Cass. Sez. III n. 43155 del 21 settembre 2017 (Ud 24 mag 2017)
Presidente: Fiale Estensore: Renoldi Imputato: Di Renzo ed altra
Urbanistica. Sanatoria e d.i.a. alternativa al permesso di costruire
Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili - pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato - ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto
RITENUTO IN FATTO
1. Tratte a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, comma 1, lett. B), d.P.R. n. 380 del 2001, Manola e Tiziana Di Renzo erano state assolte, con sentenza del Tribunale di Chieti in data 3/10/2013, con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Ciò in quanto l'abuso alle stesse contestato, consistente nella realizzazione, nella loro qualità di legali rappresentanti della società committente S.r.l. Sabia, di alcune opere edilizie in assenza del permesso di costruire, sarebbe stato sanato dalla integrazione, successiva alla presentazione di una D.I.A., di una "variante a parziale sanatoria" e, in particolare, dall'adozione di un atto unilaterale d'obbligo sottoscritto su richiesta del comune di Chieti, con il quale le due imputate si erano impegnate a rimuovere le opere edilizie eventualmente interferenti con il piano della viabilità stradale.
2. A seguito di appello del pubblico ministero e delta parte civile, con sentenza in data 15/04/2015 la Corte d'appello di L'Aquila, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva riconosciuto la responsabilità penale di Manola e Tiziana Di Renzo in relazione al predetto reato e, per l'effetto, le aveva condannate alla pena di un mese di arresto e di 8.000,00 euro di ammenda ciascuna. Secondo i giudici di appello, infatti, le opere realizzate dovevano essere qualificate come "nuove costruzioni", sicché esse avrebbero dovuto essere precedute dal rilascio di un permesso di costruire, non essendo sufficiente la mera dichiarazione di inizio di attività e non essendo sufficiente, per la stessa ragione, il ricorso alla procedura della D.I.A. in sanatoria.
3. Avverso la sentenza d'appello hanno proposto ricorso le stesse imputate, deducendo, a mezzo del difensore fiduciario, all'interno di un articolato motivo di doglianza, tre distinte questioni, tutte ruotanti intorno alla ritenuta violazione di legge ed a vizi della motivazione; questioni di seguito enunciate nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Sotto un primo profilo, le ricorrenti deducono che le opere realizzate sarebbero state qualificabili come una "ristrutturazione edilizia" con integrazione funzionale o strutturale a servizio del fabbricato preesistente, sicché sarebbe stata sufficiente, al fine di rendere legittimo l'intervento, la presentazione della D.I.A. ex art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 30 giugno 2001, n. 380. 3.2. Sotto un secondo aspetto, le imputate deducono che la legittimità del ricorso alla D.I.A. sarebbe stata in ogni caso asseverata dal fatto che il comune aveva assentito la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché subordinata al rilascio di un atto d'obbligo e non essendovi stato alcun mutamento della destinazione d'uso da piazzale a parcheggio, considerato che quest'ultima destinazione sarebbe stata stabilita dal Tribunale di Chieti con sentenza n. 160/2010, secondo quanto previsto ex lege trattandosi di uno spazio pertinenziale del Condominio Abruzzo. Né, peraltro, l'intervento avrebbe determinato alcuna maggiorazione del carico urbanistico.
3.3. Infine, le ricorrenti lamentano che essendovi stata, nell'ipotesi contestata, una difformità solo parziale delle opere rispetto a quanto indicato nel titolo abilitativo, sarebbe da escludere l'avvenuta integrazione del reato previsto dall'art. 44, comma 1, lett. a) del d.P.R. n. 380 del 2001, unica ipotesi criminosa astrattamente ipotizzabile a carico delle due Di Renzo.
4. In data 10/5/2017 è pervenuta, a mezzo posta, una memoria a firma degli avv.ti Ludovico Guarini e Alessandro De Juliis, i quali, nell'interesse della parte civile, hanno illustrato le ragioni che imporrebbero il rigetto dei ricorsi: dalla pacifica necessità che, per le opere realizzate, fosse richiesto il permesso di costruire e non la semplice D.I.A., alla illegittimità della "variante e parziale sanatoria della D.I.A."; dalla illegittimità dell'atto d'obbligo sottoscritto dalle due imputate, non redatto in atto pubblico o come scrittura privata autenticata, alla abnormità di un'autorizzazione rilasciata con carattere di provvisorietà.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte territoriale abbia adeguatamente dato conto del fatto che le opere realizzate - consistenti in una pavimentazione eseguita previa spianatura del terreno esistente e con posa in opera di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di 700 metri quadri, parzialmente destinata a viabilità secondo la variante al P.R.G., in due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30 - avessero significativamente inciso sull'assetto urbanistico della zona de qua attraverso una trasformazione permanente del suolo; e che, come tali, esse fossero qualificabili come "nuova costruzione", tanto da richiedere il preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001. Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che l'intervento dovesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia", realizzata a servizio del fabbricato.
E da tale qualificazione sarebbe derivato che le opere avrebbero potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001 ovvero con la D.I.A. sostitutiva o Super-D.I.A. che ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a) del predetto decreto, nella versione all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo del permesso di costruire, proprio in relazione agli "interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata. In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A. presentata dalle due imputate aveva qualificato l'intervento edificatorio non come "ristrutturazione edilizia", quanto piuttosto come "manutenzione straordinaria"; ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in ricorso configuri, all'evidenza, un tentativo di giustificare ex post il ricorso allo strumento della D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo confrontata, sia pure criticamente, con tale tesi, mai avanzata nel corso del giudizio di appello. Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il Collegio che la illegittimità della D.I.A. presentata dalle ricorrenti fosse stata correttamente riscontrata dai giudici di appello sulla base di una serie di concreti elementi, che le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo non sono riuscite a confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, infatti, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso.
E secondo l'art. 3, comma 1, lett. d) del medesimo d.P.R. sono qualificati come "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che l'intervento edilizio contestato a Manola e Tiziana Di Renzo potesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia". Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in luogo dell'originaria corte costituente pertinenza del fabbricato circostante, era stata realizzata, mediante livellamento e successiva pavimentazione, una vasta area destinata a parcheggio, con l'erezione di due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché di un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30.
Un intervento complessivo, quello appena descritto, pacificamente riconducibile, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla nozione di "nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, lettere d) ed e) del citato d.P.R., avuto riguardo alla significativa incidenza delle opere sull'assetto urbanistico del territorio, riscontrata dai giudici di appello anche alla stregua della documentazione fotografica in atti. In passato, del resto, questa Corte ha, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Palma, Rv. 268847) e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il percorso ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la legittimità del ricorso alla D.I.A. possa ritenersi dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva assentito la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché subordinatamente al rilascio del menzionato atto d'obbligo. In proposito, è appena il caso di rilevare che la legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di doglianza, con il quale le ricorrenti deducono che in ogni caso l'approvazione della D.I.A. in sanatoria avrebbe realizzato sostanzialmente un accertamento di conformità. 5 Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e dai motivi di ricorso, infatti, Manola e Tiziana Di Renzo avevano presentato una D.I.A. in sanatoria secondo la procedura stabilita dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, a norma del quale "la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di inizio attività" consente al responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile di "ottenere la sanatoria dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio", sempre che l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da quella dettata dall'art. 36 dello stesso decreto, a mente del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso (comma 2). Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui deve essere data assoluta continuità, gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili - pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato - ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep. 14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del 19/05/2009, dep. 9/07/2009, Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, dep. 5/03/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep. 20/12/2006, Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni. Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con riferimento all'atto d'obbligo sottoscritto dalla legale rappresentante della società committente, il quale, secondo le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento della fattispecie sanante, che anche con riferimento tale aspetto il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte ritiene che sia illegittimo e non determini l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 5/11/2015, dep. 29/12/2015, Carratu' e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, dep. 9/01/2004, P.M. in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie sanante, anche a prescindere dal fatto che l'intervento edilizio incidesse su un'area parzialmente destinata a tratti di viabilità e che, per tale motivo, le opere realizzate si ponessero in conflitto con la disciplina della relativa macrozona del Piano di edilizia economica popolare; ciò che avrebbe, comunque, impedito, anche sotto tale concorrente profilo, l'accertamento di conformità, richiedendo l'art. 36 del d.P.R. citato la piena conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda.
4. Manifestamente infondato è, infine, il terzo profilo di doglianza, atteso che la necessità, più sopra evidenziata, di un preventivo rilascio del permesso di costruire, in realtà mai conseguito dalla società committente, impone di configurare, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, il reato previsto dall'art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001 e non già quello contemplato dalla lettera a) del medesimo articolo. 5. Sulla base delle considerazioni che precedono i ricorsi devono essere, pertanto, dichiarati inammissibili. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in 2.000,00 euro ciascuno. Le ricorrenti devono essere, altresì, condannate, in solido, alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile, Condominio Abruzzo, che devono essere liquidate in 3.500 euro, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
PER QUESTI MOTIVI
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle Ammende.
Condanna le ricorrenti, in solido, alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile, condominio Abruzzo, che liquida in euro 3.500, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 24/05/2017