Cass. Sez. III n.39475 del 28 agosto 2017 (Ud 19 lug 2017)
Presidente: Amoresano Estensore: Di Nicola Imputato: Cozzolino
Urbanistica.Ristrutturazione ruderi in zona vincolata

Integra i reati  di cui agli  artt.44  del  d.P.R.  n.  380  del  2001 e 181  del  D.Lgs.  n.  42  del  2004  la  ricostruzione, come  nel caso in esame, di un "rudere" senza  il preventivo rilascio del permesso di  costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia  perché trattasi di  intervento di   nuova   costruzione  e   non   di   ristrutturazione  di   un   edificio  preesistente, dovendo  intendersi  per   quest'ultimo  un   organismo  edilizio  dotato  di   mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia  perché non  è applicabile l'art.30 del D.L.  n. 69 del 2013  (conv. in legge  n. 98 del  2013), che, per  assoggettare gli    interventi  di    ripristino  o   di    ricostruzione   di    edifici    o   parti  di    essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della  S.C.I.A. richiede, nelle  zone  vincolate,  l'esistenza dei  connotati  essenziali di  un  edificio (pareti, solai  e  tetto), o,   in  alternativa,  l'accertamento della   preesistente  consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla  verifica dimensionale del  sito  o ad altri  elementi certi  e verificabili, nonché, in ogni  caso, il rispetto della  sagoma  della   precedente struttura


RITENUTO  IN  FATTO

l. Annunziata  Cozzolino ricorre  per   cassazione  impugnando  la  sentenza indicata in  epigrafe con  la quale  la Corte  di  appello di Napoli, in  parziale riforma della  sentenza emessa  dal  tribunale di  Torre  Annunziata, riqualificato il  fatto di cui  al  capo  e)  nella  contravvenzione di  cui  all'articolo 181,  comma  l, decreto legislativo  22   gennaio  2004,  n.   42,    ha   rideterminato  la   pena   inflitta   alla ricorrente in  anni  uno  di  arresto ed  euro  18.000 di  ammenda, confermando nel resto  l'impugnata sentenza.
All'imputata  sono   contestati  il   reato   (capo   a)   previsto  dall'articolo  44, comma   l, lettera c),  del  d.p.r.  6  giugno  2001,  n.  380   perché,  in  qualità  di proprietaria  e  in  assenza   di  permesso  di  costruire,  realizzava rh. seguenti opere   abusive:  un  fabbricato su  due  livelli con  pareti perimetrali in  pietrame, coperto per  una  parte  con  una  volta  con  lucernario centrale e per  altra  parte  ad una   sola   falda   spiovente  con   tegole,  della   seguente consistenza: l)   piano seminterrato di  mq  59  circa   di  superficie;  2)   primo  piano   di  mq  83  circa   di superficie, adibito a civile  abitazione; 3)  locale  deposito-lavanderia sul  lato  ovest del   fabbricato  principale  a  livello,  adiacente al   piano   seminterrato,  con   una scalinata esterna  in  muratura, per  una  superficie pari  a  circa  metri  13,50; 4) locale  caldaia, al di sotto  della  scalinata, di  metri 1,55  di  superficie; 5)  muro di contenimento in pietrame con un bauletto e ringhiera in ferro  di lunghezza pari  a metri 50 circa  ed altezza  variabile da metri quattro a metri cinque  circa; 6)  viale di  ingresso di  lunghezza pari  a 42  m  circa  e larghezza pari  a metri 3 circa,  con pavimentazione  in  calcestruzzo,  con  cancello  in  ferro   a  chiusura  di  esso;   7) cortile a forma   irregolare con  pavimentazione delle  lastre di  pietra, pari  a circa 300  m2   di  superficie, delimitato da  un  muro di  contenimento in  pietrame della lunghezza di  circa  25  m  ed  altezza   2,50  m;  8)  terrazzamenti al lato  sud  ovest  con  sbancamento terreno; nonché  il reato  (capo  b)  previsto dagli  articoli 64-71 d.p.r.  n.  380  del  2001 per  aver  realizzato le  opere  di  cui  al  capo  a)  senza  la preventiva  redazione di un progetto e senza  la direzione di un tecnico abilitato ed iscritto nel  relativo albo  nei  limiti delle  rispettive competenze; ancora, del  reato (capo  c)  previsto dagli  articoli 65-72 d.p.r. n.  380  del  2001 per  aver  iniziato la costruzione delle  opere  di  cui  al  capo  a)  senza  avene   fatta   previa  denuncia al genio  civile; inoltre del reato  (capo  d)  previsto dagli  articoli 93  - 95  d.p.r. n. 380 del  2001 per  avere   eseguito i  lavori indicati al  capo  a)  in  zona  sismica   senza darne avviso scritto al genio  civile, omettendo il contestuale deposito dei progetti presso  l'ufficio sopraindicato ed omettendo, altresì, di attenersi ai criteri tecnico­ descrittivi  per  le  zone  sismiche; infine, del  reato   (capo  e)  previsto dall'articolo 181,  comma  l, del decreto legislativo n. 42 del  2004, così come  riqualificato, per avere   eseguito le  opere   di  cui  al  capo  a)  su  un'area che,  ai  sensi  dell'articolo 136,   per   le  sue  caratteristiche  paesaggistiche, è  stata   dichiarata  di  notevole interesse  pubblico  con   apposito  provvedimento  (decreto  ministeriale  del   22 dicembre 1965),  in  assenza   dell'autorizzazione prescritta  dagli   articoli  146   e seguenti del decreto legislativo n. 42 del 2004.

2.   Per   l'annullamento  dell'impugnata   sentenza  la   ricorrente, tramite il difensore,  solleva   sette   motivi di  gravame, articolati sotto plurimi  profili,  qui enunciati ai  sensi  dell'articolo 173   delle  disposizioni di  attuazione al  codice   di procedura penale  nei limiti strettamente necessari per  la motivazione.
2.1.   Con  il  primo motivo la  ricorrente deduce   l'erronea  applicazione della legge   penale   e  di   altre    norme  giuridiche  delle   quali   si   deve   tenere  conto nell'applicazione della  legge  penale   in  relazione agli  articoli 3, lettera d),  e 10, lettera c),  d.p.r. 380  del  2001 come  novellato dal  cosiddetto "decreto del fare" (decreto legge   21 giugno 2013, n.  69)  nonché   per  violazione dell'articolo 181, comma   l, decreto legislativo 42  del  2004  e per  mancanza, contraddittorietà  ed illogicità della  motivazione su punti decisivi per  il giudizio (articolo 606,  comma l,  lettere b) ed e), del codice  di procedura penale).
Assume  che, avendo realizzato un  intervento edilizio di ristrutturazione, non era  richiesto il  rilascio di  un  preventivo permesso di  costruire, essendo i lavori assoggettati al regime semplificato della  Scia.
L'impugnata  sentenza  sarebbe  inoltre   incorsa    nel   vizio    di   motivazione denunciato  (manifesta  illogicità)  nella   parte  in  cui   non   sono   state    ritenute contrastanti le  dichiarazioni dei  testi  del  pubblico ministero con  riferimento  alla condotta addebitata  alla  ricorrente, segnalandosi per  la  mancanza e  l'illogicità della     motivazione   con     riferimento   alla     valutazione   dei     dati     contenuti nell'elaborato tecnico in atti  ed incorrendo nella  nullità prevista dall'articolo 178, comma    l, lettera  c)  del   codice   di  procedura  penale   derivante  dalla   omessa valutazione delle  risultanze contenute nella  consulenza tecnica, tanto sul  rilievo che   l'individuazione  della    natura  dell'intervento   addebitabile  alla   ricorrente costituisse la premessa indispensabile per  la verifica delle  ipotesi accusatoria.
2.2.  Con il secondo  motivo la ricorrente lamenta l'erronea applicazione della legge  penale  e la mancanza di motivazione in  relazione agli  articoli 65-72 d.p.r.
380  del  2001 (articolo 606,  comma   l, lettere b)  ed e),  del  codice  di  procedura penale),  sul   rilievo  che   il   reato   contestato,  in   quanto  emissivo  proprio,  è configurabile esclusivamente in  capo  al costruttore essendo  imposto dalla  legge,  in via esclusiva a carico  di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia.
Sul  punto, nonostante uno  specifico motivo di gravame, la  Corte  di  appello si è limitata a confermare la decisione di primo grado.
2.3.  Con il terzo  motivo, con  specifico riferimento al reato  di cui al capo  d), la  ricorrente  lamenta  l'erronea  applicazione della   legge   processuale  penale   in relazione   alla  violazione   dell'articolo 178,  comma   l, lettera   c),  del  codice  di procedura   penale  avuto   riguardo   all'articolo 6  Cedu  (articolo  606,  comma   l, lettera   c),  del  codice  di  procedura   penale),   sul  rilievo   che  l'imputata  è  stata ritenuta   responsabile   del  reato  di  cui  all'articolo  181,  comma   l, del  decreto legislativo  n. 42 del 2004 ma era stata  tratta  a giudizio  per rispondere  del reato di   cui   all'articolo   181,   comma    l-bis,  stesso   decreto.    Trattandosi   di   una contestazione  che differiva da quella  descritta   al comma  l dell'articolo 181 ed essendo stato  dichiarato incostituzionale il comma  l-bis dello  stesso articolo  con la  sentenza  della  Consulta  n.  56 del  2016,  la Corte  d'appello  ha erroneamente ritenuto, senza attivare previamente il contraddittorio e disattendendo pertanto il decisum della  Corte di Strasburgo, di poter  automaticamente riqualificare il fatto ritenendo  ricomprese automaticamente le condotte  originariamente sussunte  nel comma  l-bis in quelle  del comma  ldell'articolo  181.  Siffatta  decisione  non può tuttavia essere  condivisa  perché  rappresenta una  novità  emersa  nel  corso  del
dibattimento ed  implicava   che  l'imputato ne  fosse  posto  a  conoscenza,  anche solo  nella  possibile  diversa  qualificazione  del  fatto   originariamente  contestato nonostante  una  simile  evenienza  rientrasse  nel  novero  dei  possibili  accadimenti legati  allo sviluppo  del processo, con la conseguenza  che la sentenza  impugnata sarebbe  incorsa  nel vizio  di  violazione  di legge  denunciato per contrasto con le decisioni  della Corte Edu n. 25575-04 del 11 dicembre  2007, Drassich,  tanto  più che   la   mancata   instaurazione  del   previo   contraddittorio   ha   impedito   alla ricorrente  di  avvalersi   della   condotta   riparatoria  della   rimessione  in  pristino prevista   esclusivamente  per  l'ipotesi   di  cui  all'articolo  181,  comma   l, e  non anche per quella  di cui all'articolo 181,  comma  l-bis (circostanza, quest'ultima, dedotta  in udienza  nel corso della discussione).
2.4.  Con il quarto  motivo  la ricorrente deduce  la mancanza, l'apparenza  e l'illogicità della motivazione con riferimento al rigetto della  richiesta  di procedere alla   rinnovazione dell'istruttoria  dibattimentale  ai  sensi   dell'articolo  603   del codice  di   procedura   penale   contenuta   nei  motivi  di  gravame   (articolo  606, comma   l, lettera   e),  del  codice  di  procedura   penale),   sul  rilievo   che  detta richiesta   è  stata   respinta,  con  motivazione  meramente  apparente,  alla   luce dell'accertamento eseguito  dai verbalizzanti che avrebbe  consentito di pervenire alla precisa ricostruzione dei fatti.
2.5.  Con  il  quinto  motivo   la  ricorrente eccepisce  la  prescrizione dei  reati censurando  l'impugnata sentenza  per erronea  applicazione  della  legge  penale  in relazione  all'articolo 157  del  codice  penale  e per  la mancanza  e l'illogicità  della motivazione con  riferimento  all'applicazione del  principio del  favor   rei  (articolo 606, comma  l, lettere  b) ed e), del codice di procedura  penale).
Sostiene  come spetti  all'accusa  l'onere  della  prova  circa  la cessazione  della permanenza   del  reato  edilizio,  con  la  conseguenza  che  la  prova  della  data  di inizio della decorrenza  del termine prescrittivo rappresenta  un onere dell'accusa.
Nel caso di specie, le opere  in contestazione erano  da ritenersi ultimate sia perché    la    documentazione   fotografica     prodotta     dal    pubblico     ministero rappresentava  un  immobile arredato  ed  in  uso  e  sia  perché  la  difesa  aveva fornito  la prova  testimoniale della  ultimazione delle opere,  essendo  emerso  che nell'agosto  2010  Tommaso  Rea aveva  alloggiato al  piano  terra  del  villino   già completo  e tuttavia tali  circostanze  sarebbero  state  immotivatamente disattese dai giudici  del merito.
2.6.  Con il sesto motivo  la ricorrente prospetta  l'erronea  applicazione  della legge  penale  in  relazione  all'articolo  157  del  codice  penale  e  la  mancanza  di motivazione  con   riferimento  alla   durata    del   periodo   di   sospensione   della prescrizione  conseguente  al rinvio  del processo  (articolo  606,  comma  l, lettere  b) ed e), del codice di procedura  penale).
In  particolare, la  Corte  di  appello  non  avrebbe  adeguatamente motivato  i provvedimenti  con      quali   sono   stati   disposti   i  differimenti  delle   udienze, calcolando  peraltro, da udienza  a udienza,  i termini   di  sospensione  per  i rinvii dovuti   all'adesione   del  difensore   all'astensione dalle  udienze   proclamata dagli organismi  forensi,   laddove   la  sospensione   della  prescrizione   doveva   ritenersi limitata al tempo  resosi necessario per gli adempimenti tecnici  imprescindibili per garantire il  recupero  dell'ordinario svolgersi  del  processo,  ivi  compresi  i  tempi derivanti  dal  cosiddetto   carico  di  lavoro   e  non  potendosi   perciò  calcolare   la sospensione  della prescrizione  per tutta la durata  dell'astensione.
2. 7. Con il settimo  motivo  la ricorrente denuncia  l'erronea  applicazione  della legge  penale  e  la  mancanza  della  motivazione con  riferimento al  trattamento sanzionatorio  e  la  violazione   del  divieto   di  reformatio  in  peius   (articolo  606, comma  l, lettere  b) ed e), del codice di procedura  penale), sul rilievo  che i criteri adoperati  dal tribunale avevano  determinato l'applicazione  della pena nel minimo edittale.  All'esito   della   riqualificazione  del  reato  di  cui  al  capo  e),   invece,   il giudice  di appello  ha applicato  una pena che si discosta notevolmente dai minimi edittali, in  assenza  di  qualsivoglia riferimento  alla  capacità  a  delinquere  della ricorrente e ai parametri di cui alla 133 del codice penale.

CONSIDERATO IN  DIRITTO

l. Sono  fondati, nei  limiti e sulla  base  delle  considerazioni che  seguono, il secondo  e il settimo motivo, mentre il ricorso è infondato nel resto.

2. Il primo motivo non  ha giuridico fondamento.

Con   accertamento  di   fatto,  adeguatamente motivato  e   privo  di   vizi   di manifesta  illogicità  e,  come   tale,   insuscettibile di  essere   sindacato  in  sede  di giudizio di legittimità, i giudici del merito hanno  verificato che l'immobile de quo, acquistato dalla  ricorrente nell'anno 2007  come  rudere di  circa  39  mq,  era  stato pressoché triplicato  come  volume (pag. 3-5  sentenza di  primo grado  e pagg.  6 ss.   sentenza  di   appello),   con   la   conseguenza   che,    in   sostituzione  di   un precedente corpo  di  fabbrica composto di  due  vani,  di  cui  uno  completamente diruto,  era    stato    realizzato   un    fabbricato   su   due    livelli  della    superficie complessiva di circa  140  mq.
La Corte  di  appello, che  ha  considerato tutte le  obiezioni ed  anche  i rilievi tecnici     della     difesa     disattendendoli   motivatamente,    ha    dunque    escluso l'applicabilità al caso di specie  delle  modifiche operate all'articolo 10 TUE dal D.L.
21  giugno 2013, n.  69  convertito in  legge  9  agosto   2013, n.  98  e  dal  D.L  12 settembre 2014, n. 133  convertito in legge  11 novembre 2014, n. 164.
Nel pervenire a tale  conclusione la Corte  territoriale si è attenuta al principio di diritto fissato  da questa  Sezione  secondo il quale  integra i reati  di cui agli  artt. 44  del  d.P.R.  n.  380  del  2001 e 181  del  D.Lgs.  n.  42  del  2004  la  ricostruzione, come  nel caso in esame, di un "rudere" senza  il preventivo rilascio del permesso di  costruire e dell'autorizzazione paesaggistica, sia  perché trattasi di  intervento di   nuova   costruzione  e   non   di   ristrutturazione  di   un   edificio  preesistente, dovendo  intendersi  per   quest'ultimo  un   organismo  edilizio  dotato  di   mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia  perché non  è applicabile l'art. 30 del D.L.  n. 69 del 2013  (conv. in legge  n. 98 del  2013), che, per  assoggettare gli    interventi  di    ripristino  o   di    ricostruzione   di    edifici    o   parti  di    essi, eventualmente crollati o demoliti, al regime semplificato della  S.C.I.A. richiede, nelle  zone  vincolate,  l'esistenza dei  connotati  essenziali di  un  edificio (pareti, solai  e  tetto), o,   in  alternativa,  l'accertamento della   preesistente  consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali, alla  verifica dimensionale del  sito  o ad altri  elementi certi  e verificabili, nonché, in ogni  caso, il rispetto della  sagoma  della   precedente struttura   (Sez.   3,   n.   40342  del   03/06/2014,   Quarta,  Rv. 260552).

La  ricorrente  sussume, del  tutto  impropriamente, l'intervento come   se  lo stesso  avesse   riguardato una  ristrutturazione in  zona  paesaggisticamente  non vincolata  dove  l'art. 30  D.L.  21  giugno  2013,   n.  69  (conv.  in  legge   9  agosto 2013, n.  98), consente di  qualificare come  "ristrutturazione edilizia" l'intervento di  ripristino o  di  ricostruzione di  un  edificio o  di  parte   di  esso,  eventualmente crollato  o  demolito,  anche   in  caso  di   modifica  della   sagoma   dello   stesso,   a condizione però  che  sia  possibile accertarne, in  base  a  riscontri  documentali  o altri  elementi certi   e  verificabili  e  non,   quindi,  ad  apprezzamenti  meramente soggettivi, la  preesistente "consistenza",  intesa   come   il  complesso  di  tutte  le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura  complessiva, etc.); con  la  conseguenza che  la  mancanza anche  di  uno  solo  di  tali  elementi, necessari per  la  dovuta attività  ricognitiva, impedisce di  ritenere sussistente il requisito  che   la  citata  disposizione  richiede  per   escludere,  in   ragione  della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire (Sez.  3, n.  40342 del  03/06/2014, cit., Rv.  260551; Sez.  3,  n.  45147 del  08/10/2015, Marzo, Rv.  265444), ulteriori circostanze comunque del  tutto non  sussistenti  nel
caso di specie.

3. Anche  il terzo  motivo non è fondato.
Come  è  noto, la  dichiarazione di  illegittimità  costituzionale esplica  la  sua efficacia   non    solo    nel    procedimento   in    cui    la    questione   di    legittimità costituzionale è stata  sollevata ma, stante l'efficacia "erga omnes"  della  sentenza  di  accoglimento della  Corte  costituzionale,  anche  in  ogni  altro giudizio in  cui  la
norma  debba   o  possa  essere   assunta  a  canone   di  valutazione di  qualsivoglia fatto  o  rapporto, anche   se  venuto  in  essere   anteriormente  alla  pubblicazione della   suddetta  sentenza sulla   Gazzetta ufficiale,  con  esclusione  dei  cosiddetti rapporti  esauriti nei  quali, peraltro, non  può  tuttavia farsi   rientrare il  caso  di
specie.
La pubblicazione introduce, poi,  una  presunzione legale  di  conoscenza delle pronunce dichiarative  dell'illegittimità  costituzionale di  una  norma  di  legge,   la quale  esplica  i suoi  effetti non  solo  per  il  futuro ma,  a condizioni esatte, anche retroattivamente nei  confronti di  fatti e di  rapporti risalenti al  periodo in  cui  la norma era  vigente.
Ne  consegue  pertanto   l'obbligo  del   giudice  di   non   applicare  la   norma dichiarata  incostituzionale, senza  distinzione fra   norme di  diritto  sostanziale e norme di diritto processuale, d'ufficio ed anche  contro una  richiesta di parte.
Da  ciò  emerge come  sia  del  tutto  decentrata la  doglianza con  la  quale  la ricorrente  invoca   gli  effetti della   sentenza  Drassich  che  non  si  applicherebbe comunque al  caso  di  specie,  avendo la  Corte  di  appello derubricato il  delitto di cui  all'articolo 181,  comma l-bis,  nella  contravvenzione, di  cui  all'articolo 181, comma  l, d.lgs.  22 gennaio  2014,  n.  42  e, in  tal  caso, non  vi era  perciò  alcun obbligo  di  preventiva informazione all'imputato  per  consentirgli  l'esercizio   del diritto al contraddittorio perché  la sentenza  della  Corte  EDU 11 dicembre  2007, nel procedimento Drassich c. Italia, impone  l'obbligo  di informazione all'imputato solo nel caso in cui il titolo  del reato  ravvisato sia più  grave,  per  cui l'imputato venga  a subire  dalla modifica  dell'imputazione conseguenze  sfavorevoli (Sez.   6, n. 24631 del 15/05/2012, Cusumano, Rv. 253109).
Peraltro,  qualora  il  giudice  dell'appello qualifichi, come  nel  caso in  esame, diversamente in  sentenza  il  fatto  contestato, senza che  l'imputato abbia  avuto preventivamente  la   possibilità    di   interloquire  sul   punto,    la   garanzia    del contraddittorio  resta   comunque   assicurata   dalla   possibilità   di   contestare    la diversa  qualificazione mediante  il ricorso  per  cassazione  (Sez.   2, n.  45795  del 13/11/2012, Tirenna, Rv. 254357).

Neppure  rileva  la  circostanza   secondo  la  quale  la  ricorrente non  avrebbe avuto  la possibilità  di avvalersi  della causa estintiva di cui all'art. 181, comma  l­ qiunquies,  d.lgs.   n.  42  del  2004,   posto  che  era  già  intervenuta,  in  data  9 febbraio   2015,   la  sentenza   di  condanna   in  primo   grado   e,  quindi,   era  già maturata  la  preclusione   al  riguardo, essendo  la  causa  estintiva  ancorata  alla rimessione  in  pristino  dello  stato  dei luoghi  intervenuta prima  della  sentenza  di condanna  (in  ogni caso, la situazione  giuridica  presa in esame dalla  disposizione invocata   era   già   definitivamente  esaurita    al   momento    della   pronuncia    di incostituzionalità proprio  per effetto della intervenuta sentenza di condanna).

4. Il quarto  motivo  è inammissibile.
La  giurisprudenza  di  legittimità  è  ferma  nel  ritenere  che  la  rinnovazione dell'istruttoria  nel  giudizio   di  appello,   attesa   la  presunzione   di  completezza dell'istruttoria espletata  in primo  grado,  è un istituto di carattere eccezionale  al quale   può  farsi   ricorso   esclusivamente  allorché   il  giudice   ritenga,  nella  sua discrezionalità, di non poter  decidere  allo  stato  degli  atti  (Sez.  U, n. 12602  del
17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266820).

Nel caso in  esame,  la Corte  di appello  ha congruamente spiegato  come  la richiesta  non  potesse  trovare accoglimento alla  luce dell'accertamento eseguito dai   verbalizzanti  che,   come   ampiamente  riportato  nella   motivazione  della sentenza  impugnata, aveva  consentito di pervenire  alla precisa  ricostruzione dei fatti.
5. Il quinto  ed il  sesto  motivo, essendo  tra  loro  collegati, possono  essere congiuntamente esaminati.

Con essi la ricorrente eccepisce senza fondamento la prescrizione dei reati.

Quanto  alla  data  di cessazione della  permanenza, i giudici del  merito hanno abbondantemente    spiegato    come          lavori   fossero     in    corso     alla     data dell'accertamento  (18   aprile  2011)  o  comunque  non   ultimati, in  quanto  non erano  state  completate le rifiniture interne ed  esterne, circostanze sulle  quali  la ricorrente non  ha neppure preso  una  specifica posizione.
Sul  punto, la  giurisprudenza  di  questa   Sezione   è  assestata  nel  senso  di ritenere che,   in  tema   di   reati   edilizi,  deve   ritenersi "ultimato"  solo  l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti  i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo  che  anche  il  suo  utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e  dalla   presenza   di  persone al  suo  interno, non  è  sufficiente  per ritenere    sussistente    l'ultimazione    dell'immobile    abusivamente    realizzato, coincidente generalmente  con  la  conclusione  dei  lavori di  rifinitura  interni  ed esterni (Sez.  3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
Quanto,   poi,   ai   periodi  di   sospensione  della    prescrizione,  calcolati  in sentenza (pag. 3)  in  anni  uno,  mesi  tre  e giorni dodici, essi appaiono - da  una verifica che il Collegio  ha dovuto effettuare per  effetto della  doglianza sollevata - addirittura sottostimati risultando le seguenti sospensioni:
A) in primo grado, dal  23/03/2012 al 20/12/2012 per  adesione del difensore all'astensione dalle  udienze proclamata dalla  categoria;
dal   11/07/2013 al  27/02/2014  per   adesione  del   difensore  all'astensione dalle udienze proclamata dalla  categoria;
dal  26/09/2014 al 29/01/2015 per   impedimento professionale del  difensore non prontamente comunicato perché  prospettato in udienza;
dal 29/01/2015 al 09/02/2015 per  rinvio richiesto dalla  difesa;

B)  in  grado   di  appello: dal  05/07/2016 al  01/10/2016 per  rinvio  richiesto dalla  difesa, per  un  totale di  anni   uno,   mesi   undici   e  giorni ventitré  di  sospensione, dovendosi considerare  che  il rinvio dell'udienza su  richiesta  del  difensore  che dichiara   di   aderire  all'astensione  collettiva   non   dà   luogo    ad   un   caso   di sospensione per  impedimento e quindi il corso  della  prescrizione rimane sospeso per  tutto il  periodo del  differimento (Sez.  2, n.  20574 del  12/02/2008, Rasano,  Rv.  239890), non  applicandosi, in  tal  caso,  il  limite di  sessanta   giorni previsto dall'art.  159,  comma   primo, n.  3,  cod.   pen.,  con  la  conseguenza  che  il  corso della  prescrizione può  essere  sospeso  per  il tempo, anche  maggiore di  sessanta  giorni,   ritenuto  adeguato  in   relazione  alle   esigenze  organizzative  dell'Ufficio procedente  (Sez.   3,  n.   11671 del  24/02/2015,  Spignoli, Rv.  263052)  e  che, qualora il  giudice, su richiesta del  difensore, accordi un  rinvio della  udienza, pur in   mancanza   delle   condizioni  che   integrano  un   legittimo   impedimento  per concorrente  impegno  professionale del  difensore, il corso   della   prescrizione  è sospeso  per  tutta la  durata del  differimento, discrezionalmente determinato dal giudice  avuto riguardo alle  esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, ai diritti e  alle   facoltà   delle   parti  coinvolte nel   processo   e  ai  principi  costituzionali  di ragionevole durata  del  processo   e  di  efficienza  della   giurisdizione  (Sez.  U,  n. 4909  del 18/12/2014, dep.  2015, Torchio, Rv. 262914).

Ne  deriva   che,  applicandosi per  intero a  tutti i  disposti rinvii il  termine di sospensione  come   in   precedenza  calcolato,   la   prescrizione,  contrariamente all'assunto  della   ricorrente,  non  è  maturata  (mentre  sarebbe maturata  il  10 aprile  2018).

6. E' invece  fondato il secondo  motivo di ricorso.
Sul  punto, occorre   dare  continuità  all'indirizzo secondo   il quale   il  reato  di omessa  denuncia delle  opere  in conglomerato cementizio armato (artt.  65  e 72, d.P.R.  6 giugno 2001, n.  380), in  quanto reato  omissivo proprio,  è configurabile in  capo  al costruttore, essendo  imposto dalla  legge,  in  via  esclusiva a carico  di quest'ultimo, l'obbligo di  denuncia  (Sez.     3,  n.   17539 del  24/03/2010,  Musso,
Rv. 247168).
Da ciò  consegue che  va esclusa  la responsabilità del  committente dell'opera che  tuttavia può  concorrere, in  qualità di "extraneus", nella  contravvenzione di omessa  denuncia delle  opere  in conglomerato cementizio armato (artt.  65  e 72, d.P.R.  6  giugno 2001, n.  380)   perché   l'art. 65  del  testo   unico  sull'edilizia, pur ponendo a carico  del solo  costruttore l'obbligo della  denuncia dell'inizio dei lavori in  cemento armato, non  esclude  che  il committente possa  concorrere nel  reato, circostanza questa  che,  ad  esempio, si realizza allorché la denuncia sia  omessa proprio  su   istigazione  di   chi   ha   ordinato  i   lavori  (Sez.   3,   n.   21775    del 23/03/2011, Ronga, Rv. 250377).

Nel caso  in  esame,  la contestazione non  ipotizza neppure lontanamente un concorso  tra  la committente e il  costruttore  ponendo, sic et  simpliciter, a carico della   prima  l'infrazione,  né   le  sentenze  di   merito  motivano  al   riguardo  su eventuali  attività  ausiliatrici  della   committente,  con   la   conseguenza  che   la sentenza  impugnata va annullata senza  rinvio, in ordine all'imputazione di cui  al capo  c) della  rubrica, per  non  avere  la  ricorrente commesso il  fatto e la relativa pena  (di  mesi uno  di arresto ed euro  1.000 di ammenda) va eliminata.

7. E' fondato anche  il settimo motivo.

La  Corte  di  appello ha  inflitto alla  ricorrente la  pena  finale   di  un  anno  di arresto e 18.000,00 euro  di ammenda a fronte della  pena  di un anno  ed un mese di reclusione irrogata in primo grado.
Per quanto la  pena  detentiva della  reclusione sia,  di  regola, maggiormente afflittiva  della   pena   dell'arresto,  va   considerato  che   il  giudice  d'appello  ha aggiunto a quest'ultima anche  la pena  pecuniaria.
giudice  avuto riguardo alle  esigenze organizzative dell'ufficio giudiziario, ai diritti e  alle   facoltà   delle   parti  coinvolte nel   processo   e  ai  principi  costituzionali  di ragionevole durata  del  processo   e  di  efficienza  della   giurisdizione  (Sez.  U,  n. 4909  del 18/12/2014, dep.  2015, Torchio, Rv. 262914).

Ne  deriva   che,  applicandosi per  intero a  tutti i  disposti rinvii il  termine di sospensione  come   in   precedenza  calcolato,   la   prescrizione,  contrariamente all'assunto  della   ricorrente,  non  è  maturata  (mentre  sarebbe maturata  il  10 aprile  2018).

6. E' invece  fondato il secondo  motivo di ricorso.
Sul  punto, occorre   dare  continuità  all'indirizzo secondo   il quale   il  reato  di omessa  denuncia delle  opere  in conglomerato cementizio armato (artt.  65  e 72, d.P.R.  6 giugno 2001, n.  380), in  quanto reato  omissivo proprio,  è configurabile in  capo  al costruttore, essendo  imposto dalla  legge,  in  via  esclusiva a carico  di quest'ultimo, l'obbligo di  denuncia  (Sez.     3,  n.   17539 del  24/03/2010,  Musso,
Rv. 247168).
Da ciò  consegue che  va esclusa  la responsabilità del  committente dell'opera che  tuttavia può  concorrere, in  qualità di "extraneus", nella  contravvenzione di omessa  denuncia delle  opere  in conglomerato cementizio armato (artt.  65  e 72, d.P.R.  6  giugno 2001, n.  380)   perché   l'art. 65  del  testo   unico  sull'edilizia, pur ponendo a carico  del solo  costruttore l'obbligo della  denuncia dell'inizio dei lavori in  cemento armato, non  esclude  che  il committente possa  concorrere nel  reato, circostanza questa  che,  ad  esempio, si realizza allorché la denuncia sia  omessa proprio  su   istigazione  di   chi   ha   ordinato  i   lavori  (Sez.   3,   n.   21775    del 23/03/2011, Ronga, Rv. 250377).

Nel caso  in  esame,  la contestazione non  ipotizza neppure lontanamente un concorso  tra  la committente e il  costruttore  ponendo, sic et  simpliciter, a carico della   prima  l'infrazione,  né   le  sentenze  di   merito  motivano  al   riguardo  su eventuali  attività  ausiliatrici  della   committente,  con   la   conseguenza  che   la sentenza  impugnata va annullata senza  rinvio, in ordine all'imputazione di cui  al capo  c) della  rubrica, per  non  avere  la  ricorrente commesso il  fatto e la relativa pena  (di  mesi uno  di arresto ed euro  1.000 di ammenda) va eliminata.

7. E' fondato anche  il settimo motivo.

La  Corte  di  appello ha  inflitto alla  ricorrente la  pena  finale   di  un  anno  di arresto e 18.000,00 euro  di ammenda a fronte della  pena  di un anno  ed un mese di reclusione irrogata in primo grado.
Per quanto la  pena  detentiva della  reclusione sia,  di  regola, maggiormente afflittiva  della   pena   dell'arresto,  va   considerato  che   il  giudice  d'appello  ha aggiunto a quest'ultima anche  la pena  pecuniaria.

Sennonché il ragguaglio  stabilito nell'art  135 cod. pen. per le specie di pene vale per qualsiasi  effetto  giuridico.

Conseguentemente,  se  il  giudice  di  appello,  sussistendone   i  presupposti, può legalmente  sostituire  o aggiungere alla pena detentiva, quella  pecuniaria, la misura   di  questa  ultima   deve  essere  contenuta   in  limiti   tali  che,  in  caso  di conversione,     non    venga     superato     il    quantum    della     pena    detentiva originariamente inflitta,  risultando altrimenti  violata,   in  mancanza  di  appello proposto  dal pubblico  ministero  in ordine  alla misura  della pena, la norma  dell'art
597, terzo comma cod. proc. pen., sul divieto  della reformatio in peius.

Infatti, il  giudice  dell'impugnazione, in  assenza  del  gravame   del  pubblico ministero, non può irrogare una pena più grave  per specie e quantità rispetto  a quella   complessiva   irrogata   dal  giudice   di  primo   grado.   Pertanto,   quando   il giudice  di  appello  ha  irrogato   una  pena  congiunta  delle  due  specie  (come  nel caso  in  esame,  arresto   e  ammenda)  al  posto  di  una  pena  di  specie  unica (reclusione),  per  valutare   se  sussiste  violazione   del  divieto   di "reformatio  in peius"  si deve  far  ricorso  al ragguaglio  tra  pene pecuniarie  e detentive ai sensi dell'art.  135  cod.  pen.  (Sez.  3,  n.  37872   del  26/05/2004,  Bombardieri, Rv. 230037).

Procedendo  in  tal  senso,  ne  deriva   che  la  sanzione   inflitta  in  grado  di appello,  pari  ad un anno  di arresto  ed euro  18.000,00 di ammenda, risulta  più grave  di  quella  inflitta  in  prime   cure  dal  tribunale  giacché,  ragguagliando  la sanzione  pecuniaria   di  euro  18.000,00  si  ottengono   72  giorni   di  detenzione. Quella inflitta pertanto con la sentenza  impugnata  è, sia pure  nella  misura  di 42 giorni,  pena illegale  perché in violazione  del divieto  di reformatio in peius  e delle statuizioni di cui all'art. 597, terzo comma, cod. proc. pen.
La  sentenza   impugnata    va   pertanto    annullata   sul   punto   in   ordine   al trattamento  sanzionatorio, con  riferimento al  quale  deve  anche  precisarsi  che l'irrogazione  di   una  sanzione   in  tale   misura,   pari   praticamente  alla   media edittale, richiede  una  specifica  e dettagliata  motivazione   al  riguardo, sicché  il giudice del rinvio  valuterà  anche se la pena base di un anno di arresto, pari quasi alla  metà  della   media  edittale,  possa  essere  giustificata,  tenuto   conto   della funzione  rieducativa della  pena  secondo  quanto  prescritto dall'articolo  27  della Costituzione,  sulla   sola   base   di   una   non   chiarita   "gravità  della    condotta contestata  desumibile  dall'imponenza  dell'intervento"   (pag.   15  della  sentenza impugnata),  visto  che  le  opere  di  notevole   impatto  volumetrico restano   pur sempre   punite,   come   ha  stabilito   la  sentenza   n.   56  del   2016   della   Corte costituzionale, ai sensi dell'art. 181, comma  l-bis, d.lgs.  n. 42 del 2004  mentre la  Corte  di  appello  ha  riqualificato  il  fatto,  di  cui  alla  condotta   contestata, in
Contravvenzione

8. Quanto  al resto, il ricorso  va rigettato.

P.Q.M.

Annulla   senza  rinvio al  sentenza impugnata limitatamente  al  reato  di  cui  al capo  c)  per  non  aver  commesso il  fatto ed  elimina la  pena  per  esso  inflitta  di mesi  uno di arresto ed euro  1.000 di ammenda.
Annulla  la sentenza  impugnata in ordine al trattamento sanzionatorio e rinvia sul punto  ad altra  Sezione  della  Corte  di appello di Napoli.
Rigetta nel resto  il ricorso.

Così deciso  il 19/07/2017