Cass. Sez. III n. 29351 del 19 luglio 2024 (UP 5 apr 2024)
Pres. Aceto Rel. Galanti Ric. Ponticelli
Acque.Liquami zootecnici

In assenza di uno «scarico» in senso tecnico-giuridico, i liquami zootecnici costituiscono rifiuto ai sensi dell’art. 185, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/32006, con applicazione della disciplina della parte quarta del Decreto anche in termini sanzionatori, ai sensi dell’art. 256 del Testo Unico. Il nesso funzionale e diretto delle acque con il corpo recettore può essere attuato mediante «qualunque sistema stabile di collettamento» che ne consenta la canalizzazione senza soluzione di continuità, e non necessariamente attraverso una «condotta»: quindi, per «scarico», si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni. Tuttavia - e questo è il fulcro della tematica - va escluso un ritorno al concetto di «scarico indiretto» che era previsto dalla «legge Merli» (art. 1, lettera a) e che non è stato riproposto nel d. lgs. n. 152 del 2006.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 01/06/2023, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere condannava Giustino Ponticelli in ordine alla violazione dell’articolo 137 d. lgs. 152/2006 alla pena di € 3.000,00 di ammenda, così riqualificata l’originaria imputazione di cui all’articolo 256, comma 1, d lgs. 152/2006.

2. Avverso la sentenza, in data 16/10/2023 l’imputato propone, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione.
2.1. Con il primo motivo lamenta vizio di motivazione in relazione alla riqualificazione operata nel reato di cui all’articolo 137 d. lgs. 152/2006 e alla stessa ritenuta sussistenza del reato, nonché violazione di legge in relazione alla valutazione delle prove documentali e testimoniali assunte nel giudizio. 
Evidenzia in proposito che l’insediamento dell’imputato deve essere considerato agricolo e non industriale e che, all’atto del controllo, nel tubo di c.d. “troppo pieno” non era in atto alcuno scarico.
2.2. Con il secondo motivo lamenta vizio di motivazione in relazione alla procedura di sanatoria degli illeciti ambientali, in quanto le prescrizioni erano state adempiute (v. dichiarazioni del Ponticelli e CTP del Dr. Luigi Bognani), contrariamente a quanto asserito in sentenza.
2.3. Con il terzo motivo (rubricato erroneamente come secondo) lamenta violazione dell’articolo 131-bis cod. pen., la cui applicazione era stata richiesta e in relazione al quale la motivazione si trincera dietro a formule sterotipate.
2.4. Con il quarto motivo (rubricato erroneamente come terzo) lamenta violazione degli articoli 163 e 175 cod. pen., in riferimento alla mancata concessione dei doppi benefici, denegati con motivazione apparente.
2.5. Con il quinto motivo (rubricato erroneamente come quarto) lamenta violazione dell’articolo 240 cod. pen., in riferimento alla confisca della vasca, che, essendo facoltativa, necessitava di motivazione, assente invece nel provvedimento impugnato.

CONSIDERATO IN DIRITTO 
 
    1. Il ricorso è infondato e va rigettato.
Preliminarmente, il Collegio ritiene di riqualificare il fatto ascritto al ricorrente, già oggetto ad esito del giudizio di primo grado di diversa qualificazione rispetto alla contestazione originaria. 
Occorre a tale riguardo osservare come da tempo nella giurisprudenza di legittimità (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 49054 del 23/06/2017, Spadaro) è stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente » letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (cfr., ex multis, Sez. U., n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco). Proprio in applicazione di tale autorevole affermazione si è ritenuto che non sussiste violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza. Si sottolinea, al riguardo, come l'obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato: la nozione strutturale di "fatto" contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata, infatti, con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 2, 16/09/2008, n. 38889, D.; Sez. 5, 13/12/2007, n. 3161, P., Rv. 238345). 
Non ignora peraltro il Collegio che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la regola di sistema espressa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui, ai sensi dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo sul "processo equo", la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice "ex officio", è conforme al principio statuito dall'art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso, con la conseguenza che si impone al giudice nazionale una interpretazione dell'art. 521 c.p.p., comma 1, adeguata al decisum del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati (Sez. 6, n. 45807 del 12/11/2008, D., Rv 241754). 
In particolare, la qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte di Cassazione, diversa da quella attribuita nel giudizio di merito, presuppone sempre l'informazione all'imputato e al suo difensore di tale eventualità. Ciò in quanto le norme della Convenzione Europea, così come interpretate dalla Corte Europea, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all'art. 117 Cost., comma 1, che il giudice italiano deve applicare, a condizione che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, per cui non vi è la necessità di un intervento additivo della Corte costituzionale per stabilire che l'imputato e il difensore devono e possono essere messi in grado di interloquire sulla eventualità di una diversa definizione giuridica del fatto là dove essa importi conseguenze in qualunque modo deteriori per l'imputato così da configurare un suo concreto interesse a contestarne la fondatezza. 
Nel solco tracciato dalla sentenza Drassich, si sono inseriti alcuni arresti in cui si ribadisce che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 521 c.p.p. impone di ritenere che il potere .di attribuire alla condotta addebitata all'imputato una nuova e diversa qualificazione giuridica non possa essere esercitato «a sorpresa» ma solo a condizione che vi sia stata una preventiva promozione, ad opera del giudice, del contraddittorio fra le parti sulla «questio iuris» relativa; e ciò anche nel caso in cui la nuova e diversa qualificazione risulti più favorevole per il giudicabile, atteso che la difesa ben può diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico) in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltre tutto, le emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa e nuova rilevanza, dovendo la garanzia del contraddittorio in ordine alle questioni inerenti alla diversa qualificazione giuridica del fatto essere concretamente assicurata all'imputato sin dalla fase di merito in cui si verifica la modifica dell'imputazione (Sez. 1, 29/04/2011, n. 18590, C; Sez. 6, n. 20500 del 19/02/2010, F., Rv. 247371). 
Orbene, i principi affermati dalla giurisprudenza che si richiama alla sentenza Drassich non si pongono in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte che esclude la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, da intendersi sempre come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni. Fermo restando, dunque, l'incontestabile potere del giudice di attribuire in sentenza al fatto emergente dalle risultanze processuali una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, stante la limpida formulazione dell'art. 521 c.p.p., il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere assicurato all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice nell'esercizio del potere-dovere che gli è proprio, conformemente alla previsione dell'art. 111 Cost., comma 2, secondo la lettura integrata alla luce dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, come interpretato dalla CEDU, impone esclusivamente che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga «a sorpresa», determinando conseguenze negative per l'imputato (e, quindi, fondando un suo concreto interesse ad ottenerne la rimozione), che, per la prima volta, e senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali e ad una 'sua diversa e nuova definizione giuridica, rispetto a quanto descritto, in punto di fatto e di diritto, nell'imputazione, della quale pertanto tali sviluppi rappresentino un'evoluzione inaspettata e sottratta al contraddittorio. 
Condizione che non si verifica in due occasioni. 
Da un lato, quando la difesa abbia avuto nella fase di merito la possibilità, comunque, di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione, anche attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione avverso la sentenza di primo grado in cui viene operata la diversa qualificazione giuridica del fatto (Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, dep. 2018, Giacomelli, Rv. 272263 – 01; Sez. 4, n. 18793 del 28/03/2019, Macaluso, Rv. 275762 – 01: nel primo caso la corte ha tenuto instaurato il contraddittorio in quanto la riqualificazione era stata oggetto della requisitoria del P.G.; nel secondo in quanto costituiva oggetto del ricorso della parte pubblica). 
Dall'altro quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei naturali e «non sorprendenti» epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all'esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all'imputato o al suo difensore l'effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui, ricostruito il fatto in maniera conforma alla contestazione, l'eventuale esclusione dell'una comporta, inevitabilmente, l'applicazione dell'altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (Sez. 6, n. 41767 del 20/06/2017, Boschi, Rv. 271391 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 2013, Jovanovic). 
Orbene, tali circostanze ricorrono entrambe nel caso in esame.
Infatti, non solo è indubitabile, come emerge dalla semplice lettura del capo di imputazione, che il fatto originariamente contestato è quello in cui il Collegio intende riqualificare la condotta, ma è altresì certo che il contraddittorio sulla possibile qualificazione giuridica di quelle condotte ai sensi dell'art. 256 d. lgs. 152/2006 è stato esercitato fin dall'inizio del processo, atteso che l'originaria imputazione faceva riferimento, in relazione ai medesimi fatti, proprio alla fattispecie astratta della gestione illecita di rifiuti liquidi.
Sotto altro punto di vista, posta l’angusta linea di demarcazione tra acque di scarico e rifiuti liquidi, la riqualificazione non appare certamente evento imprevedibile all’esito del giudizio.

2. Sempre in via preliminare, il Collegio osserva che l’articolo 611 cod. proc. pen., al comma 1-sexies, introdotto dal d. lgs. n. 150/2022, stabilisce che «se ritiene di dare al fatto una definizione giuridica diversa, la Corte dispone con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, indicando la ragione del rinvio e dandone comunicazione alle parti con l’avviso di fissazione della nuova udienza».
Tale disposizione è stata introdotta (v. pag. 171 rel. ill. d. lgs. 150/2022) «a tutela del contraddittorio nel caso in cui emerga la possibilità di una ridefinizione giuridica del fatto contestato, in aderenza alla giurisprudenza CEDU di riferimento (a partire dalla nota sentenza Drassich c. Italia dell'11 dicembre 2007) e del consolidato orientamento della Suprema Corte che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, esclude la compressione o la limitazione del diritto al contraddittorio quando la diversa qualificazione giuridica del fatto non avvenga a sorpresa e l'imputato e il suo difensore siano stati posti in condizione di interloquire sulla questione (Cfr., fra le più recenti, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27905 del 03/05/2021, Rv. 281817-03)».
Se, pertanto essa impone alla Corte l’obbligo di attivare il contraddittorio in tutti quei casi in cui il mutamento della qualificazione giuridica del fatto avvenga «a sorpresa», e quindi la difesa non abbia potuto difendersi in relazione al fatto come diversamente qualificato, è dubitabile che essa possa trovare applicazione in relazione ad ipotesi, quale quella in esame, in cui il giudizio di merito si è svolto con la qualificazione giuridica ritenuta corretta dalla Corte e la sentenza abbia proceduto a riqualificare il fatto.
In ogni caso, il Collegio ritiene che tale disposizione non sia applicabile, ratione temporis, al presente processo.
Ed infatti, l'articolo 94, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, prevedeva, quale regime transitorio, che, per le impugnazioni proposte sino al 31 dicembre 2023 continuavano ad applicarsi le disposizioni di cui agli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176.
Tale termine è stato poi differito al 30 giugno 2024 dall’articolo 11, comma 7, del d.l. n. 215/2023, convertito con legge 23 febbraio 2024, n. 18.
Vero è che la disciplina transitoria non menziona esplicitamente il comma in parola; tuttavia, si deve ritenere che la disciplina delle impugnazioni, come modificata dalla c.d. “riforma Cartabia”, debba essere considerata come un “sistema chiuso”, in cui i commi da 1-bis a 1-sexies dell’articolo 611 del codice di rito si pongono in termini antitetici rispetto al procedimento delineato dagli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137.
Non a caso, Sez. 3, n. 37046 del 27/06/2023, Bellini, n.m., ha evidenziato come l'art. 35 comma 1, lett. a), n. 2) del d.lvo n. 150 del 2022, nel contesto della riforma del rito nel giudizio di legittimità, sia intervenuta sull'art. 611 cod. proc. pen. ed ha previsto che la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga in camera di consiglio, con contraddittorio scritto senza l'intervento delle parti, previsione della trattazione dei ricorsi con contraddittorio scritto che diviene rito ordinario per i giudizi di cassazione, a cui si può derogare solo in presenza di specifici presupposti e previa richiesta delle parti o decisione della corte stessa. Si tratta di una previsione che, in parte, riprende la disciplina normativa del c.d. rito cartolare introdotta dalle norme emergenziali Covid. Nel giudizio di legittimità il rito cartolare, si rileva ancora nella pronuncia citata, si applica nei casi indicati dal comma 1-bis dell'art. 611 cod. proc. pen. e con le modalità per la richiesta per la trattazione indicate nel comma 1-ter del medesimo articolo. In particolare, e in questo si differenzia dalla previsione dell'art. 23 della legge n. 176 del 2020, la richiesta delle parti deve essere presentata a pena di decadenza entro dieci giorni dalla ricezione dell'avviso di fissazione dell'udienza. Negli stessi casi di cui al comma 1-bis dell'art. 611 cod. proc. pen. la Corte di cassazione può d'ufficio disporre la trattazione del ricorso con la partecipazione delle parti "per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame", dandone comunicazione alle parti (art. 611 comma 1-quater cod. proc. pen.) e "se ritiene di dare una definizione giuridica diversa" (art. 611 comma 1-sexies cod. proc. pen.).
Come appare evidente, i commi 1-quater e 1-sexies della disposizione in parola appaiono strettamente correlati al comma 1-bis, che disciplina le modalità di trattazione del procedimento, e non appare quindi sistematicamente corretto estrapolare il solo comma in parola e procedere ad una “ibridazione” tra il regime procedutale previgente al d. lgs. 150/2022 (c.d. “regime Covid-19”) e la nuova disciplina.

3. Così riqualificato il fatto, il primo motivo di ricorso è infondato, in quanto al caso in esame deve trovare applicazione la normativa sui rifiuti e non quella sugli scarichi, per cui la tematica dell’equiparazione degli scarichi zootecnici a quelli domestici perde rilievo pratico.
La soluzione alla questione posta dal ricorrente si rinviene infatti - in modo oggettivo - nella disciplina di confine tra «acqua di scarico» e «rifiuto liquido», e cioè tra la Parte Terza e la Parte Quarta del T.U. ambientale (d. lgs. n. 152/2006).
3.1. Ed infatti, ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), del medesimo decreto, è «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.
Il successivo articolo 185, comma 2, lettera a), espressamente esclude dall'ambito di applicazione della parte quarta del decreto (ossia quella relativa ai rifiuti), le «acque di scarico», a loro volta (tautologicamente) definite dall’articolo 74, lettera gg), come «tutte le acque reflue provenienti da uno scarico».
L’articolo 74, lettera ff), definisce quindi lo «scarico» come «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione».
Nel caso di reflui allo stato liquido, è, pertanto, dalla nozione di scarico che si ricava, in negativo, quella di rifiuto: saranno quindi rifiuti tutti quelli che non hanno le caratteristiche delle acque di scarico (v. meglio infra).
3.2. Premesso in cosa consistono le acque di scarico, il Collegio ritiene ora necessario valutare se gli scarichi effettuati dalle aziende zootecniche possano considerarsi industriali o meno, come sostenuto dal ricorso.
La regola generale è contenuta nell’articolo 74, lettera g), del d. lgs. 152/2006, secondo cui sono acque reflue «domestiche» le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche», mentre per la successiva lettera h), sono «acque reflue industriali» qualsiasi tipo di «acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni», diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento.
Tuttavia, l'art. 101 del Dlgs 152/06, dettato in tema di «criteri generali della disciplina degli scarichi» stabilisce la assimilazione «secca» delle acque reflue «provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame» alle acque reflue domestiche; 
La disposizione in esame è stata modificata dall’articolo 2, comma 8, d. lgs. 16/01/2008, n. 16, che ha eliminato le successive parole «che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l'utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all'articolo 112, comma 2, e che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto». Quindi, innovando sensibilmente la precedente disciplina, l'attuale normativa ha parificato, senza limitazioni, alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dall'attività di allevamento del bestiame (così Sez. 3, n. 38866 del 30/05/2017, Midgley, Rv. 271801 - 01). 
L’ultima sentenza citata sottolinea come la modifica normativa operata, comportando il venire meno della «connessione funzionale dell'allevamento con la coltivazione della terra» e dei criteri di individuazione di tale connessione, capovolge sostanzialmente i termini della questione rispetto alla disciplina regolata dal d.lgs. n. 152/2006: mentre, infatti, con la normativa pregressa le acque reflue provenienti da una attività di allevamento del bestiame andavano considerate, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, come acque reflue industriali, e solo eccezionalmente potevano essere assimilate, ai detti fini, alle acque reflue domestiche qualora fosse dimostrata la presenza delle condizioni indicate dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28, comma 7, lett. b), e poi d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101, comma 7, ossia quando vi era la prova della connessione del terreno agricolo con le attività di allevamento (Sez. 3, n.4500 del 17/11/2005, Rv. 233283); nell'attuale assetto normativo, per effetto della caducazione suindicata, l'assimilazione prevista dell'art. 101, comma 7, delle acque reflue domestiche a quelle provenienti da imprese dedite all'allevamento di bestiame, diviene la regola (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552).
Per effetto di tali modifiche si è ritenuto, pertanto, sanzionato solo in via amministrativa, ai sensi del d.lgs. 152 del 2006, art. 133, comma 2, lo scarico senza autorizzazione degli effluenti di allevamento. L'unica eccezione rimane quella - richiamata ad exdudendum dell'art. 101, comma 7 - del d.lgs. n. 152 del 2006 - dell' art. 112 che regola l'utilizzazione agronomica: per effetto del combinato delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101 comma 7, art. 112 e art. 137, comma 14, nel caso di gestione degli effluenti di allevamento, infatti, continua a mantenere rilevanza penale la sola utilizzazione agronomica - così come definita dall'art. 74, comma 1 lett. p) del d.lgs. n. 152/2006 - nelle ipotesi in cui la stessa avvenga al di fuori dei casi o dei limiti consentiti. 
Secondo la normativa attualmente vigente, quindi, le acque reflue provenienti da imprese dedite all'allevamento di bestiame sono assimilate alle acque reflue domestiche ai fini della disciplina degli scarichi e lo scarico senza autorizzazione degli effluenti d'allevamento non è più previsto dalla legge come reato, ma integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 133, comma secondo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552;Sez.3, n.9488 del 29/01/2009, Rv.243112). 
Ove quello in esame dovesse essere classificato come uno scarico di acque reflue, pertanto, la sentenza andrebbe annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
3.4. Tuttavia, non è così, ritenendo il Collegio che il giudice abbia erroneamente riqualificato l’originaria contestazione di cui all’articolo 256 d. lgs. 152/2006.
La Corte ha infatti evidenziato come i liquami prodotti dall'esercizio di azienda zootecnica costituiscono acque di scarico solo se il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato, senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento (Sez. 3, n. 16623 del 08/04/2015, D'Aniello, Rv. 26335401), costituito da un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore, mentre in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si verte invece nell'ambito della disciplina sui rifiuti. 
Sez. 3, n. 50629 del 04/10/2017, Valentini, n.m., ha poi precisato che la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile. In tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti (cfr., tra le tante: Sez. 3, n. 45340 del 19/10/2011, Pananti, Rv. 251335; Sez. 3, n. 22036 del 13/04/2010, Chianura, Rv. 247627; Sez. 3, n. 35138 del 18/6/2009, Bastone, Rv. 244783) e che ad identiche conclusioni si è pervenuti anche con riferimento alla raccolta di liquami zootecnici (Sez. 3, n. 15652 del 16/3/2011, Nassivera, Rv. 250005; Sez. 3, n. 27071 del 20/5/2008, Cornalba e altro, Rv. 240264). 
Pertanto, in assenza di uno «scarico» in senso tecnico-giuridico, i liquami zootecnici costituiscono rifiuto ai sensi dell’art. 185, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/32006, con applicazione della disciplina della parte quarta del Decreto anche in termini sanzionatori, ai sensi dell’art. 256 del Testo Unico.
Secondo la costante giurisprudenza della Corte, il nesso funzionale e diretto delle acque con il corpo recettore può essere attuato mediante «qualunque sistema stabile di collettamento» che ne consenta la canalizzazione senza soluzione di continuità, e non necessariamente attraverso una «condotta»: quindi, per «scarico», si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni (Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007, Schembri, Rv. 238057 - 01).
Tuttavia - e questo è il fulcro della tematica - va escluso un ritorno al concetto di «scarico indiretto» che era previsto dalla «legge Merli» (art. 1, lettera a) e che non è stato riproposto nel d. lgs. n. 152 del 2006 (v. Sez. 3, n. 50432 del 15/10/2019, De Rosa, Rv. 277400 – 01, secondo cui lo «scarico indiretto», come quello legato all'esistenza di un pozzo nero, e che si concretizza in pratica ogni qual volta si verifica un'interconnessione tra il condotto d'adduzione e il corpo ricettore, va semplicemente ad essere ricompreso nel comune concetto di «rifiuto liquido» e resta dunque sotto l'impianto di regolamentazione della parte quarta del d. lgs. n. 152/2006). 
In tal senso, la Corte ha ritenuto che sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido, e non acque di scarico:
- gli effluenti di allevamento di bestiame che, in luogo di defluire direttamente nelle condotte di scarico, siano raccolti in apposite vasche a tempo indeterminato (Sez. 3, n. 15652 del 16/3/2011, Nassivera, cit.);
- i reflui, ove siano raccolti prima in una vasca e poi sparsi sul terreno (Sez. 3, n. 27071 del 20/05/2008, Cornalba, cit.);
- i reflui stoccati in modo incontrollato e a tempo indeterminato all’interno di vasche che, tracimando dai bordi, finiscano nel terreno circostante (Sez. 3, n. 21785 del 28/04/2011, Corbelli, Rv. 250479 - 01).
E’ quindi del tutto evidente che il concetto di  «stabile collettamento» deve essere inteso non in senso assoluto, ma relativo, ossia riferito alla presenza di un «collegamento funzionale diretto» tra il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore.
3.5. Nel caso di specie, il processo ha restituito una situazione di fatto per cui le acque di lavaggio e sanificazione della sala mungitura e della sala latte confluivano all’interno di una «vasca» soggetta a svuotamento periodico secondo la disciplina dei rifiuti, come attestato dalla presenza di alcuni FIR (datati 27/06/2017 e 27/12/2017) attestanti l’avvenuto smaltimento di rifiuti classificati con il codice 200304 («fanghi delle fosse settiche»), e come precisato dalla stessa sentenza a pagina 3 («vi era una tubazione di troppo pieno nella vasca interrata dichiarata a tenuta e a svuotamento periodico delle acque di lavaggio e sanificazione»; il corsivo è del Collegio). 
All’interno della vasca veniva quindi rinvenuta una tubatura di «troppo pieno», che consentiva di far tracimare i liquami, quando essi superavano un certo livello, facendoli defluire tramite tubazione nel canale Trentapalme, che a sua volta sfociava in mare.
E’ quindi evidente che i reflui convogliati nella vasca erano destinati a permanere nella stessa fino ad essere allontanati tramite cisterna, ma alla vasca era stato (abusivamente) applicato un sistema di «troppo pieno», che si attivava solo quando i reflui ivi contenuti non superavano un certo livello.
Dopo il sequestro della vasca, ancora, il Ponticelli provvedeva a parziale smaltimento dei fanghi come rifiuti tramite FIR (15/02/2019).
Il 12 giugno 2019, venivano impartite al Ponticelli prescrizioni che imponevano allo stesso di depositare un «piano di smaltimento» dei rifiuti entro 90 giorni.
Nel 2021 si constatava poi che non solo l’impresa non aveva ottemperato alle prescrizioni, ma che era stata installato un «bypass» che consentiva di scaricare ancora i reflui dalle vasche nel fiume Trentapalme.
Il Collegio ritiene che, nel caso di specie, manchi il requisito dello «stabile collettamento», come dianzi specificato, necessario affinché sia applicabile la disciplina degli scarichi. 
Né a tal fine sembra idoneo a determinarlo il fatto che sia stata predisposta una tubazione che consentiva il recapito nel corpo recettore: ed infatti, la natura occasionale di tale forma di scarico va considerata unitamente alla tendenziale permanenza del reflui all’interno della vasca e alla assenza di un nesso funzionale diretto con l’attività di produzione del refluo, circostanze che, globalmente considerate, depongono univocamente per la mancanza di «stabilità» del collettamento, requisiti indispensabili per potersi parlare di «scarico».
Né, del resto, può ipotizzarsi che, a seconda del livello di riempimento della vasca, i reflui possano considerarsi ora rifiuti (finchè non viene raggiunta la tubazione di troppo pieno), da allontanare tramite FIR, ora acque di scarico (quando si attiva la tubazione di troppo pieno).
Erroneamente, quindi, il giudice territoriale – focalizzando la sua attenzione sulla mera esistenza di una «tubazione» anziché sulla «stabilità» del collettamento - ha riqualificato l’originaria contestazione di gestione illecita di rifiuti in scarico non autorizzato.
Così, riqualificato il reato nella originaria contestazione di gestione illecita di rifiuti liquidi, il motivo si appalesa infondato.
3.6. Il secondo tema sollevato dal primo motivo di ricorso concerne l’esercizio della pratica della «fertirrigazione» o utilizzazione agronomica, cui conseguirebbe l’esclusione della tipicità del reato contestato.
Essa è definita dall’articolo 74, lettera p), del testo unico come «la gestione di effluenti di allevamento, acque di vegetazione residuate dalla lavorazione delle olive, acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari, dalla loro produzione fino all'applicazione al terreno ovvero al loro utilizzo irriguo o fertirriguo, finalizzati all'utilizzo delle sostanze nutritive e ammendanti nei medesimi contenute».
Questa Corte (Sez. 3, n. 9717 del 10/01/2020, Battipaglia, n.m., citata) ha chiarito che detta pratica prescinde dalla modalità di gestione delle acque reflue di allevamento, sia che esse siano o no soggette alla normativa sui rifiuti o a quella sulle acque, ed in questo ultimo caso indipendentemente dalla classificazione dello scarico come industriale o domestico.
Deve tuttavia escludersi l’applicabilità dell’articolo 137, comma 14, d. lgs. 152/2006, al caso in esame.
La norma infatti sanziona con la pena dell’ammenda «chiunque effettui l'utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari, nonché di acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari di cui all'articolo 112, al di fuori dei casi e delle procedure ivi previste». 
E’ quindi di tutta evidenza che ciò che la norma sanziona è l’attività di fertirrigazione svolta in casi non consentiti dalla legge o con modalità difformi da quelle consentite, non anche il mero scarico dei reflui in corpo recettore, per il quale si applica la disciplina delle acque di scarico ovvero quella sui rifiuti.
Il motivo è quindi infondato.

4. Il secondo motivo è inammissibile.
La sentenza dà atto dell’inottemperanza alle prescrizioni impartite (tanto che, in un successivo controllo, è stata evidenziata la presenza di un bypass in grado di consentire, ancora, di scaricare i reflui nel fosso), né il ricorrente allega un verbale di ottemperanza alle prescrizioni medesime.
In tal modo, chiede al Collegio di svolgere un accertamento di fatto, quello cioè relativo all’adempimento delle prescrizioni, escluso nel giudizio di legittimità.
Il Collegio esprime quindi il seguente principio di diritto: «è inammissibile il ricorso che chiede alla Corte di cassazione di verificare l’ottemperanza alle prescrizioni impartite al trasgressore ai sensi dell’articolo 318-bis e ss. del d. lgs. 152/2006, salvo che tale ottemperanza non risulti “ictu oculi” da elementi dedotti e allegati, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, senza che sia necessario alcuno spazio di valutazione in punto di fatto».
Inoltre, il Collegio aggiunge che, dal tenore inequivoco dell’articolo 318-sexies  (la norma infatti parla del solo «procedimento»; incardina la verifica solo sul pubblico ministero; non preclude l’archiviazione ovvero l’assunzione di prove non rinviabili) e 318-septies, comma 2, d. lgs 152/2006 (il quale prevede che, in caso di ottemperanza alle prescrizioni e pagamento della somma prevista, «il pubblico ministero richiede l'archiviazione se la contravvenzione è estinta») appare evidente che l’istituto può essere attivato solo entro la chiusura delle indagini preliminari.
In altre parole, esso trova una «preclusione di fase», in cui il limite è costituito dall’avvenuto esercizio dell’azione penale (sul punto, v. Sez. 3, n. 41889 del 03/07/2023, Santeramo, n.m., secondo cui «le precise scansioni procedimentali previste dal dato normativo sono scansioni che non prevedono mai la partecipazione dell’Autorità giudiziaria, intesa come giudice del dibattimento»).
Il motivo è, pertanto, manifestamente infondato.

5. Il terzo motivo (erroneamente rubricato nuovamente come secondo) è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Sez. 3, n. 32962 del 21/06/2023, Anzalone, Rv. 284942 - 02) che, poiché il presupposto di attivazione della procedura estintiva ex art. 318-bis ss. TUA è la «assenza» di danno o pericolo per l’ambiente, ciò significa che, normalmente, i casi in cui non sia stata attivata la procedura sono quelli in cui in cui tale danno sussista, ipotesi cui va parificata quella in cui le prescrizioni imposte non vengano ottemperate.
In tali casi, ove tale danno o pericolo siano «esigui», e sussistano gli altri requisiti (modalità della condotta e non abitualità del comportamento), sarebbe teoricamente attivabile l’articolo 131-bis cod. pen..
Ma tale ricostruzione, pur se sistematicamente coerente, se applicata sistematicamente potrebbe condurre ad effetti aberranti, risolvendosi nella creazione di un sistema in cui l’indagato, per beneficiare dell’estinzione delle contravvenzioni che non hanno cagionato danno o pericolo per l’ambiente, sarebbe costretto a pagare/adempiere a delle prescrizioni, mentre per reati che tali danni hanno cagionato (sia pur in modo lieve) potrebbe godere del più benevolo regime di cui all’articolo 131-bis cod. pen. (che non impone pagamenti né comportamenti riparativi di sorta), determinando una torsione del sistema stesso, con evidenti effetti negativi in ordine alla spinta all’adesione al meccanismo conformativo/deflattivo previsto dal TUA.
La causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, di cui all'art. 131-bis cod. pen., non è pertanto applicabile alle contravvenzioni previste dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nel caso in cui sia stata attivata la procedura estintiva di cui all'art. 318-bis e ss. d.lgs. citato, ma non siano state ottemperate dall'imputato le prescrizioni impartitegli (come nel caso in esame), dovendo essere valutata negativamente la sua condotta susseguente al reato (v. sentenza Anzalone, citata).

6. Il quarto motivo (erroneamente rubricato come terzo) si compone di due sotto-motivi, entrambi manifestamente infondati.
6.1. Quanto alla sospensione condizionale della pena, le Sezioni Unite della Corte hanno ritenuto che l'esercizio del potere del giudice di appello, in tema di applicazione dei benefici di legge, si connoti come un «dovere», in presenza di elementi di fatto che ne consentano ragionevolmente l'esercizio, tanto più se il riconoscimento è invocato dall'imputato.
La valutazione prognostica richiesta dall'art. 164 c.p. richiama la necessaria considerazione complessiva delle circostanze indicate nell'art. 133 c.p. (Sez. 2, n. 2742 del 15/12/2020, dep. 2021, Gaye, n.m.), sia in relazione alla gravità del reato (modalità dell'azione, gravità del danno o del pericolo cagionato, intensità del dolo), sia con riguardo alla capacità a delinquere (motivi a delinquere e carattere del reo, precedenti penali, condotta del reo antecedente, contemporanea o susseguente al reato, condizioni di vita).
Il mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere-dovere del giudice di appello di applicare i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale «non decisione», costituisce, di conseguenza, motivo di annullamento per violazione di legge e difetto di motivazione (Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2018, n. 22533, Salerno, Rv. 275376 - 01).
Nel caso in esame, il giudice esclude la concedibilità del beneficio (pag. 6) alla luce della «gravità della condotta, l’indifferenza alle prescrizioni dell’autorità e la sussistenza di un precedente penale specifico», elementi alla luce dei quali formula un giudizio prognostico negativo in ordine alla commissione di futuri delitti, valutazione non manifestamente illogica che non può costituire oggetto di scrutinio da parte della Corte.
6.2. Quanto alla «non menzione» della condanna, il Collegio ribadisce (Sez. 2, n. 16366 del 28/03/2019, Portanome) che il beneficio della non menzione della condanna di cui all'art. 175 cod. pen. è fondato sul principio dell'«emenda», e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale, sicché la sua concessione è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, fermo restando tuttavia l’obbligo del giudice di merito di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. (Sez. 4, n. 34380 del 14/07/2011 - dep. 20/09/2011, Allegra, Rv. 251509; Sez. 2, n. 6949 del 12/03/1998 - dep. 10/06/1998, Pennisi S, Rv. 211100).
Nel caso di specie, il giudice motiva il diniego sulla base di esigenze di «pubblica conoscibilità» della condotta pericolosa per l’ambiente, motivazione certamente non illogica, posto il reiterato scarico di reflui in corpo idrico superficiale che recapitava a mare, res communis omnium.

7. Il quinto motivo (erroneamente rubricato come quarto) è manifestamente infondato.
Come sottolineato anche dal Procuratore generale, la confisca prevista dall'art. 240, primo, comma, cod. pen., è legittima quando sia dimostrata la relazione di asservimento tra cosa e reato, dovendo la prima essere collegata al secondo non da un rapporto di mera occasionalità, ma da uno stretto nesso strumentale, rivelatore dell’effettiva probabilità del ripetersi di un’attività punibile. La Corte ha in proposito ritenuto che il giudice «è tenuto ad argomentare, in concreto, la ritenuta sussistenza del nesso di strumentalità fra il bene ablato e il reato commesso, valutando sia il ruolo effettivamente rivestito dal primo nel compimento dell'illecito, sia le modalità di realizzazione dello stesso» (Sez. 3, n. 33432 del 03/07/2023, Esposito, Rv. 285062 - 01).
In questa analisi in concreto delle «condizioni» per disporre la confisca, in riferimento alle «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato», a fronte di difformi orientamenti, tra pronunce che non ritenevano sufficiente il semplice impiego di tale uso, essendo invece necessario un «collegamento stabile con l'attività criminosa», che esprima con essa un rapporto funzionale (Sez. 6, n. 24756 del 01/03/2007, Muro Martinez Losa, Rv. 236973; Sez. 4, n. 43937 del 20/09/2005, Curraj, Rv. 232732), collegamento desumibile anche dall’impiego di manipolazioni, di particolari accorgimenti insidiosi o di modifiche strutturali al mezzo, strumentali per l'occultamento o il trasporto di droga (Sez. 4, n. 13298 del 30/01/2004, Pani, Rv. 227886; Sez. 6, n. 34088 del 06/07/2003, Lomartire, Rv. 226687; Sez. 4, n. 9937 del 29/02/2000, Iliadis, Rv. 217376; Sez. 6, n. 3334 del 29/10/1996, Oliverio, Rv. 206885), ed altre che ritenevano sufficiente una prognosi negativa circa la commissione in futuro di altri reati servendosi della cosa in questione, nel senso che la stessa è ablabile se comunque potenzialmente utile per la consumazione di altri delitti della stessa natura (c.d. «strumentalità astratta»), si è fatta strada una posizione intermedia, che il Collegio condivide e ribadisce, che supera l’idea di un necessario nesso di indispensabilità tra la cosa ed il reato, ritenendo, tuttavia, indispensabile un controllo sulla esistenza di una «strumentalità in concreto» tra il bene ed il reato, in ragione delle specifiche caratteristiche del primo e delle modalità e circostanza di commissione del secondo (Sez. 6, n. 18531 del 27/04/2012, Coman, Rv. 252526 – 01).
In questo contesto, si è affermato che, per «cose che servirono a commettere il reato», ai sensi dell'art. 240, comma 1, cod. pen., devono intendersi quelle impiegate nella esplicazione dell'attività punibile, senza che siano richiesti requisiti di «indispensabilità», ossia senza che debba sussistere un rapporto causale diretto e immediato tra la cosa e il reato nel senso che la prima debba apparire come indispensabile per l'esecuzione del secondo (Sez. 5, n. 14307 del 07/03/2006, Guadagno, Rv. 234591; Sez. 5, n. 2158 del 04/06/1993, Raia, Rv. 194836). 
Ed allora, il nesso di strumentalità tra la cosa ed il reato – bastevole per legittimare l’adozione del provvedimento applicativo della misura di sicurezza reale – va ricercato in concreto, considerando quello che è il ruolo rivestito dalla cosa nella realizzazione dell’illecito, per il quale vi è sentenza di condanna o di applicazione di pena su richiesta, cioè il modo di commissione dello stesso. 
In tal senso, la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato integra una misura di sicurezza patrimoniale che tende a prevenire la consumazione di futuri reati mediante l'esproprio di cose che, per essere collegate all'esecuzione di illeciti penali, manterrebbero, se lasciate nella disponibilità del reo, viva l'idea e l'attrattiva del reato. Ne deriva che la confisca in esame implica un rapporto di «asservimento» tra cosa e reato, nel senso che la prima deve essere oggettivamente collegata al secondo da uno stretto nesso strumentale che riveli effettivamente la possibilità futura del ripetersi di un'attività punibile, non essendo invece sufficiente un rapporto di mera occasionalità (Sez. 6, n. 444 del 10/02/1994, Rilande, Rv. 198483). 
Tale aspetto è stato correttamente ritenuto sussistente nel caso di specie, stante il continuativo utilizzo della vasca nella attività lavorativa da parte dell'imputato, nonché delle numerose prescrizioni ambientali che lo stesso ha in passato disobbedito, sicché è altamente prospettabile in termini di reale probabilità la prosecuzione della medesima condotta illecita. 
Nel caso in esame, il Tribunale ha quindi spiegato le ragioni della confisca con il pericolo della reiterazione della condotta derivante dalla persistente disponibilità della vasca presso l’azienda del Ponticelli e tale motivazione costituisce tutt'altro che una clausola di stile.

P.Q.M.

Riqualificato il reato ai sensi dell’articolo 256, comma 1, lett. a), d. lgs. n. 152/2006, come originariamente contestato, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 05/04/2024.