LA TUTELA DELL’AMBIENTE NELLA SOCIETA’ DEL RISCHIO
di Claudia BASCIU
L’attenzione dell’uomo rispetto alla salvaguardia dell’ambiente in cui vive cresce in maniera proporzionale allo sviluppo scientifico e tecnologico il quale, se da una parte produce benessere e ricchezza, dall’altra crea pericoli e rischi sempre più gravi e sempre meno controllabili.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, il processo di modernizzazione ha avuto come effetto collaterale negativo la nascita di quella che è stata, emblematicamente, definita come “società del rischio”, laddove per rischio si intende “l’eventualità dell’autodistruzione della vita sul pianeta”.
Una società nella quale i pericoli per la vita dell’uomo e della natura hanno oltrepassato i confini della fabbrica e degli Stati per assumere rilevanza globale, nella quale “la vita di un filo d’erba della foresta bavarese dipende in ultima analisi dalla stipula di trattati internazionali”, e dove gli effetti di un disastro nucleare si propagano per migliaia di chilometri colpendo, indistintamente, ogni essere vivente.
E’ comprensibile che, davanti ad una prospettiva così catastrofica l’attenzione dell’uomo si sia trasformata in vera e propria paura per le sorti del mondo e l’abbia spinto a chiedere alle istituzioni una migliore protezione delle risorse umane e naturali dallo sfruttamento incontrollato e pericoloso degli ultimi tempi. Nella gran parte dei casi le istanze del cittadino tendono verso soluzioni drastiche nei confronti dei probabili autori di tale distruzione, tendono cioè verso la sanzione penale, l’unica pena apparentemente adeguata per chi attenta alla vita sulla terra.
D’altra parte, se le richieste del cittadino sono giustificate da un costante flusso di informazioni su eventi catastrofici, comprensibile ma poco giustificabile è l’immobilismo e l’incertezza delle istituzioni davanti ai nuovi pericoli, probabilmente dovuti ad una sorta di “shock da modernità” che ha impedito al legislatore di elaborare con chiarezza e distacco un adeguato sistema di controllo dei potenziali rischi ambientali e di tutela per la salute dei cittadini, e lo ha portato a rifugiarsi nel porto sicuro del diritto penale.
Ma la questione ambientale merita, sicuramente, maggiore ponderatezza e riflessione.
In tale contesto, occorre verificare se il diritto penale tradizionale sia ancora in grado di fornire una tutela efficace, effettiva, non meramente simbolica alle vittime dello sviluppo economico-industriale di oggi e di domani. Oppure se non sia più utile una scelta coraggiosa da parte dell’ordinamento, che rompa con i vecchi schemi di imputazione e porti all’elaborazione di un nuovo diritto penale o alla creazione di modelli di tutela alternativi allo stesso diritto penale, nell’ambito del diritto civile o amministrativo.
Per verificare l’efficienza del diritto penale nella tutela delle vittime di oggi, abbiamo preso in considerazione due gravi fatti di inquinamento, Seveso e Porto Marghera, i quali pur presentando caratteristiche e problematiche differenti l’uno dall’altro, sono tuttavia emblematici delle difficoltà che si incontrano qualora si intendano applicare gli strumenti penalistici a casi di inquinamento ambientale.la vicenda di Seveso risalente al 1976, fu una vera e propria “bomba ecologica” scoppiata in seguito alla fuoriuscita di una sostanza altamente tossica, la diossina, dagli stabilimenti della società italiana ICMESA, ed ebbe come conseguenze non solo il disastro ecologico e le malattie che colpirono gli abitanti delle zone circostanti, ma il peggioramento di una situazione economica già in crisi e la morte sociale di migliaia di persone, tanto che, ancora oggi, i danni economici e morali del disastro sono incalcolabili.
Il Tribunale di Monza riconobbe, con la sentenza del 1983 la responsabilità penale in capo ad alcuni dirigenti della società italiana coinvolta, ma la condanna risultò immediatamente inadeguata a garantire una tutela effettiva alle vittime del disastro che avrebbero avuto maggiori vantaggi da un repentino intervento di ripristino dei luoghi e da un immediato supporto economico da parte delle istituzioni.
Non solo. La vicenda di Seveso è rappresentativa delle difficoltà applicative del diritto penale quando, nei fatti di inquinamento ambientale, sia coinvolta una persona giuridica e in particolar modo un gruppo di imprese: in realtà, la condanna dei dirigenti italiani lasciò impuniti gli altri colpevoli del disastro, ossia i responsabili della società situata al vertice del gruppo di imprese al quale apparteneva anche l’italiana ICMESA.
L’ostacolo più difficile da superare era costituito da uno dei principi fondamentali del diritto penale italiano, in base al quale alle persone giuridiche non può essere riconosciuta responsabilità penale.
In tal modo, dei reati che possono essere commessi da una società o, come nel caso di Seveso, da un gruppo di società, nell’ambito delle scelte di politica d’impresa risponderà non hi effettivamente ha deciso quella politica, ma solo chi la esegue. Così è accaduto per il disastro di Seveso, del quale hanno risposto solo i dirigenti della società filiale, i quali in realtà hanno avuto parte di responsabilità solo nella c.d. fase esecutiva della politica d’impresa, quella attuativa delle strategie elaborate dai vertici del gruppo.
La vicenda di Porto Marghera presenta caratteri differenti, apparentemente meno evidenti, infatti mentre nel primo caso è scoppiata una “bomba ecologica” in quest’ultimo caso i danni alle persone (lavoratori presso gli stabilimenti Montedison-Enichem) sono stati causati dal contatto quotidiano e continuato nel tempo con sostanze nocive, anche se una prova certa di tale rapporto causa-effetto non è stata fornita dagli esperti.
Proprio l’impossibilità, per la scienza, di ricostruire il rapporto di causalità tra sostanza nociva e malattia rappresenta uno degli aspetti più problematici nella corretta applicazione del diritto penale ai casi di inquinamento causati da sostanze utilizzate nei processi produttivi.
Le difficoltà potrebbero superarsi, come riconosciuto dagli tessi giudici di Venezia nella sentenza del 2001, solo con uno stravolgimento dello schema tradizionale di diritto penale, fondato su due elementi: dal punto di vista sostanziale, il diritto penale d’evento è incentrato sul nesso di causalità secondo il modello della condizione sine qua non, come ha recentemente puntualizzato anche la Corte di Cassazione (sentenza 10/7/2002). La Suprema Corte e i giudici di Venezia riconoscono, inoltre, che lo schema condizionalistico deve essere integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche, quindi è necessario che l’accadimento concreto possa essere spiegato sulla base di una legge generale di copertura, ossia una legge dotata di validità scientifica che permetta di sussumere in se stessa il rapporto azione-evento concepiti non come fenomeni singolari e irripetibili ma come accadimenti riproducibili in presenza del ricorrere di determinate condizioni.
Soltanto con la spiegazione del nesso di condizionamento attraverso leggi universali o leggi di copertura scientifico-probabilistiche, in grado di spiegarlo con un grado di certezza elevato e in grado di escludere, razionalmente, che l’evento si sia verificato in concreto per cause esclusive diverse dalla condotta dell’agente, possono essere soddisfatte le esigenze di certezza e garanzia, il rispetto del principio di legalità e di personalità della responsabilità penale.
Dal punto di vista processuale, l’elemento fondamentale al quale è necessario riferirsi è costituito dalla regola probatoria dell’oltre il ragionevole dubbio, in base alla quale nel processo penale, la prova della colpevolezza dell’imputato deve essere data con un elevato grado di certezza, tale da escludere appunto ogni ragionevole dubbio e in modo da evitare, per quanto possibile, delle condanne ingiuste, fondate su risultati probatori incerti e vaghi, con conseguenze devastanti per la vita di un uomo, sotto il profilo della libertà personale, della dignità sociale e della serenità.
Se si considera che i casi di inquinamento industriale sono innumerevoli, così come innumerevoli e non ancora tutte identificate sono le cause di malattie come il tumore (definita dagli esperti come patologia “multifattoriale”) risulta quasi impossibile dare la prova certa della colpevolezza individuale rispetto al singolo caso di malattia. Risulta indimostrabile che il comportamento, anche omissivo, di un singolo individuo abbia determinato la malattia e/o la morte di un altro individuo esposto a sostanze pericolose.
Alla luce di tali difficoltà, la maggior parte dei Paesi occidentali indirizzano i loro studi verso un tipo di tutela modellato sulla base del diritto civile e amministrativo, tendenza registrata soprattutto nei Paesi di common law, in particolare negli Stati Uniti dove, a differenza di quanto accade nel nostro Paese, si esige sempre una ricostruzione rigorosa del nesso di causalità, e si dà per scontata l’applicazione della regola dell’oltre il ragionevole dubbio (o causa but for).
Peraltro, anche il modello civilistico presenta, dal punto di vista processuale delle difficoltà insormontabili. Il processo civile è dominato dalla regola probatoria del più probabile che no, la quale esige un grado di conferma dei fatti meno rigoroso rispetto alla regola dell’oltre il ragionevole dubbio, ma non sufficiente a dimostrare la causalità individuale. Data la molteplicità delle possibili fonti di esposizione (sino a poco tempo fa l’amianto era utilizzato anche nella costruzione di edifici adibiti ad abitazione) e il lungo periodo di latenza delle malattie ad essi legate (la latenza del mesotelioma pleurico può arrivare a 40 anni) risulta praticamente impossibile individuare con certezza la causa specifica della malattia e risulta difficile anche l’applicazione della regola del più probabile che no.
Considerate tali difficoltà, dottrina e giurisprudenza americane ritengono di poter sostituire il modello civilistico con quello di diritto amministrativo, soprattutto con riferimento ai casi di esposizione di massa a sostanze tossiche (c.d. Toxic Torts). Tale modello si caratterizza per l’istituzione di un foro nazionale unico e di un Comitato di esperti composto da medici, scienziati, economisti, giuristi e rappresentanti delle agenzie regolamentatrici, che decida sulla base del criterio della proporzionalità, in modo da evitare di collocare erroneamente i fondi, poiché esige dal convenuto né più né meno del danno illecitamente causato. La liquidazione del danno si calcola in base ad una tabella contenente i dati più significativi, e con un finanziamento realizzato tramite il contributo dei produttori, detentori e trasportatori di sostanze tossiche, ma anche con imposte generali (le quali si rendono opportune alla luce dei servizi e dei prodotti industriali dei quali tutti beneficiamo, a prescindere dalla pericolosità delle sostanze utilizzate).
Non dobbiamo dimenticare che tutte le riflessioni riguardanti i nuovi modelli di tutela, sono state elaborate dalla dottrina e giurisprudenza americane, mentre lo stato della discussione in Italia è ancora piuttosto arretrato.
Nel nostro Paese, le vittime dello sviluppo industriale che intendono ottenere giustizia non possono agire direttamente in giudizio per avere il risarcimento dei danni, ma sono indotte a premere sulle autorità inquirenti perché diano il via al processo penale; una volta avviato il processo, purtroppo, l’accusa non riesce a fornire la prova della responsabilità individuale poiché si trova di fronte alle “alte mura probatorie” del processo penale, e si arriva ad una situazione tale per cui il giudice pronuncia sentenze di condanna di innocenti oppure di assoluzione che, evidentemente, non potranno soddisfare nessuna delle parti.
A questo punto, è opportuno fare un cenno ad alcune proposte aventi ad oggetto un nuovo modello di diritto penale, idoneo a soddisfare le esigenze della società del rischio.
I principali orientamenti emersi si indirizzano verso un diritto penale del comportamento e un diritto penale del pericolo astratto.
La base comune ad entrambi i progetti è costituita dalla irrinunciabilità del diritto penale nella difesa del pianeta dai comportamenti autodistruttivi dell’uomo e dalla presa di coscienza del fatto che il diritto penale classico, ritagliato sui bisogni della società industriale, non è in grado di fronteggiare la minaccia mortale per la vita superiore su questa terra che il progresso scientifico ha portato con sé in pochi decenni.
Il diritto penale del comportamento dovrebbe basarsi su norme comportamentali riferite al futuro, completamente indipendenti dal danno e dal pericolo di danno, quali sono le norme che prescrivono i valori-limite delle emissioni da parte delle industrie, e tutte le norme di carattere ambientale che prescrivono comportamenti slegati da ogni pericolo di danno. In tale progetto viene meno ogni riferimento ai beni giuridici che, in un’ottica futura, sono piuttosto difficili da individuare; mentre assume rilevanza il riferimento al ruolo del bene nell’ambito dell’intero sistema ecologico (le acque sarebbero protette per l’importanza vitale che esse hanno nell’economia della natura).
In virtù della funzione del bene nell’ecosistema, l’unico criterio idoneo a garantire la tutela dell’ambiente, inteso come insieme di beni che interagiscono tra loro in modo equilibrato, è proprio la previsione dei divieti di superamento di un valore che minerebbe quell’equilibrio.
Il diritto penale del pericolo astratto è un sistema giuridico finalizzato alla prevenzione.
Secondo i suoi sostenitori l’unica via percorribile per evitare che l’uomo completi la sua opera di autodistruzione, è costituita dall’aumento dei reati di pericolo, attraverso la creazione di beni giuridici universali vagamente definiti e norme elaborate con l’aiuto della scienza. Il diritto penale del pericolo astratto serve al mantenimento dell’ordine generale, concepito in modo che in ogni singolo caso, nonostante un’immensità di possibili combinazioni dell’evento, è assicurata una protezione efficace del bene giuridico. L’ordine generale viene tutelato dalla totalità delle turbative descritte dalla fattispecie, di modo che i pericoli difficilmente gestibili come eventi singoli, sono considerati parte di una grande turbativa che comporta pericolo per lo stesso ordine generale.
L’individuo che con il suo comportamento può porre in essere una condotta che rientra nel novero delle condotte astrattamente pericolose, viene indirizzato nel suo agire, da valori standard fissati dalle norme.
In definitiva, i reati di pericolo astratto colpiscono condotte che individualmente potrebbero non essere causa né di danno né di pericolo, represse per il solo fatto che il loro cumularsi ad altre condotte sia considerato pericoloso.
Entrambi i progetti sono stati sottoposti ad una rigorosa critica da parte della dottrina, soprattutto in relazione al pericolo di una reazione eccessiva da parte dell’ordinamento rispetto alle sfide poste dalla società del rischio, con la sostituzione dello Stato di diritto con uno Stato di prevenzione e di sicurezza assai simile allo Stato di polizia. Inoltre, con la diffusione dei concetti di “rischio” e “pericolo” il diritto penale perderebbe le sue essenziali caratteristiche di effettività e legittimità, con il rischio di non riuscire ad ovviare i nuovi rischi in modo efficace e, al contrario, garantire una tutela soltanto simbolica. Senza contare, poi, il fatto che la punizione di soggetti la cui condotta rientra tra quelle potenzialmente pericolose senza verificarne in concreto la lesività, sarebbe una vera e propria ingiustizia, ancor di più se si considera che ciascuno di noi contribuisce con la propria condotta, a creare grandi pericoli. Quest’ultimo rischio appare ancora più concreto se si analizzano i criteri di individuazione dei limiti-soglia o valori-limite, punti fondamentali di entrambi i progetti: le agenzie regolamentatrici fissano i valori limite attraverso l’individuazione del livello al quale non si verifica alcun effetto dannoso conosciuto o previsto per la salute delle persone, e l’applicazione di un fattore di sicurezza che consente di stabilire un limite più basso.
Utilizzando il criterio del “nessun effetto dannoso conosciuto o previsto” si applica la sanzione penale per punire dei comportamenti che, in realtà, non sono pericolosi per la salute o, perlomeno, sulla cui pericolosità non esiste alcun dato certo, se non quelli estrapolati dagli esperimenti eseguiti sugli animali che, come ammettono alcuni scienziati, non sempre sono attendibili.
Un passo molto importante verso una tutela effettiva dell’ambiente è rappresentato, infine, dal riconoscimento anche nel nostro Paese della responsabilità penale delle persone giuridiche.
Riguardo a tale questione, la dottrina italiana parte da una considerazione: la storia recente della criminalità d’impresa fa capire che la stessa applicazione di pene pecuniarie nei confronti delle società deve essere considerata inadatta, da sola, a svolgere un’efficace funzione deterrente e preventiva. In materia di criminalità d’impresa è auspicabile intervenire prima che i dirigenti agiscano illegalmente, occorre distogliere gli stessi da eventuali progetti criminosi.
Il modello al quale ispirarsi è quello statunitense dei compliance programs ossia gli effettivi programmi diretti a prevenire e scoprire i reati.
L’adozione da parte delle imprese di un compliance program comporta l’attenuazione, di alcuni gradi di colpevolezza, del reato e, di conseguenza, una riduzione della pena; ma sarà possibile solo se il programma è effettivo, ossia quando:
a) ha la capacità di ridurre la possibilità di commettere reati;
b) vengono scelti dei soggetti destinati all’attività di supervisione dell’attuazione dei programmi;
c) si applica il criterio della “propensione al reato” nella scelta dei dipendenti;
d) si applicano le tecniche di comunicazione pedagogica;
e) vengono predisposti meccanismi di controllo e canali di informazione;
f) venga predisposto un apparato disciplinare;
g) siano previsti dei modelli premiali.
Tutti i requisiti elencati sono fondamentali per rendere il compliance program effettivo, ma il suo punto di forza è costituito dall’apparato sanzionatorio, che lo rende “un vero e proprio codice interno della società, attivo, funzionante e cogente”.
Nella pratica l’utilità di un compliance program si manifesta sotto due aspetti: il vantaggio più evidente è costituito dallo svolgimento di una effettiva funzione di prevenzione dei reati, attraverso la previsione di un codice di comportamento si rinforza il codice morale dei dipendenti e si scoraggiano eventuali comportamenti criminosi.
Gli altri vantaggi, meno “nobili”, riguardano gli interessi pratici delle imprese. Come visto, la previsione e applicazione di un compliance program garantisce alle imprese una notevole riduzione della pena in caso di reato e, talvolta, anche una rinuncia da parte del Pubblico Ministero a procedere nei confronti della persona giuridica che collabora. Inoltre, un programma rigoroso può portare ad individuare comportamenti illeciti prima ancora che divengano penalmente rilevanti e, in ogni caso, prima che vengano a conoscenza dell’autorità giudiziaria, e questo permette all’impresa di elaborare una strategia difensiva che garantisca una limitazione degli effetti catastrofici di una condanna penale.
Anche riguardo all’adozione dei compliance programs
non mancano delle perplessità, espresse da una parte della dottrina che paventa
il rischio di creare un diritto penale troppo invadente nei confronti delle
imprese, e difficilmente attuabile considerati gli altissimi costi che
l’adozione di un compliance program comporta.
Claudia BASCIU