La nozione di rifiuto al vaglio della Corte costituzionale
di
Vincenzo PAONE
A distanza di qualche mese dalla sentenza 13 maggio 2005, n. 17836 [1] che aveva già ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 14 l. 178/02 (anche se l’aveva ritenuta in concreto irrilevante), la Corte suprema, con la sentenza n. 1414/06, torna sull’argomento e questa volta solleva d’ufficio l’incidente di costituzionalità eccependo che la citata norma violerebbe gli artt. 11 e 117 Cost. in quanto, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui di produzione che siano riutilizzati in qualsiasi ciclo produttivo, contrasta con la nozione di rifiuto stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442.
La Corte infatti sostiene che “l'art. 14 ha introdotto una doppia deroga alla definizione comunitaria di rifiuto, sia laddove ha identificato l'attività di "disfarsi" della sostanza con quella di smaltimento o di recupero della medesima (escludendo così l'attività di abbandono), sia laddove ha escluso la volontà o l'obbligo di "disfarsi" di residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per l'ambiente. In tal modo ha esonerato dal controllo amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attività con cui il detentore si disfa di residui di produzione o di consumo, creando pericolo per l'ambiente.
Con ciò il legislatore italiano è venuto meno ai suoi obblighi di leale cooperazione di cui all'art. 10 (ex 5) del Trattato CE, pregiudicando gli obiettivi comunitari di salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente e di protezione della salute umana di cui all'art. 174 (ex 130 R) dello stesso Trattato”.
Non possiamo che apprezzare l’iniziativa della Cassazione [2] che si inserisce in una materia in cui il principio della certezza del diritto è particolarmente in crisi.
Infatti, come è noto, dopo la sentenza della Corte di giustizia 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli, parte della dottrina ha sostenuto la tesi per cui si dovrebbe disapplicare la normativa nazionale, mentre altra dottrina ha escluso che ciò sia legittimo.
Anche la giurisprudenza si è divisa sulla questione come illustra (v. par. 7.1) la sentenza che si riporta che si interroga su quale strumento giuridico sia esperibile per rimediare al vulnus che l'art. 14 ha recato al diritto comunitario.
Scrivono al riguardo i Giudici che “la sentenza impugnata e alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessità della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilità del diritto comunitario (Sez. III, n. 2125 del 17.1.2003, Ferretti, rv. 223291; Sez. III, n. 14762 del 9.4.2002, Amadori, rv. 221573; Sez. III, n. 17656 del 15.4.2003, Gonzales e altro, rv. 224716). Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l’art. 14 è vincolante per il giudice italiano giacché la direttiva comunitaria sui rifiuti non è autoapplicativa (selfexecuting) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. III, n. 4052 del 29.1.2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. III, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, rv. 223604; Sez. III, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. III, n. 13114 del 24.3.2003, Mortellaro, rv. 224721; Sez. III, n. 32235 del 31.7.2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. III, n. 38567 del 19.10.2003, De Fronzo, rv. 226574)”.
La decisione n. 1414 ha il merito di aver spiegato in modo chiaro i termini del problema concludendo nel senso che “l'unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile è, quindi, il ricorso al giudice delle leggi…Nel caso di specie, quindi, va sollevata d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 D.L. 8.7.2002 n. 138, convertito in legge 8.8.2002 n. 178, perché in contrasto:
a)
con l'art. 11 Cost., laddove questo stabilisce che lo Stato italiano deve
osservare la limitazione di sovranità derivante dalla sua partecipazione a
ordinamenti internazionali, quale quello della Comunità europea;
b)
nonché, ancor più esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo
primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potestà legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario”.
La rilevanza della questione
La decisione affronta poi in modo altrettanto
convincente lo spinoso capitolo della rilevanza della questione
nel giudizio a quo.
La Cassazione pone in evidenza che il processo non possa essere definito prescindendo dall'applicabilità del denunciato art. 14 e quindi dalla risoluzione della relativa eccezione di illegittimità costituzionale: se la norma resistesse al vaglio di costituzionalità, infatti, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; se invece la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi inapplicabile al caso di specie, al giudice a quo si aprirebbe la duplice possibilità di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione (1'art. 14) successivamente caducata dall'ordinamento.
Però in entrambi in casi, osserva la Corte, la
sentenza di accoglimento della Corte costituzionale avrebbe un effetto in
malam partem e tale circostanza solleva il problema
del sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore come
indubbiamente appare l'art. 14 “giacché essa si configura come disposizione
extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui agli artt. 6 e 51
d.leg. 22/97 che,
"restringendo" l'ampiezza dell'oggetto materiale del reato (i
rifiuti), finisce per derogare o abrogare parzialmente, ovvero modificare in
senso favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice”.
Dato che l'accoglimento della questione di legittimità di una norma penale più
favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio di irretroattività di cui all'art. 25, comma
2, Cost., si ritiene comunemente che tali eccezioni siano
"tipicamente" irrilevanti.
La Corte però replica osservando in primo luogo che il fatto
contestato è stato commesso sotto il vigore della norma penale conforme al
diritto comunitario (vale a dire prima dell'entrata in vigore dell'art. 14) e
pertanto, anche se la Corte
costituzionale dovesse dichiarare illegittima la norma più favorevole, non si
violerebbe il principio di irretroattività posto che l'art. 51 era entrato in vigore prima del fatto
contestato.
In secondo luogo, la Cassazione opina che il problema potrebbe dirsi risolto in base alla sentenza 148/1983 della Corte costituzionale che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilità delle questioni di illegittimità costituzionale sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione; b) avrebbe comunque un "effetto di sistema" la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E ciò perché, senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalità, "a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle qualì la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".
D’altra parte, conclude la sentenza in esame, la Corte costituzionale ha ripetutamente censurato l’esercizio della potestà legislativa delle regioni svolta in contrasto con la legge statale in tema di rifiuti (sono state, infatti, annullate molteplici norme regionali che, ad esempio, consentivano lo stoccaggio provvisorio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione o con autorizzazioni tacite o generiche) e nessuno ha mai dubitato della legittimità di simili decisioni perchè la norma penale incriminatrice – ridotta nella sua sfera di applicazione dalla disposizione regionale – preesisteva al fatto storico e quindi l’annullamento della seconda non poteva ledere il principio di irretroattività.
Scenari futuri
Se nel merito è giustificato un certo ottimismo
sull’esito dello scrutinio di costituzionalità, va invece osservato che un
problema preliminare si presenterà alla Corte costituzionale ed è quello del
diritto sopravvenuto.
Infatti, due sono le novità in materia che ci interessano: da una
parte, l’art. 264, lett. l), d.leg. 3 aprile 2006 n. 152, Norme in materia
ambientale, ha abrogato una serie
di disposizioni vigenti in materia, tra cui anche l’art. 14 l. 178/02;
dall’altra parte, l’art. 183, lett. n), cit. decr., detta la definizione di
“sottoprodotto” [3]
che praticamente sostituisce lo stesso art. 14.
E’ perciò presumibile che la Corte restituirà gli atti alla Corte di Cassazione per un riesame della rilevanza della sollevata questione così come già avvenuto con l’ordinanza n. 288 del 3 luglio 2006 che ha, per l’appunto, ordinato la restituzione degli atti al Tribunale di Terni, al Tribunale di Venezia e al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Asti che, con ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 228, 248 e 546 del 2005 e 47 del 2006, avevano promosso il giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14 del decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138 e dell'art. 1, commi 25, 26, 27, 28 e 29, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 [4].
Ovviamente, nulla impedirà ai giudici a quibus di sollevare nuovamente la questione in relazione al nuovo quadro normativo, ma, come appare evidente, si allungheranno i tempi perchè si faccia chiarezza sulla problematica del riutilizzo dei residui e dei rifiuti.