Cass. Sez. III n. 51576 del 15 novembre 2018 (UP 18 giu 2018)
Pres. Cavallo Est. Ramacci Ric. Fenaroli
Rifiuti.Responsabilità del sindaco
La distinzione operata dall'art. 107 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d'Appello di Brescia, con sentenza del 26 gennaio 2016 ha parzialmente riformato, concedendo i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel casellario, la decisione con la quale, in data 7 aprile 2014, il Tribunale di Bergamo aveva affermato la responsabilità penale di Luigi FENAROLI in ordine al reato di cui all'articolo 256, comma 1, lett. a) e b) d.lgs. 152/2006, perché, quale sindaco del comune di Roncola, gestendo un centro di raccolta rifiuti differenziati in modo difforme da quanto prescritto dal d. m. 8 aprile 2008 (modificato dal Decreto Ministeriale 13 maggio 2009) ometteva di predisporre una pavimentazione di calcestruzzo per l'impermeabilizzazione del fondo, una copertura per i rifiuti pericolosi, contenitori in tenuta stagna, cartelli ed etichette per distinguere le diverse tipologie di rifiuti, sistemi per garantire la separazione dei rifiuti fino al conferimento all'impianto di smaltimento, nonché sistemi antincendio, effettuando, di fatto, in mancanza della prescritta autorizzazione, lo stoccaggio di rifiuti speciali pericolosi (quali batterie, frigoriferi, bombole di gas, motoveicoli fuori uso) e non pericolosi (quali plastica, metallo, cartone, materassi, cucine, pneumatici fuori uso). Fatti accertati in Roncola, dal 13 novembre 2009 al 28 settembre 2011.
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale, violando l'articolo 107 d.lgs. 267/2000, non avrebbe considerato la separazione delle funzioni tra sindaco, quale organo politico e dirigenza, quale organo tecnico amministrativo.
Osserva, a tale proposito, che il sindaco è ordinariamente sprovvisto delle competenze tecniche giuridiche necessarie a gestire i complessi procedimenti amministrativi che connotano l'attività dell'ente locale e, dunque, per poter correttamente ed efficacemente svolgere il suo mandato necessita del supporto dell'apparato tecnico burocratico, al quale è demandata anche l'attività cosiddetta di ordinaria amministrazione.
Aggiunge che tale assetto istituzionale riguarderebbe anche l'attività di gestione di rifiuti e l'attività di gestione dei centri di raccolta dei rifiuti sarebbe cosa diversa dalla realizzazione di detti impianti. La prima attività rientrerebbe sicuramente nella competenza funzionale dei dirigenti, mentre la seconda, in quanto attinente a scelte politico-amministrative, è di competenza del sindaco.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce l'erronea applicazione dell'articolo 4 della legge 28 aprile 2014 n. 67, ponendo in dubbio la legittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non prevede l'applicabilità della messa alla prova anche ai processi, pendenti alla data di entrata in vigore della nuova legge, nei quali sia già stato aperto il dibattimento e ciò per contrasto con gli articoli 27, comma 3 della Costituzione. Lamenta, a tale proposito, che il giudice dell'appello avrebbe illegittimamente dichiarato inammissibile l'istanza di sospensione del processo con messa alla prova.
4. Con un terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che la Corte di appello avrebbe illegittimamente negato l’ammissione all'oblazione ai sensi dell'articolo 162-bis cod. pen. richiesta previa assoluzione dell'imputato dal reato di cui all'articolo 256 d.lgs. 152/2006, comma 1, lettera b), assoluzione giustificata dal fatto che non vi sarebbe stata prova della pericolosità di parte dei rifiuti rinvenuti nel centro di raccolta.
Insiste pertanto per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile perché basato su motivi manifestamente infondati.
2. Va in primo luogo rilevato che, come si desume dalla imputazione e dal contenuto della decisione impugnata, i fatti per cui è processo riguardano la gestione di un’area adibita alla raccolta di rifiuti che non può essere qualificata come centro di raccolta in senso proprio.
Emerge infatti già dall’imputazione che detta area non era conforme alle disposizioni emanate per la corretta gestione di tali centri.
Come si è avuto già modo di osservare (Sez. 3, n. 1690 del 11/12/2012 (dep. 2013), Pellegrino, Rv. 254413, cui si rinvia anche per la ricostruzione della disciplina di settore e per i richiami ai precedenti) va escluso che, al di fuori dell'ipotesi contemplata dal legislatore, la predisposizione di aree attrezzate per il conferimento di rifiuti astrattamente riconducibili ad un generico concetto di «ecopiazzola» o «isola ecologica» possa ritenersi sottratta alla disciplina generale sui rifiuti, poiché l'intervento del legislatore ha ormai definitivamente delimitato tale nozione prevedendo, peraltro, un regime autorizzatorio e gestionale che consente il conferimento ai centri di raccolta di un'ampia gamma di rifiuti in maniera controllata. Si è quindi stabilito che, in tutti i casi in cui non vi sia corrispondenza con quanto indicato dal legislatore, deve procedersi ad una valutazione dell'attività posta in essere secondo i principi generali in materia di rifiuti.
Dunque il riferimento ad una attività di gestione illecita di rifiuti da parte dei giudici del merito appare del tutto corretta.
3. Va anche ricordato come questa Corte abbia già avuto modo di prendere in considerazione la posizione del sindaco rispetto all’attività di gestione di rifiuti con riferimento proprio all’art. 107 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 «Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali», che il ricorrente assume violato nel primo motivo di ricorso ed il quale stabilisce, al comma 1, che ai dirigenti degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Richiamando i contenuti di precedenti pronunce, si è a tale proposito affermato che sebbene la disposizione in esame distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico – operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l'integrità dell'ambiente (Sez. 3, n. 37544 del 27/6/2013, Fasulo, Rv. 256638. V. anche, in tema di prevenzione infortuni, Sez. 4, n. 30557 del 7/6/2016, P.C. e altri in proc. Carfi' e altri, Rv. 267688).
Tale principio, che il Collegio condivide, va qui ribadito e ritenuto applicabile anche alla fattispecie in esame.
4. Invero, non soltanto non viene individuato, in modo specifico, in ricorso, il dirigente al quale avrebbe dovuto essere attribuita, secondo la prospettazione difensiva, la responsabilità della gestione dell’area destinata a ricevere i rifiuti (che avrebbe peraltro richiesto anche la effettiva sussistenza dei necessari presupposti degli autonomi poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo), ma risulta anche accertato in fatto, dai giudici del merito, la piena consapevolezza, da parte del sindaco, della reale situazione e, ciò nonostante, del volontario mantenimento in funzione dell’area di raccolta fino alla emissione di una ordinanza con la quale se ne disponeva la chiusura dopo l’intervento del Corpo Forestale.
Rilevano infatti i giudici dell’appello che l’imputato aveva assunto la carica di sindaco nel 2004, mantenendola per due mandati, che si era preoccupato, nel 2009, di reperire fondi per coprire parte degli oneri economici necessari per la realizzazione di un centro di raccolta a norma di legge e, una volta ottenuti, con delibera di giunta del 2010, era stato approvato il relativo progetto, con variante al PGT approvata dal consiglio comunale individuando un’area da destinare a piattaforma ecologica.
Tale evenienza, osserva del tutto correttamente la Corte di appello, dimostra non soltanto la perfetta cognizione, da parte del sindaco, delle condizioni in cui veniva gestita la raccolta dei rifiuti nell’area poi oggetto di controllo da parte della polizia giudiziaria e la volontà di consentire la prosecuzione di tale attività, ma anche una diretta ingerenza nello svolgimento dell’attività medesima e la conoscenza delle disposizioni che regolano la gestione di rifiuti.
Conseguentemente, l’affermazione di responsabilità dell’imputato, confermata dalla sentenza impugnata, appare del tutto immune da censure.
5. Manifestamente infondato risulta il secondo motivo di ricorso e la questione di legittimità costituzionale prospettata.
Il ricorrente ha dato atto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità e dei contenuti della sentenza n. 240/2015 della Corte costituzionale, la quale ha stabilito: “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 464-bis, comma 2, del cod. proc. pen., impugnato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui, in assenza di una disciplina transitoria, non prevede l'ammissione all'istituto della sospensione del procedimento penale con messa alla prova - introdotto dalla legge n. 67/2014 - ai processi pendenti in primo grado, nei quali la dichiarazione di apertura del dibattimento sia stata effettuata prima dell'entrata in vigore della nuova norma. L'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova pur avendo effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, è connotato comunque da un'intrinseca dimensione processuale e in ragion di ciò si giustifica la scelta legislativa di parificare la disciplina del termine per la richiesta, senza distinguere tra processi in corso e processi nuovi. Il legislatore, infatti, gode di ampia discrezionalità nello stabilire la disciplina di nuovi istituti processuali, a condizione che ciò non sia manifestamente irragionevole. La disposizione impugnata, inoltre, attesa la sua prospettiva processuale, è regolata dal principio tempus regit actum, e non già dal principio di retroattività della lex mitior, il quale, al contrario, riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena. Sono prive di fondamento, infine, le asserite violazioni del diritto di difesa e del giusto processo, giacché sollevate nell'erroneo presupposto che nei processi in corso al momento dell'entrata in vigore della norma censurata dovrebbe riconoscersi all'imputato la facoltà di scegliere il nuovo procedimento speciale, del quale, invece, è stata legittimamente esclusa l'applicabilità da parte del legislatore”.
Ciò nonostante, rileva ulteriori profili di illegittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. che risultano, però, infondati alla luce della ulteriore pronuncia del giudice delle leggi, il quale, con sentenza n. 81 del 27 aprile 2018 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen., sollevate proprio in riferimento agli artt. 3, 111, sesto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione e non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., sollevate, in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost.
6. Quanto al terzo motivo di ricorso, rileva il Collegio come, anche in questo caso, la Corte di appello abbia correttamente considerato come pericolosi parte dei rifiuti rinvenuti sull’area all’atto del controllo, segnatamente batterie, frigoriferi, bombole di gas, motoveicoli fuori uso, dando conto del fatto che non risultava in alcun modo dimostrato in giudizio che detti rifiuti fossero stati sottoposti a specifici trattamenti finalizzati ad eliminarne la condizione di pericolosità i quali, come ricordato dalla giurisprudenza di questa Corte richiamata anche in sentenza, richiedono operazioni alquanto complesse da effettuarsi con particolari modalità ed apposite apparecchiature.
La pena congiunta correttamente applicata nel giudizio di merito impediva, pertanto, di poter accedere all’oblazione di cui all’art. 162-bis cod. pen.
7. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in data 18/6/2018