Viva viva i codici a specchio
a cura di Gianfranco AMENDOLA e di Mauro SANNA
VIVA VIVA I CODICI A SPECCHIO
a cura di Gianfranco Amendola e di Mauro Sanna
Nella normativa ambientale capita di tutto e si scrive di tutto. Questo è quasi sempre giustificato dalla pessima qualità della nostra legislazione. Stupisce, però, constatare che, a volte, ciò avviene anche quando la normativa non sembra dare adito a dubbi.
E’ quanto sta avvenendo, di recente, a proposito dei cd. “codici a specchio” utilizzati per la classificazione dei rifiuti.
Ma andiamo con ordine e ricapitoliamo i termini della questione:
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LA NORMATIVA
La Decisione 3 maggio 2000 n. 532 della Comunità Europea –immediatamente e direttamente operativa in tutti gli Stati membri- contiene l’ elenco dei rifiuti costituente il Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER), e nell’allegato alla decisione sono precisate le modalità da seguire per identificare un rifiuto nell'elenco a partire dalla fonte che genera il rifiuto.
Tra i rifiuti elencati sono anche compresi e distinti con un asterisco "*" i rifiuti da classificare come pericolosi ai sensi della direttiva 91/689/CEE relativa ai rifiuti pericolosi.
Ad ogni categoria di rifiuto è associato il codice CER, ma, mentre per molti rifiuti il codice è uno solo, cioè assoluto, e quindi il rifiuto è identificato o con il codice di un rifiuto speciale o con un codice di un rifiuto pericoloso, in altri casi invece il rifiuto non è individuato con un codice assoluto, ma con due codici speculari; quindi a questo rifiuto, a seconda delle sostanze che contiene, può corrispondere una categoria CER pericolosa o una categoria CER non pericolosa.
Per queste categorie di rifiuti la Decisione ha previsto al punto 6 dell’allegato le modalità da seguire per individuare tra i due codici speculari quello che compete effettivamente allo specifico rifiuto prodotto in un determinato ciclo produttivo.
Quanto riportato al punto 6 risulta chiaro; infatti si riduce a prevedere che per i rifiuti a cui competono le classi di pericolo da H3 a H8, H10 e H11, per le quali sono state previste delle concentrazioni limite, si può verificare se le concentrazioni delle sostanze contenute in essi siano superiori o inferiori ai limiti stabiliti e conseguentemente se il rifiuto sia da classificare pericoloso o non pericoloso. Diversamente per i rifiuti a cui competono le classi di pericolo H1, H2, H9, H12, H13 e H14, per le quali non sono previste concentrazioni limite, tali analisi e la relativa comparazione con limiti previsti dalla normativa sui rifiuti non è al momento possibile e quindi le concentrazioni limite da prendere come riferimento saranno quelle previste dalla normativa sulle sostanze pericolose.
Questa prescrizione, evidentemente chiara ed univoca, fin dall’inizio non è stata accettata in Italia, tanto è che il legislatore italiano ha impiegato dodici anni per riportare correttamente nella norma nazionale quanto era previsto dalla Decisione, adottando progressivamente nel tempo norme parziali o errate.
Questo comportamento, iniziato con la Direttiva 9 aprile 2002 del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, che limitava la norma europea e stralciava dalla applicazione della normativa le caratteristiche di pericolo H1, H2, H9, H12, H13 e H14, ha avuto fine solo con il Decreto-legge 25 gennaio 2012, n. 2, quando si è finalmente ripreso pedissequamente quanto stabilito dalla Decisione della Commissione 2000/532/CE del 3 maggio 2000, che –è bene ricordarlo- non aveva e non ha alcuna necessità di recepimento. E, pertanto è sempre e comunque alla stessa che doveva e deve farsi riferimento.
2. I FATTORI DI CONFUSIONE
La prassi, introdotta in passato dai diversi testi normativi italiani, di limitare il campo di applicazione della richiamata decisione comunitaria, mutilando gli obblighi stabiliti dalla stessa ai fini della classificazione dei rifiuti, prosegue però tuttora da parte di coloro – e sono tanti, visti i rilevanti interessi economici connessi- che hanno interesse ad eludere il dettato normativo europeo.
A tal fine, di fronte al chiaro vincolo normativo previsto per la classificazione di un rifiuto, che – come abbiamo visto- può essere basata solo sulla caratterizzazione che dimostri in esso l’assenza di sostanze pericolose, vengono spesso svolte delle considerazioni pretestuose e fuorvianti, finalizzate a dimostrare che di fatto è impossibile verificare con certezza le sostanze che un rifiuto contiene, per cui sarebbe sufficiente la semplice presunzione dell’assenza delle sostanze pericolose.
A tal fine vengono introdotti dei fattori confondenti o, come li chiamano gli anglosassoni, dei confounder tendenti a dimostrare che la norma è di fatto inapplicabile e che quindi non ci si può che limitare ad ipotizzare o, ancor meglio, a presumere che il rifiuto non contenga sostanze pericolose e possa essere classificato solo sulla base di tale ipotesi come non pericoloso.
Esaminiamoli succintamente:
a) La principale argomentazione che viene svolta con l’obiettivo sopra detto parte dall’assunto che è impossibile determinare tutte le sostanze pericolose, perché si stima che quelle che circolano in Europa siano circa 20.000 e solo quelle prese in considerazione dalle direttive comunitarie sono circa 8.000 , e quindi è materialmente impossibile prenderle tutte in considerazione.
Questo è verissimo ed è incontestabile, ma è del tutto irrilevante ai fini della corretta applicazione della normativa che non pretende di ricercare tutte le sostanze pericolose, ma prescrive soltanto che per classificare un rifiuto si proceda alla sua caratterizzazione, cioè ad individuare le sostanze in esso contenute e a verificare se tra queste vi siano o meno sostanze pericolose. La norma prevede perciò soltanto che il rifiuto sia caratterizzato senza che permangano zone d'ombra o addirittura incognite, le quali comportino che l'assenza di sostanze pericolose sia basata solo sul principio di presunzione.
b) Secondo altra argomentazione, un rifiuto ha caratteristiche specifiche precise, è come un prodotto che scaturisce sempre da un processo produttivo per cui, note le materie prime che intervengono in esso, sono conseguentemente note o comunque ipotizzabili le sostanze che possono essere presenti nel rifiuto che deriva da tale processo.
In realtà non si tiene conto che uno degli elementi essenziali che determinano la natura del rifiuto e non lo fanno qualificare come materia prima o prodotto, che hanno sempre caratteristiche specifiche precise, è proprio l’assenza di tale condizione.
Inoltre, occorre considerare che spesso i rifiuti non derivano da un processo produttivo in senso proprio ma da processi di combustione o di trattamento termico, da processi di degradazione e lisciviazione o comunque per alterazione incontrollata di un materiale. In questi casi, le sostanze che li costituiscono sono del tutto ignote e non ipotizzabili. Del resto, negare che le sostanze presenti in un rifiuto si generino da tali fenomeni significherebbe anche escludere la possibile sussistenza della classe di pericolo H15, che è la caratteristica di un rifiuto di poter in qualche modo dare origine, dopo eliminazione, ad una o più sostanze che presentano una delle caratteristiche di pericolo da H1 ad H14 . Tale situazione invece potrebbe presentarsi anche nel caso in cui i rifiuti gestiti non siano di per sé da classificare come pericolosi, non possedendo inizialmente le caratteristiche di pericolo previste dalle classi da H1 ad H14.
Al riguardo, facendo riferimento solo ad alcune operazioni di gestione ed a specifiche categorie di rifiuti, si possono ad esempio ricordare le seguenti situazioni.
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. Nello stoccaggio di particolari tipi di rifiuti, può avvenire che vengano a miscelarsi rifiuti tra loro incompatibili che possono dar luogo a sostanze pericolose, ad esempio esplosive e/o infiammabili.
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Nei trattamenti chimico fisici, miscelando particolari tipi di rifiuti già tra loro incompatibili o con le sostanze impiegate nel trattamento, potrebbero prodursi gas infiammabili e/o esplosivi e/o tossici.
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Dai rifiuti sottoposti a combustione si potrebbero produrre, ad esempio, composti organici clorurati tossici, e questo potrebbe avvenire anche se i rifiuti combusti non sono da classificare come pericolosi.
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. Dai rifiuti abbancati in una discarica, il percolato che si produce potrebbe presentare le caratteristiche di pericolo H15; e questo potrebbe avvenire anche se i rifiuti abbancati non sono da classificare come pericolosi.
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Il digestato prodotto dai rifiuti trattati nell'impianto di digestione anaerobica potrebbe presentare le caratteristiche di pericolo H15, anche se i rifiuti sottoposti a digestione non sono da classificare come pericolosi.
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Come è evidente, per questo tipo di rifiuti non vi è alcun elemento che possa far ipotizzare l’assenza in essi di sostanze pericolose se non si procede ad una loro caratterizzazione.
Ed allora appare chiaro che, in questi casi, i fautori della tesi che, essendo noto il processo sono conseguentemente noti i rifiuti che da esso scaturiscono e le sostanze in essi presenti, per ipotizzare l’assenza di sostanze pericolose sono costretti a ricorrere alla probabilità ed alla presunzione.
Così come quando sostengono che un rifiuto di cui non si conosce la composizione o caratterizzato in modo incompleto sia comunque da considerare non pericoloso.
In realtà l’unica alternativa alla caratterizzazione del rifiuto per conoscere la sua composizione è la sfera di cristallo, ma, con buona pace dei sostenitori delle tesi sopra esposte, questo strumento non è previsto dalla normativa: né europea né italiana.
c) Altri considerano quanto previsto dal punto 6 della Decisione (“Se un rifiuto è identificato come pericoloso mediante riferimento specifico o generico a sostanze pericolose, esso è classificato come pericoloso solo se le sostanze raggiungono determinate concentrazioni…”) non come l’elemento fondamentale della procedura per determinare quale codice pericoloso o non pericoloso sia da applicare ad un rifiuto nel caso che ad esso siano attribuibili ambedue, ma come la definizione di un rifiuto pericoloso sui generis. Introducono perciò un tertium genus di rifiuto pericoloso rappresentato da un rifiuto sub iudice, cioè da un rifiuto pericoloso presunto, di cui si deve dimostrare che presenta caratteristiche di pericolo.
d) Altra argomentazione sostiene che determinate classi di pericolo non possono essere individuate perché per esse non sono previsti limiti per parametri chimici. Senza considerare che oltre ai parametri chimici sono previsti anche parametri microbiologici e che comunque, quando sia estremamente complesso procedere ad una caratterizzazione chimica o microbiologica, sarà possibile verificare la presenza o meno nel rifiuto delle caratteristiche di pericolo procedendo a specifici test, quando essi siano ammissibili.
e) Altri invece, sempre al fine di limitare le classi di pericolo da indagare, proprio come ha fatto in modo errato per molti anni la normativa italiana, continuano a considerare le classi di pericolo H1 , H2, H9, H12, H13, H14 non applicabili perché la normativa sui rifiuti non prevede le concentrazioni limite, non considerando che, come stabilito nella medesima normativa sui rifiuti, in questo caso ci si deve riferire ai limiti previsti per tali sostanze dalla normativa sulle sostanze pericolose.
f) Alcuni infine, per risolvere radicalmente l’obbligo per il produttore o gestore di rifiuti di verificare se in un rifiuto vi siano o meno sostanze pericolose, rinviano l'adempimento all'organo di controllo, come se la corretta classificazione di un rifiuto non fosse condizione pregiudiziale alla sua gestione (facente capo al detentore dello stesso) e non dovesse essere certa ed univoca (e non invece incompleta e probabilistica).
3. CONCLUSIONI
Appare chiara, a questo punto, la strumentalità di tutte le argomentazioni addotte con il chiaro intento di favorire, per i rifiuti oggetto di voci a specchio, una presunzione di non pericolosità, senza un supporto analitico adeguato. Basti ricordare che di tutte queste fantasie italiche non c'è traccia nella letteratura europea extra italiana, dove invece ci si limita a dire, in relazione ai codici speculari, che è necessario procedere alla identificazione della composizione del rifiuto.
Pertanto, se l’attribuzione di un codice CER deve avvenire con dati di prova certi ed univoci, sarà necessario indagare in modo completo sulla presenza o la concentrazione di sostanze pericolose e sulle caratteristiche di pericolo che un rifiuto presenta.
Senza alcun supporto analitico o quando esso è insufficiente dunque, la scelta del CER viene a fondarsi su presupposti arbitrari del tutto estranei alla normativa: il rifiuto è considerato solo presuntivamente non pericoloso, la prova concreta di ciò non viene addotta o non è realizzata in modo esaustivo o viene rinviata ad altri soggetti.
In questo modo la procedura prevista dalla Decisione 2000/532/Ce non solo viene disattesa, ma di fatto viene ad essere completamente annullata.
In altri termini, per la individuazione del codice del rifiuto la Decisione richiede che il detentore del rifiuto dimostri in concreto se, tra i due codici cosiddetti speculari assegnati al rifiuto dal Catalogo Europeo, il codice che compete è quello del rifiuto pericoloso o quello del rifiuto non pericoloso. E per fare questo il detentore deve, in primo luogo procedere alla caratterizzazione del rifiuto, che è il presupposto per verificare se esso contiene sostanze pericolose e in quale misura, tenendo bene a mente che caratterizzare un rifiuto non vuol dire semplicemente comparare le sostanze che sono presenti in esso con quelle standard che il laboratorio incaricato dell'analisi ha a disposizione , ma vuol dire procedere alla ricerca chimica sistematica delle sostanze organiche ed inorganiche contenute nel rifiuto ed al loro riconoscimento.
Se questo non viene fatto, di certo il rifiuto non può essere classificato come non pericoloso.
E allora non resta che classificarlo come pericoloso perchè, a questo punto, solo questa conclusione è coerente con i principi relativi alla tutela dell'ambiente e della salute. In primo luogo con il principio di precauzione che, come insegna la giurisprudenza della Corte europea, è quello cui l'interprete deve sempre rifarsi in caso di dubbio.
Non a caso, a proposito di una problematica strumentale affine a quella in esame -relativa alla nozione di rifiuto- la Corte europea ha sancito più volte con chiarezza che <<l’ambito di applicazione della nozione di rifiuto dipende dal significato del verbo «disfarsi». Esso deve essere interpretato alla luce della finalità della direttiva 75/442, che, ai sensi del suo terzo ‘considerando’, è la tutela della salute umana e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti, ma anche alla luce dell’art. 174, n. 2, CE, secondo il quale la politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed è fondata in particolare sui principi della precauzione e dell’azione preventiva ...... Ne consegue che la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo>>1.
Insomma, se presunzione deve esserci, essa non può che essere esattamente opposta a quanto qualcuno oggi vuole sostenere.
Siamo ben consapevoli che non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire. E, quindi, siamo certi che anche questa diatriba sui codici a specchio continuerà a tenere banco ancora a lungo, anche perchè, come abbiamo visto, sono stati introdotti notevoli elementi di disturbo che, a prima vista, possono sembrare consistenti.
Purtroppo la Suprema Corte non ha mai affrontato direttamente questa problematica2. Ma è di certo significativo che l'unica sentenza (a quanto ci consta) edita in proposito, dopo due gradi di giudizio, abbia annullato una sentenza di assoluzione basata sulla motivazione che alcuni rifiuti erano stati ritenuti pericolosi <<nonostante la fattispecie ascritta richiedesse necessariamente il previo accertamento della natura dei rifiuti smaltiti…ed in particolare la loro natura di rifiuti pericolosi>>. Ed ha, invece, così argomentato: <<L’entrata in vigore del nuovo Catalogo Europeo dei Rifiuti di cui alla decisione 2001/118/CE, a far tempo dall’1 gennaio 2002, ha solo in parte modificato il quadro normativo precedente. In proposito, deve infatti ritenersi ... che, mentre per la gran parte dei rifiuti elencati la loro classificazione come “pericolosi” continua a discendere, tout court, dall’origine degli stessi -vale a dire, dal ciclo produttivo da cui scaturiscono- per un numero limitato di essi, in quanto contemplati in “voci speculari” o “voci specchio” -a significare la loro previsione sia nel novero dei rifiuti pericolosi, che di quelli non pericolosi- la loro classificazione discende dal superamento o meno della concentrazione limite delle sostanze pericolose in essi presenti. Fermo restando -e la precisazione non è di poco conto- che, in considerazione del fatto che “la classificazione di un rifiuto identificato da una <<voce a specchio>> e la conseguente attribuzione del codice sono effettuate dal produttore/detentore del rifiuto” -come previsto da apposita direttiva del Ministero dell’Ambiente, conformemente a quanto statuito dalla più volte citata decisione della Commissione C.E. 2001/118/CE- spetta a costui l’onere di analizzare il rifiuto in funzione dell’attribuzione del corretto codice, con l’ulteriore, necessitato corollario che solo in presenza di analisi certe e complete, che identifichino tutte le componenti del rifiuto e le relative quantità, senza che ne residuino di non individuate, il rifiuto stesso potrà entrare nella voce a specchio, residuale, non pericolosa” 3.
1 CGCE (seconda sezione), 11 novembre 2004, Niselli
2 Da ultimo, cfr. Cass. pen., sez. 3, 22 gennaio 2013, n. 10937
3 C.A. Lecce, 21 maggio 2007, n. 830, Rando in www.lexambiente.com