Dopo un complesso iter parlamentare, comprensivo anche di tre voti di
fiducia, è stata definitivamente approvata la Legge 15 dicembre 2004 n. 308
avente ad oggetto «Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e
l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta
applicazione».
Va subito detto, con estrema sincerità e chiarezza, che un rapido giudizio
“a caldo” sulle nuove disposizioni non può che essere decisamente negativo
anche se ci si deve augurare, in considerazione della delicatezza della materia,
degli interessi coinvolti e delle future conseguenze che le nuove disposizioni
potranno determinare, che l’intento effettivo del legislatore sia quello
dichiarato e che la lettura critica sia solo conseguenza dell’abitudine a
pregresse, negative esperienze.
Fatta tale doverosa premessa, occorre rilevare come, da un primo esame, pare
potersi affermare che la concreta attuazione delle norme contenute nella legge
delega gioverà ben poco alla tutela dell’ambiente, mentre sembrano risultare
evidenti altre finalità che forniscono una palese conferma alle considerazioni,
recentemente diffuse da una autorevole ed attenta studiosa del diritto
ambientale la quale, nel criticare la “proroga della proroga” in tema di
scarichi disposta dalla Legge 192/04, ha testualmente affermato che “il
nostro legislatore ambientale, bisogna ammetterlo, non conosce vergogna”[1].
In effetti non può farsi a meno di notare come le disposizioni in esame
contengano un insieme di disposizioni la cui collocazione in un unico
provvedimento appare quantomeno singolare, sono in alcuni casi di difficile
comprensione e, altre volte, verosimilmente in contrasto con la normativa
comunitaria.
Scopo principale e dichiarato delle nuove norme è quello di procedere al riordino, coordinamento e integrazione della legislazione in materia ambientale attraverso la promulgazione di decreti legislativi ed eventualmente, ove necessario, di testi unici intervenendo sulle seguenti materie:
a) gestione dei rifiuti e bonifica dei siti contaminati;
b) tutela delle acque dall'inquinamento e gestione delle risorse idriche;
c) difesa del suolo e lotta alla desertificazione;
d) gestione delle aree protette, conservazione e utilizzo sostenibile degli esemplari di specie protette di flora e di fauna;
e) tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente;
f) procedure per la valutazione di impatto ambientale (VIA), per la valutazione ambientale strategica (VAS) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC);
g)
tutela dell'aria e riduzione delle emissioni in atmosfera
Quella scelta viene ritenuta “la migliore strada
percorribile per riorganizzare l’intera normativa ambientale, coordinare le
norme nazionali tra di loro e con le direttive comunitarie, completare il
recepimento di queste ultime, eliminare le disarmonie tra i vari settori,
individuare sedi ed organi della programmazione ambientale e precisarne le
competenze” senza tuttavia indicare i motivi per i quali tale decisione si
concentra solo su alcuni aspetti della normativa di settore, tralasciandone
altri, prevedendo di intervenire su
materie oggetto di significativi ed anche recenti interventi (i rifiuti) o sulle
quali, da non molto, il legislatore ha messo mano tenendo conto non solo della
pregressa esperienza ma anche, una volta tanto, dell’orientamento della
giurisprudenza di legittimità (le acque).
Da tempo veniva avvertita la necessità di un riordino di una materia che, è
il caso di ricordarlo, presenta anche confini incerti, talvolta correttamente
estesi fino a comprendere anche l’urbanistica e la tutela dei beni culturali e
del paesaggio, talaltra contenuti in ambiti più ristretti secondo le esigenze
del momento.
Si è giustamente parlato, a tale proposito, di “inquinamento da leggi”[2] anche se l’iperattivismo
del legislatore è stato spesso indirizzato in favore di un trasversale “partito
del non rifiuto”[3]
che, con tutte le maggioranze politiche che si sono succedute nel corso degli
anni - nessuna esclusa - è riuscito ad ottenere, tanto per fare qualche
esempio, la legge 17295 “salva sindaci” in materia di acque per contrastare
un indirizzo non gradito della Suprema Corte, la trasformazione del pet-coke da
rifiuto a combustibile in occasione del sequestro del petrolchimico di Gela, la
sottrazione dal novero dei rifiuti delle terre e rocce da scavo aventi
caratteristiche coincidenti con quelle risultanti dai lavori per la costruzione
delle linee ferroviarie ad alta velocità, la mancata disciplina della
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di
personalità giuridica[4]
e, più recentemente, la singolare
“interpretazione autentica” di cui al D.L. 1382002 convertito nella L.8
agosto 2002, n. 178[5] della quale si dirà anche
in seguito.
A tali discutibili iniziative continuano ad accompagnarsi un sempre più
frequente ricorso alle poco efficaci sanzioni amministrative e l’assenza, nel
codice penale, dei delitti contro l’ambiente, sempre annunciati e mai inseriti[6].
In presenza di tali precedenti atteggiamenti del legislatore non può,
quindi, farsi a meno di guardare con perplessità e preoccupazione alla legge
delega anche in considerazione del fatto che le premesse e le sue finalità
sono, in astratto, pienamente condivisibili ma la loro attuazione effettiva
viene, in concreto, seriamente ipotecata dal contenuto delle “misure di
diretta attuazione” e dagli effetti che le stesse potranno provocare.
L’articolo 1 stabilisce, tra l’altro, termini rigorosi per l’emanazione
dei decreti legislativi ed i successivi provvedimenti per la modifica e
l'integrazione dei regolamenti di attuazione ed esecuzione nonché dei decreti
ministeriali per la definizione delle norme tecniche, individuando altresì gli
ambiti nei quali la potestà regolamentare è delegata alle regioni ed i termini
per il parere delle commissioni
parlamentari[7].
Nei commi successivi vengono indicati, nel dettaglio, i principi cui devono
conformarsi i decreti legislativi da emanare. Principi sicuramente condivisibili
come, ad esempio, quelli riferiti al rispetto delle disposizioni comunitarie,
alla maggiore efficienza e tempestività dei controlli ambientali, alla certezza
delle sanzioni in caso di violazione delle disposizioni a tutela dell'ambiente,
ad una più efficace tutela in
materia ambientale da effettuarsi anche mediante il coordinamento e
l'integrazione della disciplina del sistema sanzionatorio, amministrativo e
penale, fermi restando i limiti di pena e l'entità delle sanzioni
amministrative già stabiliti dalla legge. Sul pieno rispetto di tali principi,
però, non può non obiettarsi che appare quantomeno singolare, sempre per
limitarsi ad un esempio, il riferimento alla necessità di “contrastare
l'elusione e la violazione degli obblighi di
smaltimento” dei rifiuti (articolo 1, comma 9 lettera a)) se confrontato
con quanto si dispone poi nei successivi commi 25 e 26 riguardo ai rottami
ferrosi.
In altre parole, ci si deve augurare che lo stridente contrasto tra i
propositi della delega e le norme di diretta applicazione sia dovuto alle
consuete, poco accorte modalità di redazione dei provvedimenti
e non sia, invece, sintomo evidente di un’operazione finalizzata al
completamento dell’attività di “erosione” della normativa ambientale che,
attraverso ripetuti e mirati interventi nel corso degli anni, è stata adattata
alle necessità contingenti di singoli settori produttivi quando non
addirittura modificata, come si è già detto, per fornire una rapida soluzione
ad imbarazzanti vicende ancora oggetto di valutazione da parte del giudice.
Rinviando alla lettura del testo per quanto attiene ai principi specificati
per ogni singolo settore di intervento, vanno segnalati la definizione delle
modalità di quantificazione del danno ambientale, attualmente individuate solo
dalla giurisprudenza e la esigenza di garantire la piena attuazione delle
direttive comunitarie in materia di VIA e VAS stante la mancanza di una organica
legislazione nazionale in materia.
Particolarmente arduo appare, inoltre, il compito dei soggetti chiamati a
dare attuazione alla delega mettendo mano, in un contesto temporale assai
ristretto, ad un complesso di disposizioni l’interpretazione delle quali
impegna da anni dottrina e giurisprudenza.
Il comma undicesimo prevede, infatti, che il Ministro dell'ambiente e della
tutela del territorio si avvalga, per la durata di un anno, di una commissione
composta da un numero massimo di ventiquattro membri scelti fra professori
universitari, dirigenti apicali di istituti pubblici di ricerca
ed esperti di alta qualificazione nei settori e nelle materie oggetto della
delega.
A costoro verrà affiancata una segreteria tecnica, coordinata dal Capo
dell'ufficio legislativo del ministero o da un suo delegato e composta da venti
unità, di cui dieci scelte anche tra persone estranee all'amministrazione e
dieci scelte tra personale in servizio presso il Ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio, con funzioni di supporto.
La scelta della commissione, come emerge chiaramente dal testo, avverrà in base all’esclusiva discrezione del Ministro e dovrà verosimilmente comprendere soggetti tutti dotati di specifiche e straordinarie competenze, non solo giuridiche ma anche tecniche e scientifiche, stante l’ampiezza della delega, la complessità dei settori di intervento ed il limite temporale indicato
Il comma quattordicesimo prevede, poi, che siano individuate forme di
consultazione delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali e delle
associazioni nazionali riconosciute per la protezione ambientale e per la tutela
dei consumatori ai fini della predisposizione dei decreti legislativi. Tale
ultima precisazione appare maggiormente vincolante per il Ministro
dell’ambiente rispetto alla precedente stesura del testo, dove la
consultazione non si riferiva espressamente ai decreti legislativi da emanare
bensì ad un generico interesse dei soggetti indicati alla disciplina di
settore.
Sullo stato dei lavori della commissione il Ministro dell’ambiente e della
tutela del territorio riferirà ogni quattro mesi alle competenti commissioni
parlamentari (comma quindicesimo).
Si tratta, in definitiva, di una delega molto ampia e dai confini non sempre
nettamente tracciati che potrà sortire gli effetti auspicati dal legislatore
solo se utilizzata in modo obiettivo, senza secondi fini.
Passando all’esame delle disposizioni di immediata
attuazione, nel comma 20 viene disposta l’aggiunta, al comma primo
dell'articolo 36 D.Lv. 30 luglio 1999, n. 300 recante “Riforma
dell'organizzazione del Governo, a norma dell'articolo 11 della legge 15 marzo
1997, n. 59” e successive modificazioni, di un
comma 1bis nel quale si prevede che, nei processi di elaborazione degli atti di
programmazione del Governo aventi rilevanza ambientale, sia garantita la
partecipazione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e ciò,
come si ricava dalla relazione, al fine di rappresentare
e confermare l’esplicitazione, in sede normativa, del principio dello sviluppo
sostenibile, secondo il quale l’ambiente è uno dei fattori di sviluppo, di
cui tenere conto nella programmazione e nella esecuzione delle attività umane.
Viene così assegnato al Ministero “…un ruolo spiccatamente
programmatorio, in virtù del quale risulta però indispensabile un suo maggiore
coinvolgimento negli interventi di programmazione e di decisione relativi al
territorio”.
Nei commi da 21 a
24 viene presa in considerazione la c.d. compensazione ambientale prevedendo
che, qualora per effetto di vincoli sopravvenuti, diversi da quelli di natura
urbanistica, non sia più esercitabile il diritto di edificare già assentito,
il titolare del diritto può chiedere di esercitarlo su altra area del
territorio comunale, di cui abbia acquisito la disponibilità a fini
edificatori.
L’accoglimento dell'istanza comporta la contestuale cessione al comune, a
titolo gratuito, dell'area interessata dal vincolo sopravvenuto. Il comune, per
rendere possibile la traslazione del diritto ad edificare, può approvare le
necessarie varianti allo strumento urbanistico. L'accoglimento dell'istanza non
costituisce comunque titolo per richieste di indennizzo quando il
vincolo sopravvenuto non sia indennizzabile mentre, nei casi in cui
l’indennizzo sia dovuto, la traslazione del diritto di edificare su area
diversa è computata ai fini della determinazione dell'indennizzo medesimo[8].
La concreta applicazione di questa disposizione non sembra
presentare problemi se utilizzata coerentemente alle finalità che l’ispirano
e non quale strumento per intervenire sulla pianificazione già predisposta.
Maggiore preoccupazione destano, invece, le disposizioni in
tema di rifiuti.
Non si riesce innanzi tutto a comprendere per quali motivi,
diversi dalle esigenze dello specifico settore cui il legislatore continua a
dedicare una eccessiva attenzione, abbiano sollecitato l’inserimento delle
disposizioni immediatamente applicabili in materia di rottami ferrosi.
Richiamando ancora una volta l’”interpretazione autentica” di cui la già
citato articolo 14 del D.L. 1382002, viene disposta la sottoposizione al regime
delle materie prime e non a quello dei rifiuti (se rispondenti alla definizione
di materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche di cui si
dirà a breve), dei rottami ferrosi dei quali il detentore non si disfi, non
abbia deciso o non abbia l'obbligo di disfarsi e che, quindi, non conferisca a
sistemi di raccolta o trasporto di rifiuti ai fini del recupero o dello
smaltimento, ma siano destinati in modo oggettivo ed effettivo all' impiego nei
cicli produttivi siderurgici o metallurgici.
Nel contempo si riconoscono i rottami ferrosi e non ferrosi, provenienti
dall'estero, come materie prime secondarie derivanti da operazioni di recupero
se dichiarati come tali da fornitori o produttori di Paesi esteri che si
iscrivano all'Albo nazionale delle imprese che effettuano la gestione
dei rifiuti nella sezione speciale, appositamente istituita, alla quale sono
iscritte le imprese di Paesi europei ed extraeuropei che effettuano operazioni
di recupero di rottami ferrosi e non ferrosi, elencate nell'allegato C del Dlv.
2297 per la produzione di materie prime secondarie per l'industria siderurgica
e metallurgica.
Viene poi aggiunta all’articolo 6, comma 1 del D.Lv. 2297 la lettera q-bis
recante la definizione di “materia prima secondaria per attività
siderurgiche e metallurgiche”.
La modifica introdotta non può essere letta se non come un ulteriore
tentativo di sottrarre i rottami ferrosi dal novero dei rifiuti, in palese
contrasto con quanto disposto dalla normativa comunitaria escludendo o,
comunque, rendendo assai difficoltoso un adeguato controllo.
Non sono state evidentemente sufficienti le critiche immediatamente sollevate
dalla dottrina subito dopo l’entrata in vigore del D.L. citato[9]
e la lettura datane dalla giurisprudenza[10]
nonché il palese contrasto con disposizioni e giurisprudenza comunitarie da più
parti segnalato e che ha trovato inequivocabile conferma con l’apertura di una
procedura di infrazione a carico dell’Italia[11].
Neppure l’individuazione del corretto ambito di
applicazione dell’articolo 14, effettuato in modo chiaro ed inequivocabile
dalla Corte di Giustizia[12]
proprio con riferimento ai rottami ferrosi qualche giorno prima della
approvazione della legge in esame, ha indotto il legislatore a trattenersi
Restano solo da attendere la lettura critica di tali disposizioni che,
inevitabilmente, la giurisprudenza nazionale e comunitaria dovranno nuovamente
effettuare (verosimilmente giungendo a conclusioni non dissimili da quelle già
tratte con riferimento all’interpretazione autentica del 2002) e, forse, anche
le richieste di altri settori produttivi che aspirano ad ottenere analogo
trattamento di favore.
Altre modifiche apportate alla disciplina dei rifiuti dal comma 29
riguardano: l’ulteriore inserimento nell’articolo 6, comma primo D.Lv. 2297
della lettera q- ter contenente la definizione di “organizzatore del
servizio di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti”, un ulteriore
ampliamento dell’articolo 8 mediante l’inserimento della lettera f-
quinquies riguardante il combustibile ottenuto dai rifiuti urbani e speciali non
pericolosi, come descritto dalle norme tecniche UNI 9903-1 (RDF di qualità
elevata), utilizzato in co-combustione, in impianti di produzione di energia
elettrica e in cementifici facilitandone così, come per i rottami ferrosi, lo
smaltimento finale al di fuori della disciplina generale sui rifiuti.
Infine, l’inserimento di un comma 3-bis nell’articolo 10 del D.Lv. 2297
prevede l’esclusione di responsabilità del produttore di rifiuti per il
corretto smaltimento degli stessi in caso di conferimento a soggetti autorizzati
alle operazioni di raggruppamento, ricondizionamento e deposito preliminare a
condizione che, oltre al formulario di trasporto, abbiano ricevuto il
certificato di avvenuto smaltimento rilasciato dal titolare dell'impianto che
effettua le relative operazioni.
Dopo essersi curiosamente occupato, in un provvedimento di così ampio
respiro, anche della lolla di riso e della polvere di allumina che
necessitavano, evidentemente, di una urgente trattazione in questo contesto il
legislatore, nell’accingersi ad intervenire sulle recentissime disposizioni in
materia di beni culturali e paesaggio in vigore solo dal maggio di quest’anno,
ritiene di doversi occupare (commi 32, 33 e 34) della demolizione delle opere
risultanti dalla lottizzazione abusiva di Punta Perotti, già confiscate ed ora
di proprietà comunale stabilendo poi, nel successivo comma 35, la possibilità
di individuare - con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei
Ministri, su
proposta del Ministro per i beni e le attività culturali, di concerto con il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, o della regione
interessata - altre opere o interventi realizzati da sottoporre a demolizione
con la medesima procedura individuata per il complesso immobiliare barese.
Anche in questo caso non si riesce a capire se vi siano ragioni particolari,
diverse dall’esigenza di distrarre dalle conseguenze delle disposizioni
successive, per determinare un intervento del genere in una legge delega per il
riordino della legislazione ambientale, peraltro riguardo ad una materia che non
trova sostanziale applicazione non tanto per mancanza di strumenti normativi
quanto, piuttosto, per la reiterazione, ormai con cadenza decennale, di condoni
edilizi unita all’inerzia di molte amministrazioni locali.
Venendo alle modifiche apportate al D.Lv.422004 (c.d. Codice Urbani)
- entrato in vigore, come si è detto, da soli sei mesi e dopo meno di
cinque anni dal generale riordino operato dal D.Lv. 49099 – l’intervento
del legislatore non ha riguardato, come sarebbe stato logico aspettarsi, gli
evidenti errori contenuti nel testo come, ad esempio, il riferimento
all’articolo 20 dell’ormai abrogata legge urbanistica n. 47 del 1985
contenuto nell’articolo 181 o la irrazionalità del sistema, riconosciuta
anche dalla Relazione Ministeriale che accompagnava il T.U. del 1999 e
concretatasi nella previsione di più gravi sanzioni per il reato di pericolo,
contemplato dall’articolo 181, rispetto al reato di danno previsto
dall’articolo 734 C.P.
Si è, al contrario, introdotta una nuova ipotesi
di reato accompagnata, però, da una sorta di sanatoria degli interventi minori,
prima non prevista e da quello che è stato subito ribattezzato
“condonicchio” o “minicondono” per distinguerlo dal condono edilizio di
cui si occupa la Legge 326 3.
Anche tali interventi seguono una logica
difficilmente individuabile se non si giustifica la confusione che viene a
crearsi come conseguenza di una frettolosa redazione.
Seguendo l’ordine della legge delega in esame,
il comma 36, lettera A) prevede l’inserimento di un comma 3bis all’articolo
167 che disciplina la procedura amministrativa di rimessione
in pristino o di versamento di indennità pecuniaria stabilendo che, qualora la
competente autorità amministrativa non vi provveda per mezzo del prefetto in
caso di inottemperanza del trasgressore obbligato,
vi provveda il direttore regionale competente con le modalità operative
di cui all’articolo 41 T.U edilizia a seguito di apposita convenzione
stipulata d'intesa tra il Ministero per i beni e le attività
culturali e il Ministero della difesa[13].
La successiva lettera B) sostituisce, invece, il comma quarto del medesimo
articolo 167 fornendo indicazioni più puntuali per l’impiego delle somme
ricavate dall’applicazione della procedura prevista dall’articolo 167 e dal
“condonicchio” o “minicondono”.
Le modifiche di maggior rilievo riguardano,
tuttavia, l’articolo 181 ove è introdotto un comma 1-bis che prevede un
delitto, sanzionato con la reclusione da uno a quattro anni, avente ad oggetto
ogni intervento in assenza o difformità dall’autorizzazione ricadente su
immobili od aree che, ai sensi dell'articolo 136, per le loro caratteristiche
paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con
apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei
lavori ovvero ricadente su immobili od aree tutelati per legge ai sensi
dell'articolo 142, quando abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore
al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri
cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria
superiore ai mille metri cubi.
Con riferimento ai beni tutelati in base a specifico provvedimento
amministrativo, ogni intervento non autorizzato o in difformità configura,
quindi, il delitto di nuova introduzione mentre, sulle aree o immobili tutelati
in base alla legge, è richiesto l’ulteriore requisito dell’aumento della
volumetria preesistente o della creazione di nuovi volumi oltre i limiti
indicati.
Tenuto conto inoltre che il legislatore, nel
prevedere la prima delle due fattispecie, usa l’espressione “realizzazione
dei lavori” nell’individuare il termine antecedentemente al quale deve
essere emanato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico,
sembra possa affermarsi che il delitto potrà concretarsi anche nel caso in cui
detto provvedimento venga emesso dopo l’inizio dei lavori e prima del loro
completamento.
Sembra poi evidente, come per le violazioni
originariamente contemplate, la natura formale e di pericolo presunto del reato
che può dunque configurarsi quando interventi astrattamente idonei ad incidere
negativamente sull’assetto del paesaggio siano eseguiti in assenza o in
difformità dal titolo abilitativo, indipendentemente da un danno arrecato in
concreto, attraverso un giudizio che andrà effettuato mediante quei criteri di
valutazione chiaramente indicati da una giurisprudenza di legittimità ormai
ultradecennale.
Trattandosi di delitto e nulla disponendosi in merito, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo (generico) la dimostrazione della sussistenza del quale non sembra presentare particolari difficoltà. Inevitabile appare, invece, nella fase di accertamento, il ricorso all’ausilio del consulente tecnico quando è necessario procedere al calcolo dei volumi.
Il successivo comma 1-ter introduce,
poi, una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni
interventi minori[14]
all’esito della quale, pur mantenendo ferma l’applicazione delle misure
amministrative ripristinatorie e pecuniarie previste dal già citato articolo
167, non si applicheranno le sanzioni penali stabilite per il reato
contravvenzionale contemplato dal primo comma dell’articolo 181.
Sulle
modalità di accertamento della compatibilità paesaggistica il successivo comma
1-quater dice ben poco. Non si specifica sulla base di quale documentazione
debba effettuarsi la valutazione e non può farsi neppure riferimento
all’articolo 146, comma terzo del “Codice Urbani” in quanto, come al
solito, non è stato emanato nel termine il DPCM che avrebbe dovuto individuare
la documentazione da allegare alla domanda di autorizzazione. Non viene fornita
inoltre alcuna indicazione atta a qualificare il silenzio eventualmente tenuto
dall’amministrazione sulla richiesta di valutazione di compatibilità.
In definitiva, le modifiche apportate effettuano
una distinzione per tipologia di interventi abusivi prevedendo, per quelli di
minore entità, la sola applicazione delle sanzioni amministrative
ripristinatorie o pecuniarie se interviene una valutazione della compatibilità
paesaggistica con la procedura descritta nel comma 1-quater[15],
per quelli che presentino le caratteristiche descritti nel comma 1-bis la pena
della reclusione e, per tutti gli altri, le sanzioni originariamente previste
dall’articolo 181 comma primo mediante il rinvio quoad poenam
all’articolo 44 lettera C)[16]
della legge urbanistica (così dovendosi intendere l’errato riferimento, di
cui si è già detto, all’ormai abrogato articolo 20 Legge 4785).
Ulteriore novità è rappresentata dal contenuto
del comma 1-quinquies che prevede una forma di estinzione del reato
paesaggistico conseguente alla spontanea rimessione in pristino delle aree o
degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, da parte del trasgressore,
prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa e, comunque,
prima che intervenga la condanna.
La disposizione fa esplicito riferimento al
“reato di cui al comma 1” e non è pertanto applicabile al delitto
introdotto al comma 1-bis. Non avrà, inoltre, alcuna rilevanza con riferimento
alle violazioni urbanistiche eventualmente concorrenti (ad esempio nel caso in
cui vengano abusivamente realizzati in zona vincolata nuovi volumi aventi misura
inferiore a quelli indicati dal comma 1-bis)[17].
Altri problemi potrebbero verificarsi, nella
concreta applicazione dell’articolo 181 come modificato dalla legge delega in
esame, con riferimento al secondo comma il quale, come è noto, stabilisce che
alla sentenza di condanna per il reato in esso contemplato consegua l’ordine
di rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi a spese del
condannato.
L’ordine ha natura di misura amministrativa di
ripristino e costituisce un atto dovuto per il giudice che deve emanarlo, quando
non risulti già eseguito, in via sussidiaria. L’ordine rimane operativo se e
fino a quando il concorrente ordine da parte della P.A. non abbia conseguito lo
stesso obiettivo[18].
Ciò posto, va anche ricordato come la
giurisprudenza di legittimità abbia in diverse occasioni precisato, durante la
vigenza delle disposizioni ora sostituite dal “Codice Urbani”,
che il rilascio di concessione (ora permesso) in sanatoria per opere
edilizie realizzate in aree soggette a vincolo, seppure preceduto dal parere
(postumo) dell'ente preposto alla tutela del vincolo medesimo, non produce alcun
effetto estintivo autonomo del reato paesaggistico non essendo tale conseguenza
prevista espressamente.
Si è anche evidenziato che una eventuale
“autorizzazione in sanatoria” rilasciata dall’ente preposto, dispiega
effetti limitati nei soli casi in cui il legislatore ne fa eccezionalmente
menzione (ad es. nel d.p.r. 7590 con il quale veniva prevista l’ultima
amnistia e nella legge 72494 in tema di condono edilizio).
Pur escludendo, per i condivisibili motivi
sinteticamente illustrati, l'incidenza della “sanatoria paesaggistica” sul
piano penale, la giurisprudenza ha tuttavia ritenuto che essa spieghi la propria
efficacia sotto il profilo amministrativo ed ha così affermato, in più
occasioni, che il rilascio dell'autorizzazione in sanatoria, purché valida ed
efficace, esclude l'applicazione dell'ordine di rimessione in pristino "tutte
le volte in cui il suo rilascio elimina ogni vulnus al paesaggio in una visione
sostanziale della sua protezione"[19].
Tutte le decisioni che attribuivano efficacia
sotto il profilo amministrativo alla “sanatoria paesaggistica” sono tuttavia
antecedenti all’entrata in vigore del D.Lv. 422004.
Il “codice” stabilisce espressamente,
nell’articolo 146, comma 10 lettera C), che l’autorizzazione paesaggistica non
può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi.
Orbene, se prima della emanazione della legge
delega in esame tale disposizione poteva essere letta, in mancanza di ulteriori
precisazioni, come una esplicita conferma al consolidato indirizzo
giurisprudenziale appena richiamato che, escludendone gli effetti sul reato,
rendeva l’intervento immune dalle
misure ripristinatorie, sembra debba essere ora rivista alla luce delle nuove
disposizioni.
Infatti, se il legislatore prevede ora (articolo
181 comma 1-ter) l’applicazione delle misure amministrative ripristinatorie e
pecuniarie nonostante una valutazione postuma di compatibilità paesaggistica
(che, nella procedura di rilascio dell’autorizzazione descritta
dall’articolo 146 costituisce solo uno dei passaggi) e pur in presenza di
abusi di minore impatto mantenendo inalterato il divieto di autorizzazione in
sanatoria di cui al citato articolo 146 (non prevedendo la legge in esame alcuna
deroga espressa), non si vede come possa ancora sostenersi che
l’autorizzazione intervenuta successivamente alla realizzazione dell’abuso
– peraltro in violazione, ora, di un espresso divieto - consenta di evitare la
rimessione in pristino con riferimento ad interventi di maggiore rilievo quali
quelli sanzionati dal comma primo e dal comma 1-bis.
Non presentando particolari problemi
interpretativi le disposizioni che riguardano, tra l’altro,
la creazione di una nuova segreteria tecnica ed alcuni interventi
nell’area Flegrea, si deve
concludere, con l’esame del “condonicchio” o “minicondono” introdotto
dal comma 37.
Va detto che anch’esso deve essere letto alla
luce di altre disposizioni attualmente in vigore al fine di individuarne
l’ambito di applicazione.
Esso riguarda “lavori compiuti su beni
paesaggistici” in assenza di autorizzazione o in difformità
dall’autorizzazione rilasciata entro il limite temporale del
30 settembre 2004.
Per tali interventi, l'accertamento di
compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti, anche rispetto
all'autorizzazione eventualmente rilasciata, comporta esclusivamente
l'estinzione del reato di cui all'articolo 181 e di ogni altro reato in materia
paesaggistica a condizione che le “tipologie edilizie” realizzate e i
materiali utilizzati, anche se diversi da quelli indicati nell'eventuale
autorizzazione, rientrino fra quelli previsti e assentiti dagli strumenti di
pianificazione paesaggistica, ove vigenti (sembra ovvio, al momento della
realizzazione dei lavori) o, altrimenti, siano giudicati compatibili con il
contesto paesaggistico e che il contravventore abbia pagato le sanzioni
pecuniarie indicate nella lettera b) nn. 1 e 2 del medesimo comma. Il termine
per la presentazione delle domande è fissato al 31 gennaio 2005.
Come emerge chiaramente anche da una sommaria
lettura, la disposizione è lacunosa particolarmente per quanto riguarda la
procedura per la verifica della compatibilità paesaggistica nulla prevedendo
ancora una volta, ad esempio, in
ordine ai contenuti della domanda, alla documentazione da allegare, alle modalità
e tempi di pagamento delle sanzioni, alla dimostrazione della data effettiva di
ultimazione dell’intervento, al termine entro il quale l’autorità
competente deve pronunciarsi, alla natura vincolante o meno del prescritto
parere della sovrintendenza, fornendo
minori indicazioni del comma 1-quater dell’articolo 181 D.Lv. 422004.
Essa non può, inoltre, essere letta senza
confrontarla con la Legge 3262003 in tema di condono edilizio, rispetto alla
quale presenta radicali differenze.
Con riferimento al condono edilizio va infatti
ricordato che la legge 3262003 indica chiaramente ed in modo dettagliato la
tipologia delle opere condonabili.
La Corte di cassazione[20]
ha tuttavia ulteriormente precisato, in modo inequivocabile, che il condono non
è ammesso:
-
per le nuove costruzioni aventi natura non residenziale, realizzate in
assenza del titolo abilitativo edilizio, che costituiscono immobile
integralmente abusivo e non si sostanziano in meri ampliamenti o addizioni
(ipotesi esclusa dal comma 25 dell’art. 32 Legge 326);
-
per gli abusi eseguiti in zona sottoposta a vincoli imposti sulla base di
leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e
paesistici e diversi da quelli “minori” indicati nei pp. 4, 5 e 6
dell’Allegato 1 e relativi a restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria (ipotesi esclusa dall’articolo 32, comma 26 lettera A) legge 326
cit.).
Con specifico riferimento al vincolo paesaggistico la Corte ha anche
espressamente richiamato il contenuto della relazione governativa che
esplicitamente esclude la condonabilità degli abusi in zona vincolata
affermando testualmente “…è fissata la tipologia di opere assolutamente
insanabili tra le quali si evidenziano… quelle realizzate in assenza o in
difformità del titolo abilitativo edilizio nelle aree sottoposte ai vincoli
imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi
idrogeologici, ambientali e paesistici…. Per gli interventi di minore
rilevanza (restauro e risanamento conservativo) si ammette la possibilità di
ottenere la sanatoria edilizia degli immobili soggetti a vincolo previo parere
favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela. Per i medesimi
interventi, nelle aree diverse da quelle soggette a vincolo, l’ammissibilità
alla sanatoria è rimessa ad uno specifico provvedimento regionale”
Non si tratta, quindi, di una audace
interpretazione giurisprudenziale, bensì di una lettura delle disposizioni
esaminate conforme alla lettera della legge.
Il “condonicchio” o
“minicondono”, al contrario, non indica nel dettaglio gli interventi ed,
inoltre, diversamente dalla legge sul condono edilizio, non prevede la
sospensione del procedimento penale e di quello amministrativo per la riduzione
in pristino.
Inoltre esso spiega effetti solo in
campo penale, prevedendosi la sola estinzione dei reati in materia paesaggistica
e nulla disponendo la legge in merito alla procedura amministrativa di
ripristino di cui all’articolo 167 per la quale sembrano valere, nel silenzio
del legislatore, le considerazioni in precedenza formulate
Dal tenore della disposizione e dal
confronto con il contenuto della Legge 3262003 deve dunque, in primo luogo,
individuarsi quali siano gli interventi interessati dalla nuova disciplina.
Sembra debbano escludersi tutti gli
interventi consistenti nella realizzazione di volumi o che abbiano comunque
rilevanza urbanistica per una serie di ragioni che renderebbero del tutto
illogica la disposizione in esame.
Va infatti escluso che il
legislatore, dopo aver espressamente lasciato fuori dalla legge sul condono
edilizio la sanabilità della maggior parte delle opere realizzate in zona
vincolata, sia poi ritornato sui suoi passi prevedendo non solo quello che poco
prima aveva lasciato da parte (seppure con limitato riferimento alla sanzione
penale), ma anche senza fissare alcun limite proprio per le aree meritevoli di
maggiore tutela ed avendo, peraltro, attribuito alla volumetria, nei commi
precedenti, una rilevanza fondamentale ai fini della individuazione del nuovo
delitto introdotto al comma 1-bis del “Codice Urbani”.
Volendo ritenere il contrario, si giungerebbe a
situazioni paradossali quali, ad esempio, la possibilità di estinguere i soli
reati paesaggistici e la sopravvivenza di quelli urbanistici con ogni
conseguenza in termini di demolizione e acquisizione al patrimonio comunale.
Oltre all’assenza di ogni riferimento a volumetrie, il tenore stesso della
disposizione sembra indurre ad escludere gli interventi di cui si è detto.
Viene fatto riferimento, infatti, a
lavori compiuti su beni paesaggistici, si richiamano in
seguito i “materiali utilizzati” e le “tipologie edilizie” dovendosi
intendere queste ultime come “..l’insieme degli elementi che distinguono
lo schema organizzativo e la struttura formale di un manufatto architettonico o
edificio, assumendovi carattere di permanenza e di ripetibilità”[21].
Anche in questo caso i riferimenti sembrano tutti
escludere la realizzazione di volumi ex novo, mentre appare maggiormente
plausibile il riferimento ad interventi eseguiti anche su immobili preesistenti
come suggerisce, ancora una volta, l’assenza di ogni esplicito riferimento e
il richiamo alle “tipologie edilizie” che indicano non un manufatto in sé,
bensì le caratteristiche estetiche dello stesso che comunque incidono sotto il
profilo paesaggistico.
Sembra dunque che, con riferimento agli interventi
“condonabili”, il comma 37 della disposizione in esame comprenda solo quelli
diversi dalla realizzazione di nuove volumetrie, anche se di maggiore
consistenza rispetto a quelli per i quali è ora prevista dal comma 1-ter
dell’articolo 181 D.Lv. 422004 la “sanatoria”.
La speciale causa estintiva prevista dal comma 37,
inoltre, a differenza di quella che esplica i propri effetti limitatamente al
reato di cui all’articolo 181, si estende anche “ad ogni altro reato in
materia paesaggistica” comprendendo, pertanto, a anche il reato di danno
sanzionato dall’articolo 734 c.p.
Deve invece escludersi che le disposizioni appena
esaminate esplichino i loro effetti con riferimento alle violazioni che
interessano le c.d. aree protette, disciplinate dalla legge 39491.
In effetti la “legge delega” si riferisce
esclusivamente alla materia paesaggistica ed alle disposizioni che la
disciplinano mentre in nessun caso viene fatto riferimento alla normativa sulle
aree protette.
Anche i richiami ai vincoli riguardano, sempre, il
solo vincolo paesaggistico e mai quello ambientale.
Anche il riferimento all’accertamento della
compatibilità paesaggistica ed il riferimento ai soggetti coinvolti nel
relativo procedimento amministrativo sembra escludere ogni estensione alla
normativa sulle aree protette e, volendo anche in questo caso effettuare un
confronto con la normativa sul condono edilizio, non può farsi
a meno di rilevare come la legge 3262003 mantenga ovviamente distinte le
aree protette rispetto a quelle sottoposte al solo vincolo paesaggistico.
E’ noto inoltre che, costantemente, la giurisprudenza e la dottrina
riconoscono la assoluta autonomia della disciplina paesaggistica rispetto a
quella delle aree protette (e di queste rispetto a quella urbanistica) in
considerazione del bene giuridico tutelato che giustifica la possibilità di
concorso dei reati, evidenziando anche la diversa valutazione che conclude
l’iter amministrativo di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica e del
nulla osta dell’ente parco.
E’ stato in particolare rilevato come la
pluralità di controlli richiesta per la realizzazione di modificazioni
urbanistiche ed edilizie in aree protette “…si giustifica e si spiega
soltanto in virtù della loro finalizzazione alla salvaguardia di valori ed
interessi diversi: la concessione edilizia, tutela, infatti, lo sviluppo
ordinato del territorio, l'autorizzazione paesaggistica inerisce alla forma del
territorio stesso, mentre il nulla-osta dell'ente parco ad interessi più
spiccatamente naturalistici concretamente perseguiti. E la sua specialità
rispetto alla normativa diretta alla regolamentazione dell'assetto territoriale
ed alla protezione del paesaggio e delle bellezze naturali, si identifica nella
diversa configurazione ed estensione della tutela che al parco fa capo, in
quanto questa si rivolge alla flora, alla fauna, alle formazioni geologiche, e
prende in considerazione tutto il complesso delle, attività umane rilevanti nel
territorio del parco”[22].
Resta, anche in questo caso, l’attesa per la
lettura che la giurisprudenza vorrà dare di queste nuove e confuse disposizioni
delle quali non si avvertiva assolutamente il bisogno avendo già la leggerezza
degli enti proposti al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche minato non
poco l’efficacia di una tra le poche disposizioni di tutela ambientale (almeno
in teoria) veramente valide.
Luca RAMACCI