“Stop pesticidi”: ma con quali strumenti normativi?
di Stefano PALMISANO
“I campioni fuorilegge (di alimenti analizzati, ndr) non superano l’1,2% del totale, ma il 46,8% di campioni regolari presentano uno o più residui di pesticidi.”
E' questo uno dei dati più significativi emersi dall'annuale rapporto Stop Pesticidi di Legambiente presentato ieri.
Un dossier, unico nel suo genere, che conferma anche quest'anno che in questo ambito non c'è da stare più di tanto sereni a tavola.
Più che per la quantità dei campioni fuorilegge, per quel 46,8% di esemplari legali palesemente contaminati da sostanze in merito agli effetti delle quali non si sa ancora tutto; ma si sa già abbastanza per essere razionalmente inquieti, per l'ambiente e per la nostra salute, per l'appunto.
L'indagine di Legambiente tratta anche dei profili normativi – e non potrebbe essere diversamente - in particolare nel paragrafo “Pesticidi e illegalità”.
Ma qui emergono consistenti lacune, se non proprio confusione, nell'impostazione del documento.
L'assunto di fondo è quello, enunciato nella parte introduttiva, per cui “i dati presentati descrivono come sia ancora necessario incrementare controlli per arginare illegalità legate al commercio di fitofarmaci contraffatti o contenenti principi attivi aboliti e utilizzati impropriamente, come evidenziato da indagini condotte dalle autorità competenti sul territorio nazionale.”
Orbene, la questione controlli è certamente qualificante, in questo paese in particolare. Ma a monte ve n'è un'altra, che condiziona l'utilità e il senso stesso di quei controlli: l'adeguatezza del quadro normativo, in specie di quello sanzionatorio.
Il testo fondamentale del diritto UE in questa materia è la Direttiva n. 128\2009 sull’utilizzo sostenibile dei pesticidi.
In ambito di tutela, essa si limita ad affermare che “gli Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente direttiva e prendono tutte le misure necessarie per la loro applicazione. Le sanzioni previste sono efficaci, proporzionate e dissuasive.”
E’ evidente l’ampio margine di manovra che quella formulazione lascia ai singoli paesi.
Con risultati che, almeno in alcuni casi, sono stati quelli facilmente prevedibili.
Come in questo paese, per esempio.
Dove l’attuazione della direttiva è stata affidata al decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150.
Qui il legislatore ha fatto una scelta di campo per quanto riguarda proprio l’apparato sanzionatorio: al bando le sanzioni penali! Tutti gli illeciti, e quindi le sanzioni, sono di natura esclusivamente amministrativa (con l’ovvia clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca reato”).
Per esempio, con riferimento ai comportamenti illeciti più diffusi e pregnanti – l’acquisto, l’utilizzo, la detenzione, ma anche la vendita - la sanzione è quella della somma da 5.000 euro a 20.000 euro.
E’ vero che la veneranda legge n. 283\1962 prevede una norma che penalizza “la produzione, il commercio, la vendita” di “fitofarmaci e presidi delle derrate alimentari immagazzinate”; e che la Corte di Cassazione ha confermato poco più di tre anni fa che questa disposizione non è stata abrogata dal D. Lgs. 14 agosto 2012, n. 150.
Ma, secondo un costume penalistico consolidato in questi casi, il reato in questione è una mera contravvenzione e la pena è l'arresto fino ad un anno o l'ammenda da euro 309 a euro 30.987.
Da tutto ciò discende una serie di conseguenze pratiche difficilmente compatibili con sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive”, come richiederebbe la direttiva comunitaria.
Solo per citare le due più significative: 1) le contravvenzioni si prescrivono, ossia si estinguono, al massimo in cinque anni, e non è proprio scontato in questo paese, per dirla in maniera delicata, che in quel tempo un processo penale sia definito con una sentenza irrevocabile; 2) la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda rende possibile l’oblazione del reato, pagando la metà dell’ammenda massima. Il pagamento estingue il reato.
In sintesi, anche contro quello che in questo campo è il fenomeno criminale più inquietante e in ascesa su scala internazionale, ossia il traffico di pesticidi, siamo praticamente all’anno zero della repressione penale.
Con un’ulteriore, poco confortante, precisazione: se in altri paesi d’Europa quel traffico può esser gestito anche da soggetti singoli, o comunque non inquadrati in contesti criminali organizzati, nel belpaese esso è già stato intercettato e “valorizzato” dalle varie mafie, come è stato documentato da alcune inchieste giornalistiche, in particolare quelle del sociologo Omizzolo.
Per chiudere il cerchio, poi, ai fenomeni criminali Doc si aggiunge una vasta gamma di comportamenti illeciti, più o meno capillarmente diffusi, di privati operatori che, per quanto più lievi di quelli su citati, sono tutt'altro che innocui; e per questo meriterebbero comunque da parte dello Stato risposte “efficaci, proporzionate e dissuasive”. Ossia, risposte penali. Che l'attuale normativa, come si illustrava sopra, non è in grado di fornire.
Infine, c'è il Pan (Piano d'azione nazionale) pesticidi.
In teoria, sarebbe uno strumento fondamentale per perseguire il celeberrimo “utilizzo sostenibile dei pesticidi”, come sancito dalla predetta direttiva 128\09.
In realtà, oggi è ormai ridotto a una specie di oggetto misterioso, la cui bozza pubblicata e sottoposta alla consultazione pubblica ormai ben più di un anno fa è scomparsa da tutti i radar.
Come che sia, anche in questo caso serve a poco invocare genericamente che “il nuovo PAN venga adottato in tempi brevi e sia in grado di intervenire in maniera decisiva sulla riduzione del rischio ambientale e sanitario correlato all’impiego di queste sostanze”, come si legge ancora nel rapporto Stop Pesticidi.
Occorre partire dalla consapevole constatazione e dalla conseguente denuncia che - a prescindere dalla sua evaporazione dal dibattito pubblico nonché dalle sedi e procedure istituzionali preposte - la bozza sottoposta dai ministeri competenti alla discussione dei portatori di interessi rispecchiava la stessa impostazione di inadeguatezza del quadro punitivo che è proprio della legislazione su illustrata, portata in questo caso fino a una sorta di allergia allo stesso concetto di sanzione; per non dire di sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, come impone l'UE.
Per concludere, questa situazione di sostanziale vuoto di tutela ricorda molto da vicino quella che esisteva, in generale, in materia di difesa penale dell’ambiente fino al maggio 2015; fino a che, cioè, è stata approvata legge “ecoreati”.
Quella legge è stata ottenuta, dopo più di vent'anni di tentativi a vuoto e di crimini ambientali impuniti, anche grazie a una pressante iniziativa politica dei settori più avanzati della cittadinanza attiva, nella quale Legambiente ha avuto un ruolo fondamentale.
Oggi, c’è un altro disegno di legge che, sotto vari profili, pare ripercorrere il cammino lungo e accidentato che fu della legge del 2015: quello in materia di riforma dei reati agroalimentari.
È all’esame del parlamento ormai da mesi, dopo che il relativo progetto fu consegnato dal magistrato Caselli all’allora ministro Orlando ormai più di cinque anni fa.
E, da ultimo è arrivato il disegno di legge “Terra mia”, del Ministro Costa: una proposta di sostanziale riforma della tutela penale ambientale in alcuni suoi punti nodali.
Sia l'uno che l'altro testo legislativo potrebbero essere ottime occasioni per provare a colmare, almeno in parte – anche grazie a una rinnovata presa di coscienza e di iniziativa dal basso - quel vuoto di tutela nel quale può precipitare una fetta importante della tutela dell’ambiente e della salute pubblica di questo paese; chiudendo, così, il cerchio virtuoso che fu aperto proprio con la legge ecoreati.
O possono essere altre due occasioni perse.