Inquinamento visivo da insegne ed impianti pubblicitari
di Giovanni Fontana
Beh,
per quanto ormai da qualche tempo, parlo della pubblicità stradale, anche come
di un macro-fenomeno, socio-economico, di rilevanza ambientale, non avrei mai
creduto che sarei stato invitato ad un Convegno della Polizia Locale,
nell’ambito di una sessione speciale dedicata proprio alla “polizia
ambientale”.
Non
da meno, l’autorevolezza dei Relatori che mi affiancano, il loro costante e
duraturo riferimento per la mia attività professionale quotidiana, mi spingono
a vivere questo momento, con una sorta di umile marginalità, anche affrontando
una questione assai lata, rispetto alla più ampia e grave “questione
ambientale”.
Ad ogni buon conto, cercherò di farlo, offrendo un taglio al mio intervento — così io spero — piuttosto pratico, per quanto sintetico
Piano dell’intervento:
Il “contesto costituzionale” della pubblicità e della tutela
dell’ambiente
Il nuovo codice della strada del ‘92
Il codice dei beni culturali e del paesaggio
Forme pubblicitarie vietate e forme pubblicitarie consentite
Proposte risolutive
Il
“contesto costituzionale” della pubblicità e della tutela dell’ambiente
La mia generazione e quella
che l’ha preceduta — ma credo, quella che seguirà alla mia — ha coniato
un detto molto significativo sul fenomeno pubblicitario: “la pubblicità è
l’anima del commercio!”
Senza la pubblicità, dunque,
non c’è commercio.
Tramite la pubblicità, si
conoscono i beni ed i servizi di consumo e tramite la pubblicità stradale, in
particolare, è possibile conoscere taluni generi di commercio o taluni luoghi
ove si commerciano e dove si commercia.
Ora, l’art. 41 della Carta,
afferma con forza, ancorché in modo assai sintetico che «l’iniziativa
economica privata è libera», tanto che, in analogia a tale principio
economico è possibile affermare che le stesse forme pubblicitarie sono libere,
dal momento che sono necessarie ad iniziare l’attività economica privata.
Ma certamente, così come
l’iniziativa economica «non può svolgersi
in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana», anche la pubblicità — e
quella stradale, in particolare — non può arrecare danno alla sicurezza della
circolazione stradale, o limitare quest’ultima, in quanto espressione di
libertà individuale.
Certamente, l’iniziativa
economica e le forme sociali mediante le quali è possibile salvaguardare tale
diritto costituzionale, non possono andare a penalizzare i beni sociali, primo
fra tutti, quello dell’ambiente;
bene, quest’ultimo, che assurge a valore primario ed assoluto, riconosciuto
come tale, dall’art. 9 della stessa Costituzione.
Solo recentemente, il c.d. Codice Urbani n. 42 del corrente anno, ha definito — a mio modo di
vedere, limitandone grandemente la portata concettuale, ancorché da ricondurre
alle disposizioni contenute in questo codice — il paesaggio (art. 131), quale parte omogenea
di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle
reciproche interrelazioni, i cui valori, sono individuati e tutelati nelle manifestazioni
identitarie percepibili.
Certamente,
il fenomeno pubblicitario è un fenomeno percettivo,
che passa attraverso il mezzo della visione, ma va ben oltre, coinvolgendo il
mondo interiore dell’osservatore: le sue emozioni, i suoi ricordi, la sua
attenzione, ecc.
Certamente,
quando questo avviene nell’ambito di un tratto stradale, il maggiore o minore
fattore percettivo/attrattivo del messaggio pubblicitario, può determinare
fenomeni tali da minacciare, da un lato, la stessa sicurezza della circolazione
stradale; dall’altro, annullare la percezione dell’ambiente o, per meglio
dire, di quel paesaggio che talvolta è stravolto dalle strade pubbliche e
relative pertinenze e servizi.
Il
nuovo codice della strada del ‘92
Con
il nuovo codice della strada (n. 285 del 1992), entrato in vigore nel lontano 1°
gennaio 2003, il legislatore dell’epoca, in un impeto di coraggio “Don
Chisciottiano”, colpì duramente (si fa per dire) un fenomeno così deleterio,
quale quello dell’abusivismo pubblicitario stradale, con misure così drastiche (se
mai fossero state poste in essere), che segnarono il passo a nuove e diverse
sanzioni, mai, sostanzialmente applicate.
In
quello stesso codice, quello stesso legislatore, decise di inserire una norma a
tutela dell’ambiente (art. 23, comma 3, c.d.s.), anzi, della cultura — per
restare il linea con il codice ante(o anti, è un fenomeno di vocali)-Urbani n.
490 del 1999 — che di lì a poco, venne ritenuta non più “intrusa”, come
alcuni — come chi oggi vi parla — solevano definire.
Ma
certamente, una norma che determinava non poco imbarazzo a chi avesse voluto
applicarla: nessuna forma pubblicitaria era consentita nelle c.d. zone
vincolate dalle leggi a tutela dell’ambiente e della storia del 1939 e
dalle successive leggi Galasso e c.d. decreti Galassini, della metà degli anni
ottanta; forse, la sola esposizione delle insegne di esercizio.
Beh,
come si sa, in Italia, ci si abitua presto al senso dell’imbarazzo.
Il
divieto c’era, ma forse, la voglia di farlo rispettare era molto meno
rilevante di quello che si poteva pensare; forse, se non altro, perché quello
stesso divieto, così come formulato, così troppo drastico ed inderogabile,
mancava di un vero e proprio principio di effettività che lo rendesse idoneo ad essere
rispettato, dunque, fatto rispettare.
Il
codice dei beni culturali e del paesaggio
Finalmente,
dopo un amletico penar: tra l’essere ed il non essere, tra il fare ed il non
fare, tra l’applicare la sanzione e l’attendere a farlo; qualcuno ha pensato
bene di cassare il tutto.
Un
colpo di spugna ed ecco, che con una legge dello Stato, anzi, con il ridondante
Codice Urbani, l’art. 23 del nuovo codice della strada ha subito un restailing
ed il problema delle zone a vincolo è sparito.
Ne
ho avuto una prima consapevolezza, al Convegno de La Spezia, tra lo stupore dei
Convegnisti e dei Relatori. Eppure è così: e allora.
Questa
dovrebbe essere la motivazione di fondo, che mi trova qui.
Certamente, la pubblicità
come “inquinamento visivo” è una realtà: basta metter fuori il naso da
questo luogo di convegno, per ammirare, prima ancora che le bellezze —
statiche, come quelle “dinamiche” — di Riccione, i numerosi e variegati
messaggi pubblicitari.
Ma certamente,
l’inquinamento visivo, se non quello luminoso — ancora scarsamente
affrontato da un legislatore che probabilmente conta pochi astrofili, tra le sue
fila o, ciò che più conta, tra i suoi elettori — è una forma “minore”
di inquinamento, al quale noi, riserviamo nuovamente la nostra attenzione, per
provare a fornire delle chiavi di lettura diverse, o magari, perché no,
scontate.
Chiavi di lettura che ci
permettono, non tanto di vietare la pubblicità — giacché in Italia, tutto
quello che è vietato, spesso vien fatto, in ragione dell’etico divieto di
vietar qualsiasi cosa, persino vietare — quanto piuttosto di disciplinarla,
nell’ambito di quelle che sono le scelte d’indirizzo politico (se ve ne
fossero!) dell’amministrazione locale.
Forme
pubblicitarie vietate e forme pubblicitarie consentite
Per quanto abbiamo affermato
il contrario, non noi, ma la legge, vieta talune forme di pubblicità, ma ne
consente altre.
In altre parole, sono vietate
tutte quelle forme pubblicitarie, il cui esercizio può determinare danno alla
sicurezza e alla libertà delle persone, in linea con la norma di tutela
prevista dall’art. 41 della Costituzione.
Le forme di pubblicità
vietata sono quelle indicate all’art. 23, comma 1, del nuovo codice della
strada (anzi, dopo gli innumerevoli interventi di modificazione, il nuovissimo
codice della strada!), ovvero, quelle:
- che
per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione possono ingenerare
confusione con la segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne
l'attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione;
in ogni caso, detti impianti non devono
costituire ostacolo o, comunque, impedimento alla circolazione delle persone
invalide.
-
che sono costituite da cartelli e altri
mezzi pubblicitari rifrangenti, nonché le sorgenti e le pubblicità
luminose che possono produrre
abbagliamento.
-
che sono posizionate sulle isole di traffico delle intersezioni canalizzate.
-
che sono collocate lungo e in vista degli itinerari internazionali, delle
autostrade e delle strade extraurbane principali e relativi accessi.
Tutte
queste forme di pubblicità sono vietate,
quindi, neppure autorizzabili: ma!
Poi
ci sono le forme di pubblicità consentite, giacché concepibili quali
espressioni di libera iniziativa economica, purché dotate di autorizzazione
amministrativa (art. 23, comma 4, c.d.s.). Queste forme pubblicitarie sono (o,
per meglio dire, dovrebbero essere) autorizzate, se realizzate in conformità a
quanto stabilito dalla legge (art. 23 d. Lgs. 285 del 1992 e succ. modif.) e dal
suo regolamento (artt. 47 ss. d.P.R. 495 del 1992): ma!
Beh,
ho qualche dubbio a riguardo.
Certamente,
le forme vietate, come quelle consentite, sono — in un pessimo, ma calzante,
italianismo — “vietatissime” (è quindi ovvio, che siano particolarmente
presenti sulle strade!), se danneggiano il paesaggio, siccome in evidente
contrasto con l’art. 9 della Costituzione: già, ma il Codice Urbani ha
abrogato il comma 3 dell’art. 23 e quanto altro resta dell’art. 23, a tutela
dell’ambiente.
Ebbene,
io non sono dello stesso avviso, così come non ritengo che non ci sia niente da
fare contro l’abusivismo pubblicitario: si tratta di capire, piuttosto, se si
vuole fare qualcosa, o restare ad osservare perplessi, il teschio dello struzzo,
estratto dalla terra, per essere trattenuto nella nostra… amletica e tremante
mano.
Proposte
risolutive
Eccoci
giunti — finalmente, direte Voi! — alla chiusura della storia: se vogliamo
alla sua apertura, giacché il mio intervento voleva essere di natura
esclusivamente pratica.
Tentiamo
adesso di fornire delle risposte operative ovvero: come affrontare la questione
dell’applicazione delle sanzioni e delle misure ripristinatorie, in materia di
abusivismo pubblicitario.
Sanzioni
amministrative
La
prima questione, attiene all’applicazione delle sanzioni
amministrative pecuniarie, giacché quelle accessorie — vivaddio! — sono
state definitivamente eliminate, poiché inapplicabili (o non applicate) in
concreto.
Si
tratta di quelle indicate ai commi 11 e 12 dell’art. 23 del nuovo codice della
strada e riguardano:
1)
il
comma 11, la violazione delle singole
disposizioni previste dal nuovo codice della strada e dal relativo regolamento
di esecuzione, nella misura minima di euro 343,35 e massima di euro 1.376,55;
2)
il
comma 12, la violazione delle singole
prescrizioni indicate nelle autorizzazioni, nella misura minima di euro 137,55 e
massima di euro 550,20.
Giusto il disposto di cui
all’art. 202, comma 1 dello stesso codice, per le singole violazioni
accertate, il trasgressore è ammesso a pagare, entro sessanta giorni dalla
contestazione o dalla notificazione, una somma pari al minimo fissato dalle
singole norme; in scelta, a presentare ricorso al prefetto (ex art. 203 c.d.s.)
della commessa violazione, da presentarsi all’ufficio o comando cui appartiene
l’organo accertatore ovvero, da inviarsi agli stessi, con raccomandata con
ricevuta di ritorno: con il ricorso possono essere presentati i documenti
ritenuti idonei e può essere richiesta l’audizione personale.
Si continua a condividere
l’opinione espressa dall’Ufficio Studi del Ministero dell’ Interno (parere
n. M/2413-11 del 14.12.2000), in ordine al fatto che «l’organo di polizia
stradale deve contestare le singole violazioni commesse al trasgressore,
indicando per ciascuna infrazione la facoltà di effettuare il pagamento in
misura ridotta» e, più precisamente, «l’applicazione dell’aumento della
sanzione pecuniaria (ex art. 198 c.d.s., n.d.a.), infatti, è obbligatorio
soltanto per l’ufficio competente a comminare la sanzione», quindi, «il
riconoscimento del concorso non è rimesso dalla legge né alla discrezione, né
all’apprezzamento dell’organo accertatore, analogamente a quanto avviene in
ambito penale».
Com’è comprensibile, la
misura della sanzione amministrativa pecuniaria è inidonea a scoraggiare il
trasgressore: non solo per l’entità della sanzione prevista — che spesso,
in ragione dei facili guadagni che derivano dall’attività pubblicitaria,
funge da mera “spesa di gestione” — ma anche per la possibilità di
determinare un contenzioso con l’ente accertatore, tale da determinare
“ritardi” nell’applicazione in concreto della sanzione stessa. Del resto,
al primo atto d’accertamento, cui consegue la pretesa punitiva
dell’amministrazione procedente, non può conseguire una successione di
ulteriori atti di accertamento, con medesimi risultati, visto il regime della
continuazione che contraddistingue la tipologia dell’illecito di cui si
discute e che può essere interrotta esclusivamente dall’ufficio che commina,
in concreto, la sanzione amministrativa ovvero, quando l’atto stesso, diviene
titolo esecutivo.
Né del resto — come già
abbiamo detto — risultava efficace il previgente sistema accessorio della
applicazione del ripristino dello stato dei luoghi, se e quando applicato.
Certamente, l’efficacia
della sanzione accessoria da ultimo citata e normata dall’art. 212, del nuovo
codice della strada, può trovare favorevole riscontro, allorquando l’impianto
è in corso d’opera. Infatti, in tale circostanza, chiunque provvede a
collocare l’impianto pubblicitario — o per meglio dire, la relativa
struttura di sostegno — è tenuto a dimostrare (ex art. 27, comma 10 c.d.s.)
il possesso del prescritto titolo autorizzatorio; ragione per cui, la mancata
presentazione dello stesso, importa la sospensione dei lavori (ex art. 27, comma
12 c.d.s.), nei termini previsti dal richiamato art. 212, cui si abbina la
denuncia dell’inadempiente (ex art. 650 c.p.) con immediato esecuzione
coattiva da parte dello stesso organo accertatore.
Ma certamente, l’ipotesi più
generale e conosciuta dagli addetti ai lavori è quella dell’impianto
pubblicitario che, in men che non si dica, appare, come la Madonna al pellegrino
che percorre il deserto, sotto l’arsura del sole…
Miracolo italiano?
Certamente, la scelta del
legislatore è stata quella di dare a Cesare, quello che è di Cesare e a Dio,
quello che è di Dio.
Da qui il passaggio di
competenze — in termini ripristinatori e di tutela del demanio stradale —
dallo Stato agli enti locali o, per meglio dire, agli enti proprietari delle
strade (di fatto, sempre più spesso sono proprio gli enti locali).
Le
misure ripristinatorie
Non a caso, il comma 13
dell’art. 23 del nuovo codice della strada (nel testo sostituito dall’art.
30 della legge n. 472 del 1999), prevede che siano proprio gli enti proprietari
delle strade ad assicurare il rispetto delle disposizioni del presente articolo
e che, per il raggiungimento di tale finalità, l’ufficio o comando da cui
dipende l’organo accertatore (dunque, uno dei servizi individuati all’art.
11 dello stesso codice), trasmette copia del verbale di contestazione delle
violazioni di cui ai commi 11 e 12 più sopra richiamati, al competente ente
proprietario.
L’ente proprietario, una
volta ricevuto il suddetto verbale di contestazione:
1. se l’impianto abusivo è
collocato in area privata, diffida
l’autore della violazione (se non identificato, l’utilizzatore dello spazio
pubblicitario privo di autorizzazione) o il possessore del suolo privato, nei
modi di legge, a rimuovere il mezzo pubblicitario a loro spese, entro e non
oltre dieci giorni dalla data di comunicazione dell’atto (ex art. 23, comma
13-bis, c.d.s.);
2. se l’impianto abusivo è
collocato su suolo demaniale ovvero
rientra nel patrimonio dell’ente
proprietario, ovvero nel caso in cui costituisca
pericolo per la sicurezza della circolazione, l’ente proprietario esegue
senza indugio la rimozione del mezzo pubblicitario. Successivamente alla stessa,
l’ente proprietario trasmette la nota delle spese sostenute al prefetto, che
emette ordinanza-ingiunzione di pagamento e tale ordinanza costituisce titolo
esecutivo ai sensi di legge (art. 23, comma 13-quater, c.d.s.).
La diffida prevista per la
realizzazione di impianti pubblicitari in carenza di autorizzazione, installati
su suolo privato, comporta, in caso di inottemperanza dei termini previsti dalla
diffida stessa, l’azione diretta dell’ente proprietario della strada in
vista del quale l’impianto è stato collocato. A parere di chi scrive,
l’eventuale introduzione nel fondo altrui, per l’esecuzione della rimozione
dell’opera abusiva, comporta in ogni caso, il previo rilascio
dell’autorizzazione della competente Autorità Giudiziaria, trattandosi di una
limitazione dell’uso della proprietà privata. Resta fermo il fatto, che in
caso di inottemperanza alla diffida alla rimozione, i soggetti indicati al
precedente punto 1, sono assoggettati all’applicazione della sanzione
amministrativa pecuniaria da euro 4.000,00 ad euro 16.000,00.
La diffida, almeno per chi
scrive, appare quale misura definitiva dell’ente proprietario della strada,
impugnabile dinanzi al T.a.r. ovvero, dinanzi al Presidente della Repubblica,
con lo strumento del ricorso straordinario al Capo dello Stato. Diversamente
dall’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria indicata al comma
13-bis dell’art. 23 precedentemente citato, che resta vincolata al
sistema di tutele previste nel Tit. VI, Capo I, Sez. I del nuovo codice della
strada.
Prima di procedere oltre, è
opportuno precisare che cosa si deve intendere per suolo
demaniale e per patrimonio degli
enti proprietari delle strade.
Una delle caratteristiche
essenziale dei c.d. beni demaniali è la loro appartenenza agli enti pubblici
territoriali; tra questi beni, quelli che costituiscono il c.d. demanio
stradale, sono le strade e le autostrade appartenenti allo Stato, la cui
demanialità non riguarda il suolo stradale, propriamente detto, ma si estende a
tutte le pertinenze stradali. In via residuale, si individuano i beni
patrimoniali (complessi di beni mediante i quali l’ente attua i propri scopi),
in quanto non inquadrati come beni demaniali.
I beni demaniali
precedentemente detti, sono considerati beni appartenenti al c.d. demanio
necessario, distinti dal c.d. demanio accidentale, ovvero dal complesso dei beni
non appartenenti allo Stato: in ogni caso, il carattere di demanialità, deriva
dall’appartenenza del demanio accidentale a un ente pubblico territoriale ed
alla sua destinazione all’uso di pubblica utilità: così come appunto avviene
per le strade.
Ciò che più conta, i beni
demaniali hanno la caratteristica dell’assoluta inalienabilità e
imprescrittibilità.
Questa lunga digressione, per
giungere alla conclusione che tutte le strade pubbliche appartengono alla
categoria dei c.d. beni demaniali (artt. 822 ss. c.c.).
Ma come altri affermano, ciò
che caratterizza il bene non è tanto la sua appartenenza all’ente pubblico
territoriale quanto la sua specifica destinazione.
Infatti, il primo requisito
— la proprietà del suolo — non è un requisito necessario della strada
pubblica, essendo tale qualifica attribuita anche alla strada che, pur essendo
costituita da suolo di proprietà privata, sia aperta al pubblico transito (P.
La Rocca).
Certamente, la definizione che
il d. Lgs. 285 del 1992 dà della strada (…area di uso pubblico, destinata
alla circolazione…), è sufficiente a farci ritenere che le sue norme — ivi
comprese quelle di cui all’art. 23 — siano applicabili a tutte quelle aree
(indipendentemente dal titolo di proprietà che vi grava) aperte all’uso
pubblico.
Ma è altresì evidente, che
è l’ente proprietario della strada
che è tenuto ad intervenire — per l’appunto, “senza indugio”, così
come si enuncia al comma 13-quater
dell’art. 23 c.d.s. — e, relativamente alla strada privata di uso pubblico,
pare che tale potere venga meno, se non ricorrendo ad altri strumenti di tutela
previsti da altri settori dell’ordinamento.
Restando quindi nell’ambito
dei c.d. beni demaniali, l’ente proprietario della strada può agire
direttamente — anzi, lo deve fare — con una misura ripristinatoria tendente
a rimuovere materialmente l’impianto abusivo, rimettendo le spese sostenute al
trasgressore, con lo strumento del titolo esecutivo emesso dall’autorità
dell’Ufficio Territoriale del Governo.
Soggetti
solidalmente obbliagati nella violazione
Peraltro, la mancata
individuazione del trasgressore, pone l’organo accertatore nella condizione di
dover individuare almeno uno dei soggetti obbligati in solido nella violazione
che già l’Ente Strade (Circ. 10 marzo 2000, n. 14) individua nel:
- proprietario
dell’impianto;
- soggetto reclamizzato
(passivo, nel d. Lgs. 507/93, tenuto
al pagamento della imposta);
- proprietario
del suolo;
- usufruttuario
del suolo.
Pur ribadendo che sono gli
enti più prossimi alla comunità amministrata — dunque, gli enti proprietari
delle strade — a dover assicurare il rispetto delle norme emanate a tutela
delle strade, resta comunque evidente ed immutato il
potere sostitutivo di garanzia (ora) del Ministero delle Infrastrutture e dei
Trasporti, in caso di inadempimento nella vigilanza da parte dell’ente
proprietario della strada, così come previsto dal comma 2 dell’art. 5 del
codice e dal comma 1, dell’art. 6 del relativo regolamento.
Qualora
l’ente proprietario della strada non abbia nella sua struttura amministrativa
uffici preposti specificamente a tali servizi, esso provvede ad inviare, entro
cinque giorni dall'accertamento, la segnalazione della violazione agli organi
esercenti servizi di polizia stradale, che provvedono a svolgere le ulteriori
fasi del procedimento. Qualora poi la violazione non sia stata contestata
all'atto dell'accertamento, l'organo di polizia stradale destinatario della
precedente segnalazione, provvede alla verbalizzazione ed alla notifica, con
indicazione dell'agente che ha effettuato l'accertamento: il tutto, in conformità
con quanto previsto dall’art. 25 del regolamento di esecuzione e di attuazione
del nuovo codice della strada.
Ma
certamente, una delle novità più rilevanti e dotate di effettività reale —
unitamente all’entità della sanzione amministrativa pecuniaria
precedentemente indicata — sta proprio nell’avere previsto che nel caso in
cui non sia possibile individuare l'autore della violazione, alla stessa
sanzione amministrativa è soggetto chi utilizza gli spazi pubblicitari privi di
autorizzazione.
C’è
da dire, che la violazione all’art. 23 del nuovo codice della strada può ben
concorrere con la violazione all’art. 20 dello stesso codice laddove
per l’impianto di sostegno del mezzo pubblicitario, non sia stata rilasciata
la preventiva concessione per l’occupazione del suolo pubblico, applicandosi,
in tal caso, anche la procedura prevista dal Capo I, Sez. II, del Titolo VI del
Codice, quale sanzione amministrativa
accessoria della rimozione dell’opera abusiva.
L’accertamento
delle violazioni in materia di pubblicità stradale, può altresì comportare la
necessità di contestare illeciti ben diversi da quelli originariamente
previsti, a tutela di ben altri oggetti giuridici. Anche il tal caso, l’organo
accertatore curerà di trasmettere i relativi atti di accertamento all’organo
previsto all’applicazione di sanzioni e/o misure specificatamente previste.
Tra queste, l’art. 6 della legge n. 77 del 1997, prevede che in caso di
recidiva nella utilizzazione di mezzi pubblicitari e nella occupazione di suolo
pubblico in violazione delle norme di legge e del regolamento comunale,
l'autorità che ha rilasciato l'autorizzazione per l'esercizio dell'attività di
vendita in sede fissa e su area pubblica di cui alla legge n. 426 del 1971, e
alla legge n. 112 del 1991 (ora disciplinate dal c.d. decreto Bersani, inerente
la disciplina del commercio su area pubblica e privata ed attuate dalle previste
leggi regionali di dettaglio), nonché per l'esercizio dell'attività di
somministrazione al pubblico di alimenti e bevande di cui alla legge n. 287 del
1991, dispone, previa diffida, la sospensione dell'attività per un periodo non
superiore a tre giorni.
Per
quanto si possa ancora affermare di avere ben poche armi per combattere
l’abusivismo pubblicitario, a quelle ordinarie, se ne possono aggiungere
altre, ancorché finalizzate a tutelare oggetti giuridici diversi da quello
della sicurezza della circolazione stradale.
Decretazione
fiscale
Si
citano, ad esempio, i decreti inerenti la “fiscalità locale” n. 507 del
1993 e n. 446 del 1997, nel relativi testi più volte modificati.
Il
decreto n. 507 (che istituisce la nuova imposta sulla pubblicità), all’art.
24, affianca alla sanzione amministrativa pecuniaria (da euro 206,00 ad Euro
1.549,00), altre misure di natura accessoria (rimozione dell’impianto),
preventiva (copertura dell’impianto) e cautelare (sequestro dell’impianto),
oltre che, all’art. 23, le ben note sanzioni tributarie pecuniarie. Peraltro,
solo con lo strumento della rimozione, la distrazione (e la bruttura) che può
derivare dalla presenza dell’impianto, può essere definitivamente risolta.
Ma
non si deve dimenticare che un vero e proprio programma di prevenzione del
fenomeno dell’abusivismo pubblicitario stradale, è previsto dal comma 5-bis,
dell’art. 24 sopra richiamato, come aggiunto dall’art. 10 della legge n. 448
del 2001. Qui viene previsto che i comuni, ai fini dell'azione di contrasto del
fenomeno dell'installazione di impianti pubblicitari e dell'esposizione di mezzi
pubblicitari abusivi, adottano un piano specifico di repressione
dell'abusivismo, di recupero e riqualificazione con interventi di arredo urbano,
e disciplinano nel proprio regolamento misure di definizione bonaria di
accertamenti e contenziosi in materia di imposta di pubblicità, che tendano a
favorire l'emersione volontaria dell'abusivismo anche attraverso l'applicazione
di sanzioni ridotte o sostituite da prescrizioni di recupero e riqualificazione
a carico dei responsabili.
Allo
stesso modo, l’art. 52 del d. Lgs. 446 del 1997, introduce un nuovo criterio
di disciplina della pubblicità stradale locale: infatti, secondo questa nuova
previsione normativa, le province ed i comuni possono disciplinare con
regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene alla
individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi
e della aliquota massima dei singoli tributi, nel rispetto delle esigenze di
semplificazione degli adempimenti dei contribuenti.
Ciò
che più conta, secondo quanto previsto dall’art. 62 del richiamato decreto n.
446, proprio con lo strumento del regolamento comunale o provinciale, gli enti
locali interessati possono escludere l'applicazione, nel proprio territorio,
dell'imposta comunale sulla pubblicità di cui al capo I del decreto legislativo
15 novembre 1993, n. 507, sottoponendo le iniziative pubblicitarie che incidono
sull'arredo urbano o sull'ambiente ad un regime autorizzatorio e assoggettandole
al pagamento di un canone in base a tariffa.
Sul
piano squisitamente ripristinatorio, l’art. 62, comma 4 del decreto n. 446
prevede che il comune che abbia adottato il c.d. canone
autorizzatorio, procede alla rimozione dei mezzi pubblicitari privi della
prescritta autorizzazione, o installati in difformità della stessa, o per i
quali non sia stato effettuato il pagamento del relativo canone, nonché alla
immediata copertura della pubblicità con essi effettuata, mediante contestuale
processo verbale di contestazione redatto da competente pubblico ufficiale. Il
tenore letterale della norma ed il richiamo al generico pubblico ufficiale —
piuttosto che all’organo di polizia stradale — riconosce in capo al comune
un vero e proprio potere demaniale di vigilanza, che gli consente di individuare
personale ad hoc, tra quello in
servizio presso l’Ente, purché il medesimo personale svolga una pubblica
funzione. La rimozione dell’impianto, consegue quindi ad una diffida formale,
consequenziale all’accertamento dell’abuso e redatta dal predetto pubblico
ufficiale — una sorta di “controllore della pubblicità”, che ben si
concilia con la figura prevista dal primo comma, dell’art. 56 del d.P.R. n.
495 del 1992 — che, a parere di chi scrive, resta comunque soggetta alla
successiva ratifica da parte dell’organo di vertice amministrativo e, quindi,
alla notificazione del relativo provvedimento definitivo di rimozione
dell’impianto.
L’accertamento
dell’abusiva o difforme collocazione di impianti pubblicitari, resta comunque
sanzionata dalle medesime sanzioni pecuniarie previste dall’art. 23 del nuovo
codice della strada (quando riguarda mezzi pubblicitari posti lungo le strade o
in vista di queste) ovvero, se al di fuori di tali ambiti e, quindi, non
comminabili, con quelle stabilite dall'art. 24, comma 2, del decreto n. 507, più
volte citato.
In
generale, si continua a condividere l’ipotesi di chi ritiene che, posti i
diversi oggetti giuridici tutelati dalle norme sin qui osservate, si applicano
le sanzioni previste dalle singole disposizioni, solo allorquando siano da
considerare quali violazioni autonome rispetto a quelle previste dal codice.
Le
zone a vincolo ed il Codice Urbani
Resta
adesso da valutare se, ed in che misura, l’abrogazione di una parte
sostanziale dell’art. 23 del nuovo codice della strada, da parte del Codice
Urbani, abbia realmente determinato l’impossibilità di sanzionare l’abusiva
collocazione di impianti pubblicitari in zone vincolate. Certamente,
nell’ambito di tali zone, si sono continuati ad installare impianti
pubblicitari, senza che alcuna delle (molte) autorità preposte alla particolare
tutela di quei luoghi (ente proprietario e organo di tutela, tramite i propri
organismi periferici di vigilanza), si sia troppo preoccupata di tale
circostanza.
Ad
ogni buon conto, l’entrata in vigore del d. Lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ancorché trattasi di un testo unico), sembra
avere “calmierato” i diversi punti di vista, abrogando definitivamente
quelle norme (intruse) che sembravano così estranee al testo compatto approvato
con il decreto n. 285 del 1992 e le sue successive modificazioni.
Intanto,
è opportuno premettere che gli artt. 10 e 134 del codice n. 42 del 2004,
individuano, rispettivamente, i c.d. beni
culturali e quello paesaggistici.
In
questi luoghi e per questi beni mobili ed immobili, sono previste particolari
tutele, che si esplicano nel preventivo rilascio di autorizzazioni per
l’esercizio della pubblicità ovvero, particolari divieti o modalità di
effettuazione della pubblicità.
Infatti,
l’art. 49 del richiamato codice sul beni culturali, vieta proprio la
collocazione e l’affissione di mezzi pubblicitari sugli edifici e nelle aree
specificatamente tutelate, salvo preventivo rilascio di autorizzazione
amministrativa, da parte del competente soprintendente che, come tale, va
ratificata dal comune, mediante definitivo rilascio dell’autorizzazione
amministrativa locale. In particolare, il comma 2 dell’art. 42 dappoco citato,
fa salvo quanto già previsto dal nuovo codice della strada (e adesso abrogato),
prevedendo che il rilascio dell’autorizzazione amministrativa per la
collocazione di impianti pubblicitari lungo le strade site nell’ambito
o in prossimità dei detti beni culturali, faccia sempre seguito al parere
favorevole della soprintendenza, sulla compatibilità della collocazione o della
tipologia del mezzo di pubblicità con l’aspetto, il decoro e la pubblica
funzione dei mezzi tutelati. Trattandosi di parere, il comune può sempre
derogarvi, con provvedimento motivato.
Paradigmaticamente, l’art.
153 del decreto n. 42, assoggetta la collocazione degli impianti pubblicitari
nell’ambito e in prossimità dei beni
paesaggistici, al previo rilascio dell’autorizzazione da parte
dell’organo individuato dalla regione; ancora, il rilascio di un parere del
medesimo organo, finalizzato al rilascio dell’autorizzazione prevista dal
comma 4, dell’art. 23 del nuovo codice della strada.
Se ciò non bastasse, gli
artt. 162 e 168 del codice n. 42 del 2004, richiamano quod
poenam, le sanzioni previste dall’art. 23 del nuovo codice della strada,
per la collocazione degli impianti pubblicitari in violazione degli artt. 49 e
152 dappoco citati.
Insomma,
ci pare che l’azione del legislatore abbia il solo pregio di avere messo
ordine (meramente formale) in una materia assai complessa e confusa, per quanto,
il testo attuale — tal quale — continua ad evidenziare lati oscuri di non
facile lettura.
Ad
esempio, la rubrica delle disposizioni sanzionatici, riguarda le violazioni in
materia di affissioni, per quanto il contenuto delle stesse attenga, invece,
alla collocazione degli impianti pubblicitari: dunque, ancorché sul piano
meramente formale, l’una sembra disapplicare l’altra.
Ciò
che più conta, il richiamo alle sanzioni previste dall’art. 23 del nuovo
codice della strada e non anche alle sue norme (così come, del resto,
testualmente accade per il richiamo alle sanzioni previste dai decreti n. 285 e
507, nell’ambito del decreto n. 446 del 1997 più addietro citato), solleva
qualche dubbio in ordine alle modalità di applicazione in concreto, della
sanzione medesima.
Insomma,
ci dobbiamo domandare se nell’applicare la sanzione amministrativa pecuniaria
prevista dal comma 11 (mancanza dell’autorizzazione) o dal comma 12
(inosservanza di prescrizioni indicate nell’autorizzazione) dell’art. 23 del
codice stradale, si debbano anche qui seguire le procedure previste dal Titolo
VI del medesimo codice, oppure quelle previste dal Capo I della legge n. 689 del
1981. Questa non è certamente cosa di poco conto, sol se si pensa, ad esempio,
a quale autorità amministrativa (sindaco, soprintendente, organo regionale) si
debba fare riferimento per la trasmissione del rapporto o degli scritti
difensivi (applicando la legge n. 689 del 1981) o per la presentazione del
ricorso (applicando il nuovo codice della strada).
Ragioni
di sistema (ma, certamente, non vorremmo dire di stretto diritto), ci portano a
concludere che l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dall’art.
23, comunque richiamate, sono da applicare con i medesimi strumenti ermeneutici
che si ricavano dalla lettura delle disposizioni speciali previste dal nuovo
codice della strada, restando immutati i principi che si ricavano dalla lettura
della legge n. 689 del 1981, quali disposizioni di carattere generale sulle
sanzioni amministrative.
Insomma,
sul piano sanzionatorio, restano salvi i principi previsti dal Tit. VI del nuovo
codice della strada, individuando nel prefetto il vertice amministrativo
preposto alla garanzia della giustezza del procedimento amministrativo connesso
all’accertamento delle violazioni: anche quando queste riguardano oggetti di
tutela giuridica, demandati, in astratto, ad altra autorità governativa.