autorizzazione, ma sussistano indicazioni tecnico-scientifiche, non ancora tradotte in norme vincolanti, che qualifichino come pericolose per la salute e l'ambiente le emissioni, anche se non superiori alla soglia di consentita nel momento in cui vengono effettuate.

La questione può venire in evidenza, in particolare, nell'ambito della disciplina dell'autorizzazione integrata ambientale, in quanto, nel sistema delineato dal legislatore, il provvedimento stabilisce i limiti di emissione in conformità alle migliori tecniche disponibili, ovvero “best available techniques - BAT28 (art. 29-sexies T.U.A.), con riesame periodico che “tiene conto di tutte le conclusioni sulle BAT 29, nuove o aggiornate, applicabili all'installazione e adottate da quando l'autorizzazione è stata concessa o da ultimo riesaminata, nonché di eventuali nuovi elementi che possano condizionare l'esercizio dell'installazione” (art. 29-octies) 30.

È, quindi, possibile, nel regime dell'autorizzazione integrata ambientale, che l'attività sia svolta, prima di tale verifica periodica, conformemente ai limiti dell'autorizzazione, ma in difformità rispetto alle indicazioni delle conclusioni sulle BAT, nuove o aggiornate; conclusioni già note all’operatore, in quanto devono essere pubblicate in italiano nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea, ma che saranno recepite dall'AIA solo in sede di riesame.

È il caso esaminato in una vicenda 31 in cui il gestore degli impianti si era sempre attenuto ad un livello di gestione prossimo al limite massimo del tetto emissivo previsto dalla legge, nonostante le “BAT” indicassero come opportuni valori di emissione nettamente inferiori.

La soluzione adottata è stata quella di escludere l'applicabilità del principio, affermato con riferimento al reato di cui all'art. 674 c.p., secondo cui l'espressione “nei casi non consentiti dalla legge”, ivi prevista, costituisce una precisa indicazione della necessità che, ai fini della configurazione del reato, l'emissione di gas, vapori o fumi atti ad offendere o molestare le persone avvenga in violazione delle norme o prescrizioni di settore che regolano la specifica attività e di ritenere che l'indicazione delle “BAT” rendesse doveroso il loro rispetto non sotto il profilo della specifica normativa dettata in tema di emissioni, bensì in ordine alla tutela degli ulteriori beni giuridici di rilevanza costituzionale, quali la salute e l'ambiente; conclusione fondata sul rilievo che l'intera normativa ambientale si ispira, a livello eurounitario ed interno, al cosiddetto “principio di precauzione”, il quale “ deve trovare applicazione in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indichi che vi sono ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull'ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante di una data attività possano essere incompatibili con l'elevato livello di protezione prescelto dall'Unione europea 32.

La stessa questione si pone anche con riguardo ai delitti ambientali introdotti dalla legge n. 68/2015, stante la clausola di “ abusività” della condotta e, quindi, di necessaria violazione delle regole di riferimento per la specifica attività svolta, che ne condiziona la configurabilità 33.

Sembra peraltro che, in presenza di attività autorizzate, l'attuazione del principio di precauzione compete al provvedimento di autorizzazione il quale, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 85/2013 (relativa alla speciale autorizzazione integrata ambientale rilasciata all' Ilva in forza del d.l. n. 207/2012, convertito dalla legge n. 231/2012), “ rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all'individuazione del punto di equilibrio in ordine all'accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall'attività oggetto dell'autorizzazione. Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell'efficacia delle prescrizioni ”.

Appare, quindi, problematica l'applicazione diretta del principio di precauzione per fondare la colpevolezza di chi gestisca un impianto conformemente all'AIA, in assenza di una norma o di una prescrizione che impongano il rispetto delle conclusioni sulle BAT fin dal momento della loro pubblicazione e prima del riesame del provvedimento 34, considerato che quest'ultimo deve essere disposto “entro quattro anni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea delle decisioni relative alle conclusioni sulle BAT riferite all'attività principale di un'installazione” (art. 29-octies, comma 3, lett. a, T.U.A.), senza, quindi, una scadenza predeterminata (come nella diversa ipotesi di decorso di dieci anni dal rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale, prevista dalla successiva lett. b) 35 e, soprattutto, senza che siano previsti obblighi di iniziativa del gestore, in quanto il riesame viene avviato da parte dell'autorità competente (comma 5)36.

L’individuazione dell’ambito autorizzato come perimetro di esclusione della operatività, ai fini del rispetto degli standards, di ulteriori e più stringenti generici obblighi di prevenzione trova conferma nella giurisprudenza civile della Cassazione 37, con l’affermazione che il principio di precauzione - sancito dall'ordinamento comunitario come cardine della politica ambientale - è assicurato dallo stesso legislatore statale attraverso la disciplina contenuta nella legge 22 febbraio 2001, n. 36, e nel DPCM 8 luglio 2003, che ha fissato i parametri relativi ai limiti di esposizione, ai valori di attenzione e agli obiettivi di qualità, i quali non sono modificabili, neppure in senso restrittivo, dalla normativa delle singole Regioni (Corte cost., sentenza n. 307 del 2003), ed il cui mancato superamento osta alla possibilità di avvalersi della tutela giudiziaria preventiva del diritto alla salute, che è ipotizzabile solo in caso di accertata sussistenza del pericolo della sua compromissione, da ritenersi presuntivamente esclusa quando siano stati rispettati i limiti posti dalla disciplina di settore 38 .

D’altra parte, la stessa disciplina del danno ambientale nel T.U.A. 39, improntata sulla responsabilità presunta dell’operatore che svolga determinate attività specificamente individuate (art. 311 in relazione alle attività elencate nell'allegato 5 alla parte sesta), nell’individuare (art. 308, comma 5) i casi in cui non sono a carico dell'operatore i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e ripristino, fa riferimento all’ipotesi in cui egli possa provare che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo e che l’evento è stato causato, alternativamente:

  • da un'emissione o un evento espressamente consentiti da un'autorizzazione conferita ai sensi delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari recanti attuazione delle misure legislative adottate dalla Comunità europea di cui all'allegato 5 della parte sesta, applicabili alla data dell'emissione o dell'evento e in piena conformità alle condizioni ivi previste (lettera a);

  • ovvero da un'emissione o un'attività o qualsiasi altro modo di utilizzazione di un prodotto nel corso di un'attività che l'operatore dimostri non essere stati considerati probabile causa di danno ambientale secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività (lettera b).

Evidente è la prospettazione alternativa delle due fattispecie (confermata dall’avverbio “ovvero” in apertura della seconda) e, pertanto, la netta distinzione tra la legittima autorizzazione, definitoria dell’ambito entro il quale l’attività autorizzata non è comunque ritenuta produttiva di danni e la situazione, esterna all’ambito autorizzato, in cui l’operatore ha l’onere di provare di avere agito secondo lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento del rilascio dell'emissione o dell'esecuzione dell'attività, cioè – appunto – di aver concretamente operato secondo in linea con il principio di precauzione, che costituisce, quindi, il criterio di riferimento laddove manchi una espressa disciplina amministrativa regolatrice dell’attività d’impresa 40.

I.5. Autocontrollo ambientale e libertà dalle autoincriminazioni

Altro aspetto problematico è quello del rapporto tra il sistema di autocontrollo in funzione collaborativa, ricorrente nella normativa ambientale, nell’ambito del quale l’impresa è chiamata a fornire dati relativi alla propria attività suscettibili di essere valutati quali vere e proprie notizie di reato e, come tali, idonei a fondare l’avvio di un procedimento penale, ed il principio della c.d.libertà dalle autoincriminazioni (“ nemo tenetur se detegere”), costituente espressione del diritto di difesa sancito dall'art. 24, comma 2, della Costituzione, nel quale deve ritenersi compreso il diritto del cittadino di non fornire le prove della propria eventuale colpevolezza 41.

La Corte costituzionale, nelle occasioni in cui si è pronunciata 42 sulla portata del principio della libertà dalle autoincriminazioni ha negato l'applicabilità della garanzia in questione facendo leva da un lato sulla rilevanza solo processuale del principio (per cui opera solo quando una persona sia già indagata od imputata) e dall’altro sul difetto del c.d. rapporto diretto o di consequenzialità necessaria tra le informazioni richieste per legge e la conseguente incriminazione del soggetto tenuto a fornirle.

Tale principio è stato affermato dall’ordinanza n. 186/1996, con riferimento alla disciplina penale sanzionatoria dei registri di carico e scarico43, i quali contengono dati relativi alla gestione dei rifiuti idonei a fondare la prova di eventuali illeceità ad essa correlate 44.

In tale occasione la Corte costituzionale ha affermato:

  • che gli obblighi di comunicazione della quantità e qualità dei rifiuti sopraindicati prodotti o smaltiti, previsti dalle disposizioni censurate, risultano strumentalmente diretti alla tutela dell'ambiente, garantita come diritto fondamentale dall'art. 9 della Costituzione e trovano, altresì, specifico fondamento nell'art. 41, secondo comma, della Costituzione per il quale l'iniziativa economica privata deve svolgersi in modo da garantire “la sicurezza, la libertà e la dignità umana” da ricollegarsi anche alla tutela dell'ambiente;

  • che i predetti obblighi di comunicazione rientrano, inoltre, nella sfera dei doveri inerenti ai produttori e smaltitori di rifiuti ed in quanto tali risultano assunti in base ad una libera scelta dell'individuo di svolgere una attività economica che comporta oneri previsti dalla legge;

  • che su un piano più generale non può negarsi che la legge possa ragionevolmente (senza aggravare inutilmente la posizione del soggetto interessato) prescrivere, in via generale, a carico di tutti coloro che espletano una determinata attività liberamente scelta, obblighi non legati alla pretesa punitiva (anche se sanzionati in via amministrativa o penale) di comunicazione della stessa attività o delle modalità d'esercizio (come presupposto della legittimità), quando questa sia soggetta a controlli della pubblica amministrazione, tanto più se correlati a una doverosa salvaguardia di interessi fondamentali secondo Costituzione, quali la tutela dell'ambiente e della indissolubile qualità della vita dell'uomo; che, d'altro canto, il diritto al silenzio dell'imputato, in quanto specificazione del diritto di difesa, garantito dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione, opera, per costante giurisprudenza di questa Corte, dal momento della instaurazione del procedimento penale o dal momento in cui l'indizio di reato si soggettivizza nei confronti di una determinata persona (sentenze nn. 181 e 198 del 1994);

  • che non è ipotizzabile esercizio del diritto di difesa “in relazione a comportamenti che in sé considerati non costituiscono autodenuncia o confessione di reati … se manca un rapporto diretto tra incriminazione e le domande della pubblica autorità ovvero tra dichiarazioni e gli adempimenti” cui il soggetto è penalmente tenuto da un lato e l'incriminazione eventuale, per uno o più reati, dall'altro, venendo meno in radice ogni possibilità di invocare la garanzia costituzionale dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione (v. sentenze n. 236/1984 e n. 32/1965).

Tale seconda precisazione potrebbe sembrare ultronea rispetto al principio secondo cui il divieto di autoincriminazione operi nella sola fase processuale.

Tuttavia va tenuto presente che in passato la stessa Corte costituzionale (sentenza n. 149/1969) aveva affermato, in tema di diritto di difesa nel procedimento di prelievo dei campioni, di analisi e di revisione di analisi delle sostanze di uso agrario e dei prodotti agrari, che il termine procedimento, nel quale il secondo comma dell'art. 24 della Costituzione vuole sia garantita la difesa come diritto inviolabile, rientrano anche gli atti di Polizia giudiziaria che precedono il procedimento penale quando vi sia un indizio di reato ed esso si soggettivizzi nei confronti di una determinata persona. A partire da tale momento “devono operare i meccanismi idonei a garantire almeno un minimo di contraddittorio, di assistenza e di difesa”.

Pertanto, cercando di esplicitare il ragionamento della Corte costituzionale, non rileva il fatto che l’inserimento dei dati nei registri avvenga in una fase preprocessuale, poiché anche in essa può essere fatto valere il diritto di difesa qualora la comunicazione dei dati abbia natura indiziante per il soggetto da cui proviene. Assume piuttosto rilievo determinante la considerazione che l’inserimento dei dati nei registri non rende invocabile la garanzia costituzionale dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione per violazione del diritto di difesa poiché non sussiste un “rapporto diretto tra incriminazione e le domande della pubblica autorità, ovvero tra dichiarazioni e gli adempimenti cui il soggetto è penalmente tenuto da un lato e l'incriminazione eventuale, per uno o più reati, dall'altro”.

In altri termini, l’inserimento dei dati ha una funzione di mera registrazione (lo stesso dicasi per il Sistri 45) ed in sé non esplicita alcuna diretta ed immediata comunicazione di fatti costituenti indizio di reato.

Vi sono però altri casi di tensione dell’autocontrollo ambientale con il principio della c.d. libertà dalle autoincriminazioni.

Il primo è quello della comunicazione dell’evento di contaminazione che rende obbligatoria la bonifica.

Il comma 1 dell'art. 257 T.U.A. punisce, infatti, sia chiunque cagiona l'inquinamento del suolo, del sottosuolo, delle acque superficiali o delle acque sotterranee con il superamento delle concentrazioni soglia di rischio, se non provvede alla bonifica in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti, sia chi non effettua la comunicazione che, secondo il comma 1 dell'art. 242 T.U.A., il responsabile dell'inquinamento deve entro ventiquattro effettuare al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito.

Orbene, il fatto che determina la contaminazione del sito costituisce di regola reato (scarico, abbandono, miscelazione, interramento o discarica di rifiuti); tuttavia, ai fini della bonifica, viene imposto un obbligo di comunicazione la cui inosservanza è penalmente sanzionata, di fatto costringendo il responsabile della contaminazione ad una sorta di autodenuncia per gli illeciti eventualmente commessi con la condotta che l’ha determinata.

Evidentemente consapevole della delicatezza del tema, il T.U.A. aveva introdotto in via generalizzata, nel caso di osservanza dei progetti approvati ai sensi degli articoli 242 e seguenti, con il comma 4 dell’art. 257, la non punibilità per i reati ambientali contemplati da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 146.

Tuttavia, tale clausola non copre il reato di omessa comunicazione, che è autonomo e può configurarsi anche quando sia stato presentato in ritardo il progetto di bonifica e ad esso sia data esecuzione.

Inoltre, la legge n. 68/2015, nell’introdurre i delitti ambientali, ha ristretto la non punibilità alle sole contravvenzioni escludendola per i delitti.

Resta allora il dubbio se la previsione di un obbligo di comunicazione di fatti costituenti reato di inquinamento, penalmente sanzionato in modo autonomo, a prescindere dalla successiva bonifica, sia conforme al principio costituzionale in tema di libertà dalle autoincriminazioni.

Ed infatti l’ordinanza della Corte costituzionale n. 186/1996 ritiene invocabile la garanzia costituzionale dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione per violazione del diritto di difesa quando sussiste un “rapporto diretto tra incriminazione e le domande della pubblica autorità, ovvero tra dichiarazioni e gli adempimenti cui il soggetto è penalmente tenuto da un lato e l'incriminazione eventuale, per uno o più reati, dall'altro”.

Tale affermazione ha carattere generale ed è riferibile, quindi, anche a situazioni preprocessuali in cui vi siano indizi di reato che si soggettivizzano, cioè sono riferibili ad un soggetto determinato.

Ed è proprio questa la situazione che si verifica nel caso della comunicazione dell'evento di contaminazione, la quale assume il valore di vera e propria notizia di reato con riferimento agli altri illeciti eventualmente commessi con la condotta che ha determinato la contaminazione, avendosi in tal modo una fattispecie pienamente coincidente con la violazione del divieto costituzionale di autodenuncia.

Restano, quindi, profili problematici sulla tenuta costituzionale della fattispecie, che non sono esclusi dal fatto che la comunicazione va effettuata a prescindere dal superamento delle soglie di contaminazione e quindi, a prescindere dall’eventuale obbligo di bonifica, in quanto la stessa riguarda fatti che di regola costituiscono reati ambientali (es. abbandono o smaltimento non autorizzato di rifiuti).

Tali profili, poi, rischiano di coinvolgere non soltanto la tenuta costituzionale della contravvenzione di omessa comunicazione, ma anche le stesse fattispecie di reato configurabili nel fatto oggetto di comunicazione, qualora la prova esclusiva della loro sussistenza sia da essa rappresentata, stante il generale divieto di inutilizzabilità di prove illegittimamente acquisite ai sensi dell’art. 191 c.p.p..

La revisione delle fattispecie di omessa bonifica, con l’auspicata unificazione di quella contravvenzionale e quella delittuosa, dovrebbe, allora, farsi carico anche di superare tali profili di tensione con il divieto di autoincriminazione, eventualmente collegando alla tempestiva comunicazione effetti premiali.

Altra ipotesi di tensione dell’autocontrollo ambientale con il principio della c.d. libertà dalle autoincriminazioni è quella del reato di violazioni delle prescrizioni dell'autorizzazione integrata ambientale per superamento dei valori limite di emissione, previsto dal comma 3 dell’art. 29-quattuordecies T.U.A..

Tale violazione, secondo la norma, è quella “rilevata durante i controlli previsti nell'autorizzazione o nel corso di ispezioni di cui all'articolo 29-decies, commi 4 e 7, a meno che tale violazione non sia contenuta in margini di tolleranza, in termini di frequenza ed entità, fissati nell'autorizzazione stessa”.

Pertanto, oltre che dall’accertamento emerso nell’ambito delle ispezioni da parte dell’autorità di controllo o degli organi di vigilanza (art. 29- decies, rispettivamente commi 4 e 7), l’illecito può dipendere anche dalla emersione della violazione dei valori limite di emissione in sede di autocontrollo da parte del gestore, attività disciplinata dall’art. 29-decies, comma 2, secondo cui, a far data dall'invio della comunicazione di avvio dell’installazione, il gestore trasmette all'autorità competente e ai comuni interessati, nonché all'ente responsabile degli accertamenti, i dati relativi ai controlli delle emissioni richiesti dall'autorizzazione integrata ambientale, secondo modalità e frequenze stabilite nell'autorizzazione stessa.

Ai fini del rapporto di tale previsione con il principio della c.d. libertà dalle autoincriminazioni occorre considerare che:

  • secondo l’art. 29-quattuordecies, comma 8, l’omessa comunicazione dei dati relativi alle misurazioni delle emissioni di cui all'articolo 29-decies, comma 2, è prevista come illecito amministrativo;

  • se, però, con tale comunicazione, il gestore fornisca dati falsificati o alterati, si applica la pena di cui all'articolo 483 c.p. (comma 9).

La comunicazione dei dati relativi alle misurazioni delle emissioni assume, quindi, una valenza pubblicistica, da individuarsi nella veridicità “ erga omnes” di quanto attestato dal gestore, tanto che lo stesso articolo 29-decies, comma 2, prevede che l'autorità competente provvede a mettere i dati a disposizione del pubblico.

Tale valenza giustifica la previsione del reato di falso in comunicazione, come del resto affermato con riferimento alla condotta del pubblico ufficiale estensore di un atto falso al fine di non fare emergere la propria penale responsabilità in ordine all'episodio in esso rappresentato, situazione nella quale egli non può invocare la scriminante dell'esercizio del diritto (art. 51 c.p.), "sub specie" del principio " nemo tenetur se detegere", per avere attestato il falso, non essendo ammissibile che la finalità probatoria dell'atto pubblico possa essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto 47.

La giustificazione dell’obbligo, penalmente sanzionato, di rappresentare il vero nella comunicazione dei dati relativi alle misurazioni delle emissioni, costituisce, però, un profilo distinto dalle conseguenze sanzionatorie del fatto rappresentato, cioè dalla responsabilità per la violazione dei limiti di emissione fondata sull’adempimento di quell’obbligo in sede di autocontrollo.

La previsione di tale responsabilità stride con il principio della c.d. libertà dalle autoincriminazioni.

Sembra pertanto preferibile una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, in base alla quale l'invio, da parte del gestore all’autorità competente, di un autocontrollo che rivela un superamento di un valore limite, non può in automatico fondare la responsabilità penale del gestore stesso per tale superamento, ma possa soltanto costituire lo spunto per accertamenti da parte degli organi di controllo, oltre che per l’adozione dei provvedimenti amministrativi di modifica delle prescrizioni dell’AIA, o di diffida/revoca della stessa, ai sensi del comma 9 dell’art. 29-decies.

Alle stesse conclusioni deve pervenirsi per quanto riguarda l’analoga questione che pone il combinato disposto di cui agli artt. 271, comma 14, e 279, comma 2, T.U.A. in tema di violazione dei valori limite di emissione in atmosfera, poiché anche in questo caso la configurabilità del reato può fondarsi su dati forniti dallo stesso responsabile in sede di registrazione e comunicazione dei dati relativi alle emissioni anomale.

Parte seconda: il mercato come risposta alla crisi ambientale e la giurisdizione

II.1. L’insufficienza del “ command and control” e l’emersione degli strumenti volontari per la tutela dell’ambiente

Parallelamente alla espansione del ruolo della giurisdizione “ integrativo” del “command and control”, iniziò ad emergere la consapevolezza che demandare al solo controllo la verifica del rispetto dell'ambiente richiedeva un impiego di risorse umane e finanziarie insostenibile rispetto alla crescita tumultuosa dei fenomeni di inquinamento industriale 48.

Fu il mondo delle imprese a determinare l’ulteriore evoluzione dell’ordinamento ambientale.

Partendo dalla considerazione che in un sistema impostato sul solo “ command and control” l’ambiente finiva per essere visto soltanto come un freno alle potenzialità produttive, un problema da risolvere e non come una occasione di crescita e di distinzione sul mercato, iniziarono ad emergere, a partire dai primi anni novanta, “strumenti volontari” che, rendendo per l'impresa conveniente il rispetto dell'ambiente, erano idonei ad indirizzarla in modo non cogente verso la riduzione e prevenzione dell'inquinamento.

Tale fenomeno cominciò con l’affermazione delle c.d. “ certificazioni ambientali”, consistenti nella adesione volontaria a regole gestionali determinate da organismi privati 49 controllata da soggetti esterni indipendenti ed accreditati 50; evoluzione cui diede ben presto seguito il legislatore europeo con i regolamenti "Emas", sull'adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema comunitario di ecogestione e audit [Reg. (CEE) 29 giugno 1993, n. 1836/93] ed "Ecolabel" relativo al sistema comunitario di assegnazione di un marchio di qualità ecologica [Reg. (CEE) 23 marzo 1992, n. 880/92], poi sostituiti fino ai vigenti Reg. (CE) 25 novembre 2009, n. 1221/2009 e Reg. (CE) 25/11/2009, n. 66/2010, per i quali l'impresa, sottoponendosi volontariamente ad una specifica disciplina di tutela ambientale, ottiene, quale contropartita, il diritto di utilizzare un particolare marchio, a valenza comunitaria, che qualifica, rispettivamente, il sito produttivo od il prodotto.

Il sistema delle certificazioni, nelle sue varie declinazioni, nato con una funzione meramente promozionale, essendo fondato su strumenti diretti a valorizzare l’immagine dell’impresa verso i consumatori, in termini di qualità e di vantaggio nei confronti della concorrenza, è stato progressivamente riconosciuto ad altri fini dall’ordinamento.

E così il T.U.A. collega alla adozione dei sistemi di certificazione agevolazioni procedimentali o finanziarie 51, in tema:

  1. di rinnovo e riesame dell’AIA (art. 29-octies);

  2. di rinnovo delle autorizzazioni alle imprese in possesso di certificazione ambientale in materia di gestione dei rifiuti (art. 209);

  3. di riduzione delle garanzie finanziarie per l’iscrizione all’albo nazionale gestori ambientali (art. 212, commi 10 e 11);

  4. di riduzione delle garanzie finanziarie per le spedizioni transfrontaliere (art. 194).

Può farsi poi riferimento ai regolamenti in materia di Eow 52, i quali delineano un sistema per il quale i rifiuti cessano di essere considerati tali allorché, all'atto della cessione dal produttore ad un altro detentore, sono soddisfatte condizioni di natura sostanziale e procedurale, prevedendo, tra queste, oltre alla compilazione, da parte del produttore o dell'importatore, di una dichiarazione di conformità, che deve essere trasmessa al detentore successivo della partita di rifiuti recuperati, anche l’applicazione, da parte del produttore, di un sistema di gestione della qualità, che prevede tutta una serie di procedimenti documentati, nonché obblighi specifici di monitoraggio, sistema che deve essere verificato da uno speciale organismo di valutazione.

In questo caso, si assiste alla integrazione tra un rapporto di natura privatistica, quale è il c.d. contratto di accreditamento (infra) ed i profili di responsabilità penale, in quanto la mancata attuazione del sistema di gestione, escludendo l’applicabilità delle regole dell’ Eow alla base del recupero, attribuisce carattere di illiceità alla gestione dei rifiuti.

La materia delle certificazioni ambientali ha poi trovato spazio nel settore dei contratti pubblici, sia per quanto riguardal’aggiudicazione 53, sia per quanto riguarda il c.d. Green public procurement (GPP), in tema di acquisti verdi della pubblica Amministrazione 54.

Oltre alle certificazioni ambientali, che riguardano la fase gestionale dell’impresa, rientrano tra gli strumenti volontari quelli negoziali. Al riguardo possono distinguersi tre distinti settori:

  1. il c.d. “mercato virtuale” per conseguire il risparmio energetico e l’implementazione dell’uso delle energie rinnovabili, impostato sui c.d. certificati verdi 55 , certificati bianchi 56 e certificati neri 57 ;

  2. le forme contrattuali 58 con la finalità di favorire il risparmio energetico, quali il contratto servizio energia 59 ed il contratto di rendimento energetico (o secondo la terminologia anglosassone Energy Performance Contract, oEPC) 60 ;

  3. gli accordi e dei contratti di programma con funzione di regolazione e di promozione di strumenti economici ed incentivi (artt. 180, 206, 206-ter, 206-quater, 206-quinquies T.U.A.) 61 .

Un versante a parte, infine, è quello degli incentivi fiscali in funzione di tutela ambientale 62.

L’esame del sistema normativo ambientale consente quindi di affermare come lo stesso non sia più soltanto ispirato dall’idea che il mercato è la causa della crisi ecologica 63– in quanto tale da “gestire” o contenere” – ma abbia ormai assimilato il convincimento, da tempo emerso nel pensiero economico, che anche il mercato può essere un fattore di contrasto, se non di rimedio, per tale crisi 64.

II.2. Capitale naturale ed economia circolare: dall’economia un “assist” per la giurisdizione

Così illustrato sinteticamente il complesso degli “ strumenti volontari” di tutela ambientale, va rilevato che per essi la giurisdizione non ha assunto un ruolo di fonte “integrativa” come avvenuto per l’attuazione del “command and control”, ma è intervenuta solo su singoli e specifici profili, senza contribuire alla creazione di un sistema organico di diritto vivente.

Per comprendere la portata e le ricadute di tali interventi è necessario precisare che l’affermazione degli strumenti volontari cui si è fatto cenno in precedenza ha preso avvio nel contesto della economia tradizionale c.d. “lineare”, basata sul ciclo di vita dei beni che inizia con l’estrazione delle materie prime, prosegue con la loro trasformazione in semilavorati e prodotti finiti utilizzati dai consumatori (intermedi e finali) e termina con lo smaltimento e l’eliminazione degli “scarti” e dei prodotti stessi (ormai diventati “rifiuti”) dal processo economico.

Nel tempo, però, gli strumenti volontari sono stati anche “ricollocati” all’interno di un nuovo rapporto tra ambiente e mercato, oggetto di ampio dibattito a livello economico e politico, incentrato sul passaggio dal sistema attuale, principalmente fondato su regole finalizzate a contenere l’aggressione dell’ecosistema da parte delle attività antropiche, ad uno in cui sia non solo doveroso, ma conveniente, produrre in modo pulito e sicuro beni, materiali ed energia, ricostruire gli ecosistemi naturali, ridurre al minimo le emissioni e l’inquinamento, usare in modo efficiente le risorse non rinnovabili.

In questo mutato scenario, nel contesto dell’ampio concetto di “green economy65, il pensiero economico si è concentrato sui due concetti fondamentali di “ capitale naturale” ed “economia circolare”.

Il “capitale naturale” identifica i beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) non soltanto come oggetto di tutela, ma in una diversa prospettiva, in quanto ne individua i c.d. servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo e suscettibili di monetizzazione 66.

Una prospettiva, questa, cui il legislatore ha dato una risposta timida, limitandosi alla istituzione, con l’art. 67 della legge n. 221/2015, del comitato per il capitale naturale, avente compiti di studio e monitoraggio, sostanzialmente rimettendo alla economia ed alla prassi l’individuare di forme nuove di gestione delle risorse naturali e delle relative soluzioni organizzative e negoziali.

La valorizzazione dei “servizi ecosistemici” offerti dal capitale naturale si completa, secondo la linea di pensiero di recente emersione, con la piena attuazione della “economia circolare” che indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”.

Si osserva che il postulato di fondo di tale sistema – e cioè che le risorse naturali siano sempre disponibili, accessibili ed eliminabili a basso costo – è prossimo a entrare in crisi e si propone il passaggio a un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati. Il passaggio a un’economia circolare mira a concorrere alla realizzazione di tale risultato, attraverso “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” 67.

L’economia circolare, proponendo un modello di sviluppo incentrato sulla valorizzazione della qualità dei prodotti in funzione della durata della loro vita, sul loro riutilizzo, sulla prevenzione della formazione dei rifiuti e, comunque, sul loro recupero, configura una forma di tutela indiretta del capitale naturale, in quanto attuata mediante un sistema economico, sostitutivo di quello tradizionale, che crei le condizioni per limitare al minimo l’utilizzo delle risorse non rinnovabili 68.

La peculiarità dei principi alla base di tale autonomo ambito di tutela del capitale naturale si evince dal confronto con l’impostazione propria della protezione bilanciata, cioè dell’altra forma di regolamentazione dell’attività d’impresa in funzione di tutela del capitale naturale (la protezione integrale, riguardando contesti specifici e limitati, assume un ruolo residuale e, come si è detto, si incentra più sulla tutela della risorsa, che sulla disciplina delle attività che possono comprometterla).

Nella protezione bilanciata, infatti, l’impresa è il soggetto contrapposto al bene da tutelare.

Venendo in evidenza il suo rapporto diretto con il capitale naturale, gli strumenti di regolamentazione mirano a bilanciare i contrastanti interessi della conservazione dell’ambiente e della produzione, nonché a definire il perimetro del c.d. rischio consentito per l’attività imprenditoriale, mediante gli strumenti autorizzatori, l’imposizione di prescrizioni stringenti e la previsione di standards. Corollario di tale impostazione è il rafforzamento della responsabilità d’impresa, che viene prevista anche in forma presunta (si pensi alla disciplina del danno ambientale, in cui tale presunzione opera per le imprese che svolgono specifiche attività ritenute pericolose) e collettiva (ad esempio, la responsabilità condivisa in tema di circolazione dei rifiuti), oltre ad essere estesa, in caso di commissione dei c.d. reati presupposto, alla persona giuridica (per effetto del d.lgs. n. 231/2001, come implementato nel 2011 e con la legge n. 68/2015 sui delitti ambientali).

Nell’economia circolare, invece, l’impresa non si contrappone all’interesse protetto, ma concorre alla sua attuazione.

Viene, infatti, configurato un diverso sistema economico, incentrato sulla produzione di beni con caratteristiche di durata e suscettibili di adeguato riutilizzo.

A differenza della monetizzazione dei servizi ecosistemici offerti dal capitale naturale, non ancora in concreto disciplinata, l’attuale stadio della normativa ambientale già contiene elementi di parziale regolamentazione dell’economia circolare (basti pensare alle discipline, già evidenziate, del recupero dei rifiuti o del sistema di strumenti volontari per conseguire il risparmio energetico e l’implementazione dell’uso delle energie rinnovabili).

Tuttavia è generalmente condivisa l’idea che l’intero sistema nel complesso dovrà rimodularsi e primi accenni in tal senso si colgono in recenti proposte normative a livello europeo 69.

II.3. Il ruolo del diritto vivente nella rivisitazione in chiave ambientale dei concetti di proprietà e impresa

Ai fini che interessano in questa sede, si deve tenere presente che tale rimodulazione si fonda, essenzialmente, sulla rivisitazione in chiave ambientale dei due pilastri su cui si è fondata l’espansione del capitalismo tradizionale di matrice industriale: la proprietà e l’impresa.

Un processo che potrà confrontarsi con diversi spunti rinvenibili nella recente giurisprudenza.

Per quanto riguarda la proprietà, il tema del capitale naturale è stato parzialmente anticipato all’interno dell’ampio dibattito che si sviluppò sui “beni comuni” verso la fine del passato decennio 70, in cui, all’interno delle varie proposte sistematiche, le risorse naturali erano costantemente prese a riferimento quale contesto emblematico della necessità di superamento del tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, per valorizzare, invece della appartenenza, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario 71.

Tale impostazione fu colta dalle Sezioni Unite civili della Cassazione nel 2011 72 quando fu affermata la proprietà pubblica delle valli da pesca della laguna di Venezia, in quanto beni che per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultavano, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - dovevano ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività .

La bocciatura di tale soluzione da parte della Corte Edu 73 per violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Cedu, in quanto la società ricorrente era stata privata senza alcun indennizzo della valle da pesca che utilizzava e nel contempo riconosciuta debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo , se conferma le difficoltà di soluzioni giurisprudenziali nell’attuale regime normativo dei beni, non esclude ed anzi è compatibile con la soluzione di valorizzare e monetizzare i “servizi ecosistemici” offerti dal capitale naturale a prescindere dal regime proprietario 74.

Per quanto riguarda l’impresa, la sua operatività nell’economia circolare richiede:

  1. la valorizzazione del ruolo del produttore dei beni e della sua responsabilità;

  2. l’evoluzione del ruolo del consumatore, da acquirente di beni a fruitore di servizi, in una prospettiva, già avviatasi, di evidente integrazione tra la circular economy e lasharing economy75 ;

  3. il mutamento dell’interesse aziendale degli attori economici di tali sistema, che non stride con quello ambientale, ma tendenzialmente coincide;

  4. la crescente importanza degli strumenti volontari, rispetto a quelli di “command and control”, con il passaggio da mero strumento alternativo di tutela dell’ambiente, nel contesto della economia tradizionale c.d. “lineare”, ad uno dei fondamenti essenziali dell’economia circolare;

  5. la conseguente generale impostazione della produzione dei beni e dei servizi e dei relativi rapporti secondo procedimenti e schemi di qualità certificata.

Rispetto a tali condizioni, la giurisdizione fornisce alcuni limitati spunti di riflessione su due versanti.

Il primo riguarda la natura dei soggetti collettivi che operano su diversi flussi di rifiuti e che sono previsti quale soluzione generalizzata dall’art. 178-bis, recependo la direttiva quadro sui rifiuti

2008/98/CE 76 in tema di responsabilità estesa del produttore del prodotto (va però tenuto presente che la norma, introdotta dal D.Lgs. n. 205 /2010, non è ancora operante, come regola generale, per la mancata emanazione dei decreti attuativi ivi previsti 77; allo stato, pertanto, la materia è affidata alle norme di settore che prevedono il divieto per il produttore di immettere sul mercato prodotti contenenti sostanze pericolose 78 o che fissano regole per la progettazione dei prodotti 79 o che prevedono la partecipazione obbligatoria dei produttori nei sistemi collettivi di gestione dei rifiuti relativi ai beni da essi prodotti 80).

Orbene, rispetto a tali disposizioni settoriali, è costante la qualifica dei sistemi collettivi consortili come soggetti privati che svolgono un'attività connotata dai caratteri tipici di un pubblico servizio, sia per il loro inserimento nell'organizzazione amministrativa, sia per l'esercizio di una serie di funzioni d'innegabile valenza autoritativa, o comunque di natura non meramente materiale o tecnica, nel quadro della difesa dell'ambiente 81.

I sistemi collettivi sono quindi imprese private e, pertanto, naturalmente orientate al profitto, che però si organizzano per assolvere una funzione di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato.

Si tratta di una tecnica regolatrice coerente con l’inquadramento sistematico dell’economia circolare quale terzo pilastro della protezione dell’ambiente e con la natura indiretta di tale protezione.

Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore.

Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, in quest’ultima, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’ an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto.

È, questo, il dato distintivo con la tecnica di protezione incentrata sulla imposizione di stringenti obblighi gestionali, vincolati e precostituiti in ogni profilo.

La previsione di una sfera di autonomia decisionale, sia pure vincolata nel risultato, con l’attribuzione ai sistemi collettivi di un ruolo attivo nella determinazione delle regole e delle procedure, ha, poi, ricadute sul versante della c.d. “democrazia ambientale”.

Ed infatti, per effetto di tale previsione, il diritto di partecipazione ai processi decisionali in materia di ambiente, parte fondante della democrazia ambientale ai sensi della nota Convenzione di Aarhus del 25 giugno 1998 e dalle relative norme nazionali di recepimento, quali, in Italia, la legge n. 108/2001, non si esplica più soltanto nella mera consultazione non vincolante delle comunità interessate ai fini della adozione di determinai piani e progetti, ma implica una vera e propria partecipazione attiva al processo definitorio del “modo” di funzionamento di importanti settori dell’economia circolare.

Si assiste, quindi, all’emersione di una sorta di “ coamministrazione” pubblico/privato, impostazione che rappresenta un ragionevole punto di equilibrio tra la pluralità di proposte, in materia di beni comuni, sulla funzione della parte pubblica, in quanto si colloca a metà tra una soluzione che ipotizza un ruolo di mera autorità regolatrice, in un contesto di laissez-faire alle regole del mercato e un’altra che, sul versante opposto, le affida poteri forti ed esclusivi, sulla falsariga di esperienze di “socialismo reale” già negativamente sperimentate in passato (ed è in tale contesto che è stato recentemente teorizzato il cosiddetto “benicomunismo82).

Il secondo ambito in cui si registrano interventi di diritto vivente è quello del sistema delle certificazioni di qualità.

Trattasi, peraltro, di interventi che non riguardano compiutamente i numerosi profili di carattere dogmatico che tali strumenti pongono, nonostante la loro progressiva ed ampia affermazione nella prassi ed il conseguente cambio culturale nell’approccio alla prevenzione ambientale 83.

E così, sul versante civile 84, si registrano, peraltro nella sola giurisprudenza di merito, indicazioni sulla qualifica del contratto di certificazione come contratto atipico 85 e del contratto di assistenza per il conseguimento della certificazione di qualità come contratto d’opera ai sensi degli artt. 2222 e segg. c.c. 86, mentre non risulta ancora affrontata la questione della responsabilità del certificatore verso i terzi che in buona fede hanno fatto affidamento sulla certificazione 87.

Altrettanto dicasi sul versante penale, in cui si registra un solo risalente intervento della S.C. che ha negato alla adozione di un sistema di certificazione, l’effetto di esonero di responsabilità per un fatto di inquinamento 88.

Non risulta, invece, ancora affrontata la questione della responsabilità penale del certificatore nel caso di falsa dichiarazione di conformità 89.

1 Si rinvia al rapporto di Environmental Justice Organizations (Ejolt) in http://www.ejolt.org/wordpress/wp-content/uploads/2015/01/150112_Ecological-debt-final.pdf .

2 Si rinvia al sito http://www.overshootday.org da cui si apprende che la nostra impronta ecologica, che dovrebbe essere fisiologicamente deve essere pari ad 1, è già 1,4 e che l’impronta ecologica dei nord-americani è ormai vicina a 6

3 Esaminando separatamente tali contesti, può affermarsi che essi hanno natura di matrice morale, per quanto riguarda le condotte di prevenzione rimesse alla spontanea iniziativa del singolo (tema diffusamente affrontato dalla enciclica di Papa Francesco Laudato si') o politica, nella parte in cui evidenziano la responsabilità dello Stato-apparato per la regolamentazione della gestione delle risorse naturali in funzione di giustizia sociale (in tema cfr. Sachs, Ambiente e giustizia sociale. I limiti della globalizzazione, trad. Lo Voi, Di Gaetano e Raudner, Editori Riuniti , 2002) e di tutela delle aspettative e dei diritti delle generazioni future (ad esempio l’art. 144 T.U.A. prevede che le acque costituiscono una risorsa che va tutelata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà; qualsiasi loro uso è effettuato salvaguardando le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale; il concetto di conservazione per le generazioni future caratterizza anche il D.M. 16 giugno 2015, n. 86 recante la “ Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici”) od al più si contestualizzano nel diritto internazionale, per quanto riguarda la stipula di accordi tra gli Stati recanti disposizioni “compensative” o di “riequilibrio” ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri (ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, noto come Cop21 , prevede il versamento di 100 miliardi all'anno per i Paesi in via di sviluppo).

4 Sul quale si rinvia a Fonderico,Sviluppo sostenibile e principi del diritto ambientale, in Ambiente & Sviluppo, 2009, X, 921.

5 Cons. Stato, sez. VI, n. 1269/2007. Per esplicazioni sulla teoria della protezione integrale dell’ambiente quale elemento distintivo della disciplina delle aree protette vedi Di Plinio - Fimiani (a cura di), Aree naturali protette. Diritto ed economia, Giuffrè, 2008, cap. 1, 5 e 8.

6 Per commenti alla sentenza, si rinvia a Giampietro F., Ilva: dalla sentenza della Sovrana Corte n. 85/2013 al D.L. n. 61/2013 , in Ambiente & Sviluppo, 2013, VIII-IX, 705 e Ruga Riva,Il caso ILVA: profili penali-ambientali, in www.lexambiente.it, 17 novembre 2014.

7 Per la funzione dell’AIA quale strumento di bilanciamento, si rinvia a Vernile, L'autorizzazione integrata ambientale tra obiettivi europei e istanze nazionali: tutela dell'ambiente vs. semplificazione amministrativa e sostenibilità socio-economica , in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015, VI, 1697.

8 La sentenza al riguardo afferma: « La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come "primari" dei valori dell'ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato - dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo - secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenzial e».

9 Cass. pen., sez. III, n. 24373/2015, ed ivi rif..

10 L'esigenza di bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, da un lato, con le finalità di giustizia, dall'altro, è dichiaratamente alla base della speciale disciplina dei sequestri riferiti ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori relativi a stabilimenti di interesse strategico nazionale, prevista dall'art. 3 del d.l. n. 92/2015, poi confermato dall'art. 21-octies del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 aggiunto dalla legge di conversione n. 132/2015, che ha, nel contempo, abrogato l'art. 3 cit., pur facendone salvi gli effetti prodottisi nelle more. In relazione alla norma è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dal Gip del Tribunale di Taranto, con ord. 14 luglio 2015 (in www.penalecontemporaneo.it, 25 luglio 2015).

11 Cass. pen., sez. III, n. 17716/2013, inAmbiente & Sviluppo, 2014, II, 119, con nota di Paone, La facoltà di uso dell'impianto sequestrato.

12 Cass. pen., sez. III, n. 30482/2015, secondo cui, in tal caso, non si pone affatto la questione del rispetto o meno del principio di proporzionalità ed adeguatezza, poiché non si tratta di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, bensì della sostanziale vanificazione degli effetti e delle finalità della misura applicata.

13 Cass. pen., sez. III, n. 24373/2015.

14 Cass. pen., sez. III, n. 35801/2010, secondo cui “nulla osta al fatto che l'attività produttiva continui anche in pendenza di un provvedimento di sequestro preventivo che abbia ad oggetto beni per i quali si ponga un'esigenza di utile gestione”.

15 Cass. pen., sez. III, n. 22028/2010, secondo cui rientrano nell'amministrazione dei beni sottoposti a sequestro preventivo gli adempimenti necessari a ripristinare lo stato antecedente alla condotta illecita.

16 Cass. pen., sez. III, n. 19360/2015.

17 Cass. pen., sez. III, n. 36611/2012. Nella specie il provvedimento di revoca da parte del Gip del sequestro preventivo di vasche di raccolta del percolato aveva erroneamente ritenuto che l'esigenza di evitare l'ulteriore protrarsi dell'illecita condotta poteva essere soddisfatta mediante l'adozione delle prescrizioni e cautele puntualmente dettagliate dallo stesso pubblico ministero nel provvedimento di autorizzazione all'utilizzo delle vasche.

18 Per un'applicazione di tale principio v. Cass. pen., sez. III, n. 23112/2012, in Dir. e giur. agraria alimentare e dell'ambiente , 2012, VII-VIII, 476, con nota di Pierobon, Spedizioni transfrontaliere di rifiuti: le diverse esigenze che traspaiono dalla sentenza della Cassazione penale n. 23112 del 2012 , che ha ritenuto legittima la restituzione di un “container” contenente merce diversa da quella dichiarata nella documentazione di accompagnamento dell'esportatore straniero (nella specie, rifiuti speciali il cui trasporto non risulti autorizzato), subordinata alle operazioni di recupero e bonifica a mezzo di impresa autorizzata e specializzata, ancorché la società che aveva subito il sequestro fosse inconsapevole ed estranea ai fatti in quanto l'impiego del contenitore era avvenuto a condizioni FLC (full container load, ossia “a contenitore pieno”), in quanto ai fini del dissequestro doveva farsi applicazione del regolamento CE 1013/2006 per la procedura di ripresa dei rifiuti nel caso di transito illegale nello Stato.

19 Cass. pen., sez. III, n. 37280/2008.

20 Cass. pen., sez. III, n. 28577/2014 (che richiama sez. III, n. 37280/2008 cit.). Nella specie, a seguito della revoca del sequestro di un'area sulla quale erano stati abbandonati di rifiuti da parte di ignoti, per mancanza dei prova della colpevolezza dei proprietari, il Tdr aveva disposto la restituzione in loro favore, previa bonifica dell'area da effettuarsi sotto il controllo della P.G. Ad avviso della S.C., subordinando la restituzione del terreno alla previa sua bonifica a cura degli stessi indagati aventi diritto, riconosciuti totalmente estranei alle condotte illecite di cui all'art. 256, comma 3, T.U.A. il Tribunale del riesame aveva esercitato un potere che l'art. 192 T.U.A., assegna esclusivamente alla autorità amministrativa. Inoltre, per la rimozione dei rifiuti non è previsto dalla legge alcun onere reale a carico del proprietario che non sia stato accertato responsabile a titolo di dolo o di colpa, che possa giustificare anche nei suoi confronti l'emanazione di una ordinanza sindacale, salvo per l'ipotesi di bonifica dei siti inquinati, situazione da accertare comunque con apposito procedimento tecnico. Pertanto, la bonifica dei luoghi interessati da reati ambientali, ovvero la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, non può essere disposta dalla autorità giudiziaria in pendenza di procedimento penale, trattandosi di sanzione penale atipica che può essere irrogata dal giudice penale solo con la sentenza di condanna, ai sensi dell'art. 256, comma 3, T.U.A..

21 A lungo l’unica legge di tutela dell’ambiente fu quella in tema di inquinamento atmosferico (l. n. 615/1966).

22 Non a caso i reati ambientali furono presi a riferimento nell’ambito del dibattito che si sviluppò negli anni novanta sulla questione se il diritto penale tutelasse beni o funzioni. In tema, cfr. Giunta, Il diritto penale dell'ambiente in Italia: tutela di beni o tutela di funzioni? , in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, IV, 1097; Palazzo, Bene giuridico e tipo di sanzioni, in L’indice penale , 1992, II, 231; Paliero, L’agorà e il palazzo quale legittimazione per il diritto penale? , in Criminalia- Annuario di scienze penalistiche, 2012, 95. Per un quadro sistematico e storico del diritto penale dell’ambiente, si rinvia a Catenacci,La tutela penale dell’ambiente, Cedam, 1996 e De Santis, Diritto penale dell’ambiente – Un’ipotesi sistematica, Giuffrè, 2012.

23 In tema sia consentito rinviare al Nostro, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, 2015, 57 e segg. con i relativi riferimenti bibliografici. Più di recente, v. Accinni, Disastro “ambientale” ed elusione fiscale: due paradigmatici esempi di sostanziale violazione del principio di legalità , in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, II, 755, Cappai, Un "disastro" del legislatore: gli incerti rapporti tra l'art. 434 c.p. e il nuovo art. 452 quater c.p ., in www.penalecontemporaneo.it , 14 giugno 2016 e Ruga Riva, Il nuovo disastro ambientale: dal legislatore ermetico al legislatore logorroico , in Cass. pen., 2016, XII, 4635B.

24 Cass. pen., sez. I, n. 45001/2014.

25 Per un quadro generale sulla operatività del principio di precauzione si rinvia a Butti, Principio di precauzione, codice dell'ambiente e giurisprudenza delle corti comunitarie e della corte costituzionale, in Riv. giur. amb., 2006, VI, 809.

26 Principi confermati dalla recente Cass. pen. sez. III, n. 46170/2016

27 Per un quadro generale sulla operatività del principio di precauzione in materia penale, si rinvia a Corn, Il principio di precauzione nel diritto penale, Giappichelli, 2013.

28 Definite dalla lettera l-ter) dell'art. 5 T.U.A. come “la più efficiente e avanzata fase di sviluppo di attività e relativi metodi di esercizio indicanti l'idoneità pratica di determinate tecniche a costituire, in linea di massima, la base dei valori limite di emissione e delle altre condizioni di autorizzazione intesi ad evitare oppure, ove ciò si riveli impossibile, a ridurre in modo generale le emissioni e l'impatto sull'ambiente nel suo complesso”.

29 Secondo la definizione di cui alla lettera l-ter2), le conclusioni sulle BAT sono “il documento adottato secondo quanto specificato all'articolo 13, paragrafo 5, della direttiva 2010/75/UE, e pubblicato in italiano nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea, contenente le parti di un BREF (cioè il documento pubblicato dalla Commissione europea ai sensi dell'articolo 13, paragrafo 6, della direttiva 2010/75/UE) riguardanti le conclusioni sulle migliori tecniche disponibili, la loro descrizione, le informazioni per valutarne l'applicabilità, i livelli di emissione associati alle migliori tecniche disponibili, il monitoraggio associato, i livelli di consumo associati e, se del caso, le pertinenti misure di bonifica del sito.

30 In tema, si rinvia a Labarile, Autorizzazione integrata ambientale, come cambia il ruolo delle BAT (best available techniques) , in Riv. giur. amb., 2013, I, 1.

31 Cfr. Gip Tribunale Savona, 11 marzo 2014, in www.penalecontemporaneo.it, 8 maggio 2014, con nota di Zirulia , Fumi di ciminiere e fumus commissi delicti: sequestrati gli impianti Tirreno Power per disastro "sanitario" e ambientale .

32 La decisione ha ritenuto la natura dolosa della violazione del principio di precauzione, in adesione all'orientamento seguito dalla recente giurisprudenza di merito che ritiene sufficiente, per la configurabilità del reato di cui all'art. 434 c.p. il dolo generico (retro). Analoga impostazione si rinviene nella vicendaIlva (v. Tribunale del riesame Taranto, 7/20 agosto 2012, in http://olympus.uniurb.it).

33 Per l’approfondimento di tali delitti ed in rapporti con il disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., sia consentito rinviare al Nostro, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, 2015, 76 ss..

34 Il tema dell’applicabilità del principio di precauzione diretta ed anticipata rispetto alla regolamentazione di riferimento si pone anche nel caso di modifiche ad “applicabilità differita” al Reg. (CE) n. 1272/2008 sulle sostanze pericolose richiamato dalla Decisione n. 2014/955/UE ai fini della classificazione dei rifiuti. Per la soluzione negativa, si rinvia al Nostro,Il falso nella classificazione dei rifiuti, in Rifiuti n. 244/245 novembre-dicembre 2016.

35 La previsione soltanto di un termine massimo per attivare la procedura di riesame in presenza di nuove disposizioni europee sulle “BAT”, sembra essere sintomatica della natura fisiologica dell'adeguamento delle norme tecniche e della conseguente presunzione della non palese ed immediata inadeguatezza di quelle ormai superate, fermo restando che l'Autorità competente, laddove necessario, può attivarsi immediatamente per il riesame dell'AIA ed eventualmente disporre la sospensione delle emissioni divenute pericolose.

36 L'obbligo di informativa a carico del gestore riguarda gli esiti degli autocontrolli e la notizia di inconvenienti o incidenti che influiscano in modo significativo sull'ambiente), ai sensi dell'art. 29- decies, comma 3, T.U.A..

37 Per un quadro generale sulla operatività del principio di precauzione in materia civile, v. del Prato,Il principio di precauzione nel diritto privato, in Rass. dir. civ., 2009, III, 633.

38 Cass. civ., sez. III, n. 15853 /2015.

39 In tema sia consentito rinviare al Nostro,Responsabilità per danno all’ambiente, in http://ridare.it, Giuffrè, 18 ottobre 2016.

40 In questa prospettiva il principio di precauzione è ispiratore di profili essenziali nella gestione dei rifiuti. Si pensi: 1) allanatura estensiva del concetto di rifiuto ed al conseguente regime dell’onere della prova (la Corte di giustizia, Sez. II, 11 novembre 2004, C- 457/02, ha chiarito che la specificazione della nozione di "rifiuto", della quale è pur sempre necessaria comunque un'interpretazione estensiva in ragione dei principi di precauzione e prevenzione espressi dalla normativa comunitaria in materia, è possibile solo nei limiti in cui sia sottratta alla relativa disciplina ciò che risulti essere un mero "sottoprodotto", del quale l'impresa non abbia intenzione di disfarsi); 2) alle modalità di caratterizzazione e classificazione come esplicitate dal D.L. 24 giugno 2014, n. 91, art. 13, comma 5 bis, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 116 , che ha aggiunto all' Allegato D del D.Lgs. n. 152 del 2006 un art. 1, rubricato "Classificazione dei rifiuti", che ai commi 5 e 6 prevede l’applicazione concreta del principio di precauzione nei casi in cui è dubbia la natura pericolosa del rifiuto.

41 Sul tema v., in generale, Tassinari, Nemo tenetur se detergere. La libertà dalle autoincriminazioni nella struttura del reato, Bononia University Press, 2012, nonché Furin, Il principio della libertà dalle autoincriminazioni e la sua rilevanza in materia di denuncia di infortunio sul lavoro o di malattia professionale , in Cass. pen., 1998, III, 1008, Perini, Ai margini dell'esigibilità: nemo tenetur se detegere e false comunicazioni sociali, inRiv. it. dir. e proc. pen., 1999, II, 538 e Zanotti,"Nemo tenetur se detegere": profili sostanziali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1989, I, 175.

42 Sentenze n. 32/1965 e n. 236/1984 ed ordinanza n. 186/1996.

43 L’ordinanza ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 3, e 9-octies, comma 3, del d.l. 9 settembre 1988, n. 397, convertito, con modificazioni, nella legge 9 novembre 1988, n. 475, recante la disciplina dei registri di carico e scarico (inclusa quella sanzionatoria, all’epoca penale) poi sostituita dalla disciplina di tali registri di cui all’art. 12 del D.Lgs. n. 22/1997 ed all’art. 190 T.U.A. con l’introduzione di sanzioni amministrative per l’ipotesi di omessa od incompleta tenuta degli stessi.

44 Cfr. sez. III, n. 13808/2001, secondo cui il giudice per accertare il reato di deposito incontrollato di rifiuti a seguito della violazione delle regole del deposito temporaneo deve verificare la sussistenza di tali condizioni acquisendo le necessarie informazioni quantitativo-temporali sull'attività dell'azienda, desumibili anche dai registri di carico e scarico, la cui tenuta è obbligatoria anche per i depositi temporanei.

45 Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (art. 188-ter T.U.A.) non ancora entrato in vigore per effetto di successive proroghe (da ultimo art. 12 d.l. n. 244/2016).

46 Cass. pen., Sez. IV, n. 29627/2016, ha precisato che l'art. 257 T.U.A., comma 4, nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alla L. n. 68 del 2015 , limitava l'applicazione della "condizione di non punibilità" dell'osservanza dei progetti approvati ai sensi degli artt. 242 e seguenti "ai reati ambientali contemplati da altre leggi per il medesimo evento e per la stessa condotta di inquinamento di cui al comma 1", e, quindi, non era estensibile al delitto di danneggiamento, trattandosi di delitto comune solo eventualmente configurabile nel caso di inquinamento ambientale.

47 Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, n. 38085 /2012 e n. 12697/2014.

48 Per l’analisi del dibattito sul tema si rinvia a Rinaldi, " De-regulation" o "re-regulation" ambientale: il dibattito in Europa , in Ambiente & Sviluppo, 1996, IV, 325.

49 In materia si fa riferimento alle norme tecniche elaborate dall'International Organization for Standardization (ISO) con la sigla ISO 9001 e poi con quella ISO 14001, periodicamente aggiornata, la quale identifica uno standard di gestione ambientale (SGA) generalmente riconosciuto come qualitativamente idoneo.

50 Il sistema di accreditamento è stato poi regolato compiutamente dal Reg. (CE) 09/07/2008, n. 765/2008.

51 In questo contesto va segnalato il tentativo del legislatore di avviare un regime di semplificazione dei controlli amministrativi a carico delle imprese soggette a certificazione che, in due occasioni, entrambe non andate a buon fine, aveva previsto la emanazione di regolamenti in materia ai sensi dell' articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (art. 30 D.L. 25 giugno 2008, n. 112 convertito in legge, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, L. 6 agosto 2008, n. 133 ed art. 14 D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito in legge, con modificazioni, dall' art. 1, comma 1, L. 4 aprile 2012, n. 35 ).

52 Vedi: per i rottami metallici (ferro, acciaio e alluminio), il regolamento 333/2011/Ue; per i rottami vetrosi, il regolamento 1179/2012/Ue; per i rottami di rame, il regolamento n. 715/2013/Ue.

53 Dopo le prime aperture con l’abrogato D.Lgs. n. 163/2006, il quale all’art. 2, comma 2, consentiva di subordinare il principio di economicità a criteri ispirati sia a esigenze sociali, sia “alla tutela della salute e dell’ambiente e alla promozione dello sviluppo sostenibile” ed all’art. 83, comma 1, prevedeva che la stazione appaltante potesse inserire tra i criteri qualitativi dell’offerta economicamente più vantaggiosa anche le caratteristiche ambientali, che diventavano così un parametro di valutazione al quale l’amministrazione attribuisce un punteggio autonomo, il nuovo codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 50/2016:

  • all’art. 69 prevede che le amministrazioni aggiudicatrici che intendono acquistare lavori, forniture o servizi con specifiche caratteristiche ambientali, sociali o di altro tipo, possono imporre nelle specifiche tecniche, nei criteri di aggiudicazione o nelle condizioni relative all'esecuzione dell'appalto, un'etichettatura specifica come mezzo di prova che i lavori, le forniture o i servizi corrispondono alle caratteristiche richieste, e fissa le specifiche condizioni richieste;

  • agli articoli 87 e 89 in continuità normativa con l’articolo 44 del Dlgs 163/2006 prevede che qualora richiedano la presentazione di certificati rilasciati da organismi indipendenti per attestare che l'operatore economico soddisfa determinate norme di garanzia della qualità, compresa l'accessibilità per le persone con disabilità, le stazioni appaltanti: a) si riferiscono ai sistemi di garanzia della qualità basati sulle serie di norme europee in materia, certificati da organismi accreditati; b) ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità, qualora gli operatori economici interessati non avessero la possibilità di ottenere tali certificati entro i termini richiesti per motivi non imputabili agli stessi operatori economici, a condizione che gli operatori economici dimostrino che le misure di garanzia della qualità proposte soddisfano le norme di garanzia della qualità richieste (cfr. Consiglio di Stato, 13 ottobre 2016 n. 4238 che ha dichiarato illegittima l’esclusione automatica di una società che aveva presentato una certificazione siglata da un Ente non accreditato, dovendo la stazione appaltante verificare attraverso scrutinio il reale possesso dei requisiti).

54 Che aveva preso il via con il D.M. 11 aprile 2008 (approvazione del Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione) ed ha trovato conferma nell’art. 34 del codice obbliga infatti le stazioni appaltanti ad inserire nella documentazione progettuale e di gara almeno delle specifiche tecniche e delle clausole contrattuali contenute nei criteri ambientali minimi (CAM) adottati con vari decreti del Ministero dell'ambiente per diversi beni e servizi (v. anche l’art. 206-sexies T.U.A., introdotto dalla legge n. 221/2015, che prevede azioni premianti per le pubbliche amministrazioni in caso di utilizzo di prodotti che impiegano materiali post consumo o derivanti dal recupero degli scarti e dei materiali rivenienti dal disassemblaggio dei prodotti complessi negli interventi concernenti gli edifici scolastici, le pavimentazioni stradali e le barriere acustiche). I criteri ambientali minimi sono tenuti in considerazione anche ai fini della stesura dei documenti di gara per l'applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (di regola, l'obbligo di acquisti verdi riguarda almeno il 50 per cento del valore a base d'asta).

55 Introdotti dall’art. 11 D.Lgs. n. 79/1999, attuato dal D.M. 11 novembre 1999 e successive modificazioni ed int., ai fini della incentivazione della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Il meccanismo dei certificati verdi è basato su tre passaggi: l’obbligo, a carico dei produttori e degli importatori di energia elettrica prodotta da fonti non rinnovabili, di immettere annualmente nel sistema elettrico nazionale una quota di elettricità prodotta da impianti alimentati da fonti rinnovabili; il rilascio da parte del Gestore dei Servizi Energetici S.p.A. - GSE al titolare di un impianto qualificato IAFR (impianto alimentato da fonti rinnovabili) dei predetti certificati, attestanti convenzionalmente la produzione di un determinato quantitativo di energia rinnovabile; la possibilità di soddisfare il predetto obbligo anche attraverso l’acquisto di certificati verdi, corrispondenti alla quota dovuta. Il meccanismo è stato sostituito con un altro sistema di incentivi dal D.Lgs. n. 28/2011 che lo ha mantenuto in essere nella fase transitoria (artt. 24 e 25). In tema, cfr. Colcelli,La natura giuridica dei certificati verdi, in Riv. giur. amb., 2012, II, 179.

56 Introdotti con due decreti del 20 luglio 2004, recanti l’uno “nuova individuazione degli obiettivi quantitativi per l'incremento dell'efficienza energetica negli usi finali di energia, ai sensi dell'art. 9, comma 1, del D.Lgs. n. 79/1999 (in tema di risparmio di energia elettrica) e del D.M. 20/07/2004, Nuova individuazione degli obiettivi quantitativi nazionali di risparmio energetico e sviluppo delle fonti rinnovabili, di cui all'art. 16, comma 4 , del D.Lgs. n. 164 /2000 (in tema di risparmio di gas naturale). I certificati bianchi, noti anche come Titoli di Efficienza Energetica (TEE), sono rilasciati dal gestore del mercato elettrico in favore, rispettivamente, dei distributori di energia elettrica e di gas naturale, attestanti il conseguimento di risparmi di energia in relazione al bene distribuito (previsto come obbligatorio per tali operatori, rispettivamente dall' articolo 9, comma 1, del D.Lgs. n. 79 /1999 e dall’art. 16, comma 4, del D.Lgs. n. 164/2000). Anche in questo caso è stato previsto un mercato per la contrattazione di tali titoli (le successive modifiche da parte del D.M. 21/12/2007 e dell’art. 7 del D.Lgs. n. 115/2008 non hanno toccato l’impostazione di fondo). L’art. 7 del D.Lgs. n. 102/2014 e succ. mod. ed int., nel prevedere che l'obiettivo di risparmio nazionale cumulato di energia finale da conseguire nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2014 e il 31 dicembre 2020, è attuato secondo il regime obbligatorio di efficienza energetica di cui all'articolo 7 della direttiva 2012/27/UE , prevede che tale regime è costituito dal meccanismo dei certificati bianchi di cui ai decreti legislativi 16 marzo 1999 n. 79 e 23 maggio 2000 n. 164 e relativi provvedimenti di attuazione, secondo le condizioni contestualmente specificate.

57 Riguardano le disposizioni introdotte a partire dal 2006 (D.Lgs. n. 216/2006, poi abrogato e sostituito dal D.Lgs. n. 30/2013 e succ. mod. ed int.) per la partecipazione dell’Italia al sistema per lo scambio di quote di emissioni di gas ad effetto serra nella Comunità istituito ai sensi della direttiva 2003/87/CE e succ. mod ed int. in materia di scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra. In tema, cfr. Gratani,Le "quote" per inquinare: a titolo gratuito o oneroso?, in Riv. giur. amb., 2013, III-IV, 392, ID, L'UE favorisce la proliferazione dei certificati energetici «multicolori» diversamente regolamentati , in Riv. giur. amb., 2014, IV, 728B e Gaspari, Tutela dell'ambiente, regolazione e controlli pubblici: recenti sviluppi in materia di Eu Emission Trading Scheme (ETS) , in Riv. it. dir. pubbl. com., 2011, V, 1149.

58 Per un quadro ricostruttivo della emersione dei contratti ambientali, si rinvia a Nespor,I contratti ambientali: una rassegna critica, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2003, II, 962.

59 Introdotto dall’art. 1, lett. p) D.P.R. n. 412/1993.

60 Introdotto nel 2008, in recepimento della direttiva 2006/32/CE, dall’art. 2 lett. l), del D.Lgs. n. 115/2008 e poi nuovamente disciplinato dal D.Lgs. n. 102/2014 che, recependo la direttiva 2012/27/UE abrogativa della direttiva 2006/32/CE, all’art. 2 lett. n) ha nuovamente definito il contratto di rendimento energetico o di prestazione energetica come: “ accordo contrattuale tra il beneficiario o chi per esso esercita il potere negoziale e il fornitore di una misura di miglioramento dell'efficienza energetica, verificata e monitorata durante l'intera durata del contratto, dove gli investimenti (lavori, forniture o servizi) realizzati sono pagati in funzione del livello di miglioramento dell'efficienza energetica stabilito contrattualmente o di altri criteri di prestazione energetica concordati, quali i risparmi finanziari ” (la definizione riproduce quella di cui all’art. 2, n. 27, della direttiva 2012/27/UE). Secondo Parola – Arnoni – Granata, I contratti di efficienza energetica. Profili regolamentari e prassi , in Contratti, 2015, V, 517 con il D.Lgs. n. 115/2008 il legislatore italiano si era limitato a definire il contratto di rendimento energetico, senza dettarne una disciplina specifica, per cui tale contratto poteva considerarsi un contratto nominato, essendo definito dal legislatore, ma dal contenuto non tipizzato, mentre nella versione introdotta nel 2014 tale tipizzazione sussiste, in quanto l'art. 7, comma 6 , D.Lgs. n. 102/2014 dispone che, ai fini dell'accesso all'incentivo di cui al conto termico, sono considerati contratti di rendimento energetico solo quelli che presentano gli elementi minimi elencati nell'Allegato 8.

61 Sull’argomento si rinvia a Iacovone,Accordo di programma e tutela dell'ambiente, in Riv. giur. edilizia, 2006, IV-V, 189, Antonioli, Consensualità e tutela ambientale fra transazioni «globali» e accordi di programma , in Dir. amm., 2012, IV, 749 e Videtta, Interessi pubblici e governo del territorio: l'“ambiente” come motore della trasformazione , in Riv. giur. edilizia, 2016, IV, 393.

62 In tema v., ex plurimis, Alfano, Tributi ambientali : profili interni ed europei, Giappichelli, 2012 e Puri, La produzione dell'energia tra tributi ambientali e agevolazioni fiscali , in Dir. e prat. trib., 2014, II, 10309.

63 Altro profilo è quello dell’impatto sull’ambiente della crisi economica e finanziaria. In tema si rinvia a Gratani,L'impatto della crisi economica sull'ambiente nell'UE, in Riv. giur. amb., 2013, II, 218B.

64 Per un quadro generale, si rinvia a Clarich,La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Diritto pubblico, 2007, I, 219, Calabrò, Le certificazioni di qualità ambientale di prodotto quali fattori di competitività per il made in Italy , in Foro amm. TAR, 2009, IX, 2639, Ferrara, Modelli e tecniche della tutela dell'ambiente: il valore dei principi e la forza della prassi , in Foro amm. TAR, 2009, VI, 1945, Salanitro,Tutela dell’ambiente e strumenti di diritto privato, in Rass. dir. civ., 2009, II, 471 e Mastrodonato, Gli strumenti privatistici nella tutela amministrativa dell'ambiente , in Riv. giur. ambiente, 2010, V, 707; per spunti di diritto comparato, si rinvia a Pozzo, Green economy e leve normative, Giuffrè, 2013.

65 Sul quale v., ex multis, Frey,La green economy quale nuovo modello di sviluppo, in Impresa Progetto, Electronic Journal of management, 2013, III.

66 Si discute tra gli economisti ambientali circa i criteri di classificazione all’interno della nozione unitaria di capitale naturale, stante la pluralità di risorse riconducibili a tale concetto e dei relativi servizi ecosistemici. La soluzione sembra essere necessariamente modulare, nel senso che, a seconda della prospettiva da cui si esamina la questione, si può pervenire a classificazioni diversificate (come, per esempio, nel caso di utilizzo dei parametri del servizio erogato, o del contesto territoriale di riferimento, o ancora della risorsa interessata). Per quanto riguarda l’approccio normativo al tema, la distinzione non può che essere operata in relazione alle tecniche regolatrici della materia.

67 Comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “ Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti ”. Sull’approccio europeo al tema v. anche Cavanna, Economia verde, efficienza delle risorse ed economia circolare: il rapporto “Signals 2014” dell'Agenzia europea dell'Ambiente , in Riv. giur. amb., 2014, VI, 821.

68 Per un quadro sintetico della teoria dell’economia circolare, si rinvia a Bompan, L’economia circolare, Edizioni Ambiente, 2016.

69 Il riferimento è al pacchetto di proposte formulate dalla Commissione UE il 2 dicembre 2015, per la modifica di diverse direttive con l’inserimento dei principi fondanti l’economia circolare, illustrato in http://www.minambiente.it/pagina/il-pacchetto-europeo-sulleconomia-circolare .

Per considerazioni critiche alle proposte della Commissione UE si rinvia a Joanna Dupont-Inglis, Economia circolare: gli ambientalisti criticano il pacchetto Ue , in Materia rinnovabile, numero 08/gennaio-febbraio 2016, consultabile in http://www.materiarinnovabile.it/art/169/Economia_circolare_gli_ambientalisti_criticano_il_pacchetto_Ue).

70 Per un’analisi critica, si rinvia a Nespor,Tragedie e commedie nel nuovo mondo dei beni comuni, in Riv. giur. amb., VI, 2013, 665.

71 Per la considerazione che il “capitale naturale” costituisce un bene comune giuridicamente rilevante sia consentito rinviare al Nostro, Capitale naturale ed economia circolare: due facce della stessa medaglia , in Materia rinnovabile, n. 06-07/ottobre-dicembre 2015, in cui tale conclusione fu giustificata dalla considerazione che nel sistema di tutela dell’ambiente possono individuarsi:

  1. una relazione qualificata tra il diritto fondamentale appartenente a ciascun consociato (quello alla salubrità ambientale ed alla conservazione del paesaggio) e le risorse naturali che, nell’insieme, costituiscono il capitale naturale;

  2. la conseguente giustificazione dell’esercizio del diritto (si pensi all’azione per il risarcimento del danno conseguente ad un fatto di inquinamento ambientale, ovvero per ottenere l’inibitoria di attività pericolose per la salute);

  3. l’attribuzione di speciali facoltà inerenti al diritto stesso (in tale prospettiva, vengono in evidenza le attribuzioni – sinteticamente espresse dalla espressione democrazia ambientale - in tema di accesso alle informazioni, di partecipazione del pubblico ai processi decisionali e di accesso alla giustizia in materia ambientale, riconosciute dalla nota Convenzione di Aarhus e dalle relative norme nazionali di recepimento, quali, in Italia, la legge n. 108/2001);

  4. una articolata disciplina di settore finalizzata dare effettività e tutela a quella relazione e regolare l’attività dei vari soggetti interessati (pubblici e privati).

72 Sentenza n. 3665 del 2011 in Giur. It., 2011, XII, 2505, con nota di Cascione, Le Sezioni unite oltre il codice civile. Per un ripensamento della categoria dei beni pubblici , Giust. civ., 2011, XII, 2844, con nota di Ciafardini, I beni pubblici "comuni a proposito delle valli da pesca della laguna di Venezia ed in Foro It., 2012, 573, con nota di Pellecchia, V alori costituzionali e nuova tassonomia dei beni: dal bene pubblico al bene comune.

73 Corte Edu, sez. II, 23 settembre 2014 Valle Pierimpiè Società agricola s.p.a. contro Italia, in Danno e Resp., 2015, II, 129, con nota di Greco T. - Greco M., Valli da pesca, demanialità marittima ed espérance légitime del privato nella giurisprudenza Cedu.

74 Non è estranea a tale prospettiva la tendenza verso un concetto di capitale naturale integrato dall’opera dell’uomo, e non esclusivamente originario, come affermato (ex plurimis, Cass. pen., sez. III, n. 30303 /2014) in tema di tutela del paesaggio, riguardo alla nozione di bosco penalmente rilevante a norma della fattispecie di reato prevista dall'art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004, che prescinde dall'origine naturale o artificiale delle superfici alberate, comprendendole entrambe, e trova un limite di applicabilità solo con riferimento agli impianti arborei destinati in via esclusiva alla produzione del legno.

75 Prospettiva colta da Federico, I fondamenti dell’economia circolare, atti della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile, marzo 2015, in http://www.comitatoscientifico.org, il quale ritiene necessario “un nuovo contratto tra le imprese ed i loro clienti sulla base delle prestazioni del prodotto” in quanto, “ a differenza nell'economia di oggi buy-and-consume, i prodotti durevoli dell’economia circolare sono affittati, dati in leasing e per quanto possibile condivisi (questa è la sharing economy). Se acquistati, ci sono incentivi o clausole contrattuali per riportare il prodotto in ciclo e, successivamente, riutilizzare lui o suoi componenti e materiali al termine del suo periodo di uso primario. L’economia di ciclo può comunemente portare il prodotto o le sue parti al di fuori del settore industriale di origine”.

76 In tema v. Chilosi, Quali profili di responsabilità per il produttore del bene lungo la filiera di gestione? , in Ambiente & Sicurezza, 2011, II, 37.

77 Con l’introduzione di norme generali sulla responsabilità estesa del produttore inclusiva della capacità del prodotto di avere ridotto impatto ambientale, si porrà la questione della applicabilità della tutela del consumatore nel caso di prodotto difettoso, ai sensi dell’art. 117 del D.Lgs. n. 206/2005 considerato che secondo la giurisprudenza (Cass. civ., Sez. III, n. 13458/2013) “il livello di sicurezza al di sotto del quale il prodotto deve ritenersi difettoso non corrisponde a quello della sua innocuità, dovendo piuttosto farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall'utenza in relazione alle circostanze tipizzate dalla suddetta norma, o ad altri elementi valutabili e in concreto valutati dal giudice di merito, nell'ambito dei quali rientrano anche gli standard di sicurezza eventualmente imposti da normative di settore”. Sul tema, si rinvia a Raspagni, Responsabilità del produttore: ripensamenti e conferme in tema di onere della prova del difetto , nota a Trib. Monza Sez. II, 10 febbraio 2015 , in Danno e Resp., 2015, X, 950.

78 Ad esempio l’art. 9 D.Lgs. n. 209/2003, recante “ attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso ”, o l’art. 3 D.Lgs. n. 188/2008, recante “attuazione della direttiva 2006/66/CE concernente pile, accumulatori e relativi rifiuti e che abroga la direttiva 91/157/CEE”.

79 Ad esempio l’art. 5 D.Lgs. n. 49/2014, recante “ attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche -RAEE ”, norma attuata dal D.M. 10 giugno 2016, n. 140 [“regolamento recante criteri e modalità per favorire la progettazione e la produzione ecocompatibili di AEE, ai sensi dell'articolo 5, comma 1 del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49 , di attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE)”].

80 Cfr. art. 219 T.U.A., secondo cui il costo della raccolta differenziata, della valorizzazione e dell'eliminazione dei rifiuti di imballaggio deve essere sostenuto dai produttori e dagli utilizzatori in proporzione alle quantità di imballaggi immessi sul mercato nazionale e che la pubblica amministrazione organizzi la raccolta differenziata ed il successivo art. 221 produttori e gli utilizzatori sono responsabili della corretta ed efficace gestione ambientale degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio generati dal consumo dei propri prodotti gestione dei rifiuti di imballaggio art. 221.

81 Cass. civ., sez. un. n. 3275 /2006 (ord.) con riferimento alla domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare al Consorzio per il riciclaggio dei rifiuti di beni in polietilene e degli obblighi conseguenti, che è stata devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, nonostante il Consorzio svolga un'attività connotata dai caratteri tipici di un pubblico servizio, in quanto l'obbligo di aderirvi deriva direttamente dalla legge, la quale disciplina in modo completo i presupposti dell'appartenenza al Consorzio ed i relativi obblighi (in particolare, quello di pagamento dei contributi), senza riservare all'autorità amministrativa alcun potere discrezionale nella scelta dei soggetti obbligati, sicché la controversia non ha ad oggetto direttamente il sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo. Nello stesso senso, cfr.: Cass. civ. sez. un., n. 16032 /2010 (ord.), secondo cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alla controversia avente ad oggetto il pagamento dei contributi consortili e dei corrispettivi dovuti da un Comune della Regione Campania ad un consorzio obbligatorio per lo svolgimento del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, in quanto l'obbligo di aderirvi deriva direttamente dalla legge, la quale disciplina in modo completo i presupposti dell'appartenenza allo stesso ed i relativi obblighi, senza attribuire al consorzio alcun potere autoritativo in ordine al pagamento delle quote; Cass. civ., sez. I, n. 24970 /2013, secondo cui il contributo dovuto al CONAI, legato alla produzione di imballaggi e parametrato alla quantità, al peso e alla tipologia del materiale di cui essi sono costituiti (art. 224, comma 3, lett. h, del d.lgs. 30 aprile 2006, n. 152), in quanto “segno diretto della immissione nell'ambiente di rifiuti di un certo tipo e non segno indiretto di capacità reddituale, non partecipa della natura dei tributi indiretti e, pertanto non gode del privilegio ad essi riconosciuto dall'art. 2758, primo comma, cod. civ. (peraltro in favore dello Stato e non di soggetti privati, qual è il consorzio)”.

82 Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, 2015.

83 Tali strumenti volontari, infatti, introducendo un modello di auto-organizzazione fondato sulla analisi iniziale e successiva individuazione di una politica ambientale, inclusiva della programmazione degli interventi correttivi, da parte del management aziendale, da formalizzarsi in documento diffuso all’interno dell'organizzazione per consentirne la conoscenza a tutti gli operatori presenti in azienda e la loro partecipazione attiva al raggiungimento degli obiettivi prefissati, hanno fatto emergere uno schema che ha influenzato la successiva evoluzione della normativa ambientale nella parte in cui ha valorizzato, su diversi fronti, l’autocontrollo collaborativo con la P.A. (retro) ed ha anticipato la disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231/2001, estesa ai reati ambientali prima con il D.Lgs. n. 121/2011 che ha aggiunto l’art. 25-undecies nel D.Lgs. n. 231/2001 e poi con la legge n. 68/2015 che vi ha aggiunto i nuovi delitti ambientali dalla stessa introdotti nel codice penale.

84 Per un quadro generale sul tema, si rinvia a Bellisario, Certificazioni di qualità e responsabilità civile, Giuffrè, 2011.

85 Cfr. Tribunale civ. Monza, sez. IV civile, 3 febbraio 2004 n. 431, inContr., 2004, VIII-IX, 809, con nota di Ambrosoli, Il contratto di certificazione di qualità, secondo cui il contratto con il quale viene conferito l'incarico ad una società di provvedere alla certificazione di qualità non è assimilabile ad alcuna delle fattispecie tipiche previste dal codice civile, deve ritenersi pertanto "atipico", tenendo in considerazione che la causa del medesimo deve ravvisarsi nella volontà di ottenere, dal soggetto che svolge una attività di ispezione e certificazione in assoluta indipendenza e con caratteristiche di terzietà, una prestazione utilizzabile ai fini di una migliore presentazione sul mercato della attività o del prodotto del richiedente. Conforme Tribunale civ. 3 maggio 2012 n. 297 inwww.altalex.com , 13 giugno 2012, con nota di Biarella, Danni da inesatta certificazione CE , che ha affermato la responsabilità risarcitoria dell’organismo di certificazione nei confronti del produttore che aveva immesso sul mercato una macchina sulla base di una attestazione di conformità successivamente rivelatesi oggettivamente errata alla luce di ulteriori analisi effettuate dalle autorità di controllo di uno stato membro.

86 Cfr., con riferimento alle prestazioni professionali erogate da una società in favore di altra per farle acquisire la certificazione di qualità ISO 9001, App. Napoli, Sez. III, 2 marzo 2011 in Leggi d’Italia/Legale/Corti di merito e Trib. Bologna Sez. II, 28 giugno 2010, ibidem, che ha altresì precisato come tale attività sia “ distinta rispetto all'attività di formazione quando risulti la predisposizione della documentazione preliminare allo studio delle problematiche interessate dalla certificazione di qualità ISO 9001, anche con una prima e generica rivisitazione in base alle indicazioni fornite dalla società destinataria del servizio. In tal caso, raggiunta la prova in ordine all'attività consulenziale espletata, in assenza di ogni pattuizione al riguardo, deve provvedersi alla liquidazione della stessa secondo quanto indicato dall'art. 2225 c.c. ed a l riguardo la determinazione cui è chiamato il giudice non è equitativa in senso tecnico, dovendo fondarsi: (I) sul risultato ottenuto; (II) sul lavoro normalmente necessario per ottenerlo, precisando al riguardo che nella considerazione delle peculiarità della singola prestazione d'opera, non è tuttavia vincolato a direttive o a parametri predeterminati ”.

87 In dottrina Bellisario, La responsabilità degli organismi di certificazione della qualità , in Danno e Resp., 2011, XI, 1017, sembra propendere per la natura contrattuale della responsabilità, osservando che la qualifica del certificatore come soggetto professionale altamente specializzato lo rende responsabile non solo verso l'impresa certificata, in virtù degli obblighi nascenti dal regolamento contrattuale e dalle fonti di integrazione dello stesso, ma anche verso il mercato, in virtù degli effetti che conseguono all'utilizzo di una certificazione (veritiera) nonché del sistema di rimedi e sanzioni (anche penali) comminati all'impresa certificata per l'utilizzo e la circolazione di una certificazione infedele. Secondo l’Autore, l’attività di certificazione, se pur di natura privatistica, ha rilevanza pubblica, essendo funzionale ai compiti di vigilanza spettanti alle pubbliche autorità e al corretto funzionamento dei mercati, concorrendo a favorire la libera circolazione delle merci, la competitività delle imprese, la tutela dei consumatori e dell'ambiente. Diversa è l’opinione di Strukul, La certificazione di qualità come strumento di tutela del consumatore. Profili contrattuali e di responsabilità , in Obbl. e Contr., 2009, VIII-IX, 744, il quale ritiene che, essendo slegata da qualsivoglia relazione giuridica, la responsabilità del certificatore ha natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c., come del resto affermato dalla giurisprudenza (Cass. civ., Sez. III, n. 10403 /2002) in tema di responsabilità di una società di revisione nei confronti di terzi investitori per non aver rilevato le irregolarità nella gestione della società sottoposta a revisione rilasciando la certificazione dei bilanci e omettendo di informare i competenti organi di controllo.

88 Cfr. Cass. pen., sez. III, n. 1869/2007: “Ai fini del mantenimento del sequestro preventivo di un'area portuale in relazione al reato di immissione nell'atmosfera e nell'ambiente circostante di polveri di carbone di petrolio atte a molestare le persone ivi transitanti ed imbrattare le aree (art. 674 c.p.) non rileva che la società di cui è direttore l’indagato sia dotata di certificazione di rispondenza alla norma ISO 14001:2004, quando risulti, in concreto, che le precauzioni prese per contenere lo spandimento delle polveri siano assolutamente insufficienti o non utilizzate”. Sia altresì consentito rinviare al Nostro, La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, 2015, 12, in cui l’esclusione dell’effetto “scriminante” della adozione di sistemi di certificazione ambientale viene giustificata non soltanto perché manca una previsione in tal senso, ma anche perché essi attestano l’adozione di un modello “standard” di gestione ambientale sufficientemente organizzato ed efficiente, come tale idoneo a qualificare l’impresa sul mercato ed a consentire benefici in termini procedimentali e finanziari, ma non ad escludere, “ex se” la responsabilità per fatti di inquinamento che, invece, si fonda su emergenze fattuali specifiche e contingenti

89 Deve ritenersi che, laddove il sistema di qualità cui la dichiarazione si riferisce sia disciplinato da norme che prevedono speciali procedure di selezione e designazione per gli organismi di certificazione - come nel caso dell’art. 11 del Reg. (CE) n. 1221/2009 (c.d. regolamento “ Emas”), il certificatore può essere qualificato quale persona esercente un servizio di pubblica necessità, con la conseguente configurabilità del reato di falsità ideologica in certificati di cui all’art. 481 c.p..