RADIO VATICANA, ELETTROSMOG E CASSAZIONE: UNA SENTENZA MOLTO DISCUTIBILE
a cura di Gianfranco Amendola
a cura di Gianfranco Amendola
La sentenza della Cassazione relativa a radio Vaticana (Cass. Pen., sez. 3, ud. 13 maggio 2008, n. 36845) merita ben più di un frettoloso commento a caldo come questo, da contenere in poche righe. Ma almeno iniziamo a discuterne, con riserva di approfondire al più presto tutta la problematica, con i relativi richiami di dottrina e giurisprudenza.
La sentenza, infatti, se pure accoglie formalmente la tesi, già praticamente pacifica in giurisprudenza (un solo precedente contrario), che l’art. 674 c.p., prima parte, è applicabile anche a fatti di inquinamento elettromagnetico, va, in realtà ben oltre questo problema (che era l’unico trattato nella sentenza di secondo grado ed oggetto del ricorso in Cassazione) e svuota di operatività, rispetto alla lotta agli inquinamenti, l’art. 674 c.p., sovvertendo completamente la giurisprudenza consolidata in proposito, proprio e soprattutto dalla terza sezione della Cassazione.
Ma andiamo con ordine. E’ noto che dal 2000 nell’ambito della terza sezione esiste un contrasto circa il significato da attribuire all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge” contenuto nella seconda parte dell’art. 674 c.p. (emissioni di gas, vapori o fumi), in quanto da un lato (orientamento più antico, ma, a volte, seguito ancora oggi) si ritiene che il reato possa sussistere anche in presenza di attività autorizzata e conforme alle prescrizioni di settore, e dall’altro (orientamento oggi nettamente maggioritario), invece, si ritiene il contrario.
Trattasi, come si è detto, di problema relativo alla seconda parte dell’art. 674 c.p., e, quindi, non rilevante rispetto al caso in esame (relativo al “getto” della prima parte), ma è proprio questa la prospettiva nuova su cui si basa la sentenza in esame. Essa, infatti, in nome della “razionalità del sistema” o, in subordine, della analogia in bonam partem, afferma che l’art. 674, nonostante vi sia un chiarissimo “ovvero” che lo divide in due parti nettamente differenziate come fattispecie e nonostante la prima parte abbia anche dei limiti spaziali non presenti nella seconda, va inteso come unica ipotesi di reato, ove la seconda parte è una specificazione della prima. E pertanto la limitazione inserita solo nella seconda parte (“nei casi non consentiti dalla legge”), che va interpretata in senso conforme alla seconda tesi sopra citata, deve valere anche per la prima parte. In tal modo, tutte le fattispecie previste dall’art. 674 c.p. (prima e seconda parte) rientrerebbero nell’ambito di una unica ipotesi di reato, che non sarebbe configurabile nel caso in cui getto o emissioni provengano da attività regolarmente autorizzata o da una attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali e siano contenuti nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che li riguardano, il cui rispetto implica una presunzione assoluta di legittimità del comportamento. Quindi, per la configurazione del reato, vi è la necessità che “qualora si tratti di attività considerata dal legislatore socialmente utile e che per tale motivo sia prevista e disciplinata, l’emissione avvenga in violazione delle norme o prescrizioni di settore che regolano la specifica attività”.
Vi sarebbe, quindi, -ed è questo, a mio sommesso avviso, l’aspetto più preoccupante- una totale ed obbligata soggezione, nel campo delle attività inquinanti, del giudice penale (e della legge penale) rispetto all’autorità amministrativa (ed alle norme di settore), anche se fosse provata la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico protetto da una norma penale. Perché, a questo punto, sempre in nome della razionalità del sistema e della analogia in bonam partem, sembra che si possa andare ben oltre l’art. 674 c. p. ed applicare questo principio a qualsiasi reato, incluso l’omicidio o il disastro. Insomma, una ancora incerta interpretazione relativa ad una limitata fattispecie penale (la seconda parte dell’art. 674 c.p.) diventa, con questa sentenza, principio generale, valido per qualsiasi reato commesso nell’ambito di una “attività socialmente utile”.
Il che significa azzerare di colpo tutta la recentissima e coraggiosa giurisprudenza, anche della terza sezione, nei confronti di colossi dell’industria chimica responsabili della morte di migliaia di lavoratori, la cui giustificazione era stata proprio quella dell’essere regolarmente autorizzati e nell’aver rispettato le limitate prescrizioni dell’epoca, nonostante vi fossero già, sempre all’epoca, fondatissimi elementi per ritenere la nocività delle lavorazioni. Con buona pace del principio di precauzione, e del diritto alla salute costituzionalmente garantito, che, evidentemente, deve cedere rispetto alle attività economiche o produttive (“socialmente utili”).
Sia chiaro, non c’era bisogno che la Cassazione ci dicesse con questa sentenza che l’interpretazione del giudice deve sempre tener conto della “razionalità del sistema”, per cui occorre essere particolarmente cauti tutte le volte che si valuti una fattispecie di reato nell’ambito di attività autorizzata e rispettosa della normativa di settore. E’ ovvio che sempre il superamento dei limiti di legge costituisce un elemento oggettivo certamente da considerare, al fine di valutare, a livello probatorio, l’attitudine nociva delle emissioni necessaria per l’integrazione del reato. Tanto più nel settore dell’inquinamento elettromagnetico, dove mancano conclusioni certe, a livello scientifico, circa la nocività delle esposizioni. Ed è altrettanto pacifico che il superamento o meno dei limiti deve essere valutato anche e soprattutto nell’ambito dell’indagine doverosa sull’elemento soggettivo da fare caso per caso.
Ma non è questo che dice la Cassazione, la quale, invece, afferma un principio assoluto e rigido: solo se l’attività non è autorizzata e non rispetta i limiti, il reato è ipotizzabile. Mentre non lo è neppure se, nel concreto, a prescindere dal superamento dei limiti, si raggiungesse la prova oggettiva dell’attitudine molesta, se non addirittura della molestia arrecata alle persone tramite onde elettromagnetiche, la prova, cioè, proprio della lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale.
Neppure, quindi, se risultasse (come risulta dalla sentenza di primo grado su radio vaticana) che il Pontificium Collegium Germanicum et Hungaricum sin dal 26 ottobre 1987 aveva intimato per iscritto a tutti i coltivatori della zona di andarsene perché le “radiazioni” di radio vaticana, regolarmente autorizzata, potevano essere pericolose per la loro salute, e risultasse che a causa di queste emissioni autorizzate la gente dei dintorni non poteva più avere una vita normale per le continue interferenze (per il possibile nesso di causalità rispetto a numerosi morti per tumore e leucemia è in corso incidente probatorio presso il Tribunale di Roma).
In tal modo, peraltro, si azzera anche la costante ed univoca giurisprudenza della Cassazione relativa ai rapporti tra norme del codice penale e normative di settore relative agli inquinamenti (in particolare cfr. la giurisprudenza relativa alla questione, del tutto simile, dei rapporti tra il primo comma dell’art. 659 c.p. e la legge n. 447/1995, anche essa con i suoi limiti, nel campo dell’inquinamento acustico), secondo cui la introduzione di una normativa speciale con sanzioni solo amministrative per superamento di limiti non preclude affatto l’applicazione dell’art. 674 c.p., trattandosi di ambiti distinti ed indipendenti, e che il reato può ipotizzarsi a prescindere dal superamento dei limiti stessi.
Del resto, quid iuris se si prova una molestia e nulla si sa dei limiti perché non sono stati fatti controlli o si tratta di controlli contestabili tecnicamente? E se i limiti, come spesso accade, vanno misurati come “media” e non tengono, quindi, conto, dei picchi molesti o pericolosi? Ovvero vengono misurati solo raramente e sempre con preavviso all’interessato? E quale razionalità di sistema si riscontra se puniamo la molestia provocata dalla puzza di industria autorizzata (non ci sono limiti di legge) e non puniamo la molestia molto più preoccupante derivante da radiazioni elettromagnetiche perchè non sono stati effettuati controlli sul rispetto dei limiti?
In conclusione, certamente il superamento dei limiti (punito con sanzione amministrativa “salvo che il fatto costituisca reato”) è un elemento rilevante per valutare la esistenza del reato di cui all’art. 674 c.p., in quanto certamente, nella maggior parte dei casi, il rispetto dei limiti dovrebbe garantire l’assenza di danni e molestie alla popolazione, ma altrettanto certamente non è sostenibile né che ogni superamento dei limiti integri, di per sé, il reato di cui all’art. 674 c.p. (visto che è previsto come illecito amministrativo) né soprattutto che, comunque, nel settore dell’inquinamento elettromagnetico, tale reato debba necessariamente e rigidamente essere collegato alla prova di un superamento. Di certo, infatti, quello che conta, ai fini del reato di cui all’art. 674 c.p. è la prova dell’attitudine delle emissioni a recare offesa o molestia alle persone, che, in alcuni casi, può essere desunta anche senza e a prescindere dalla prova di un superamento. Per cui è possibile ipotizzare il reato in caso di rispetto dei limiti (a causa, ad esempio, di particolari situazioni ambientali, territoriali o sanitarie) ovvero escluderlo in caso di superamento (ad esempio, qualora l’area irradiata sia completamente disabitata).
Ma le novità non sono finite. Perché la sentenza, sempre per evitare irrazionalità, di fronte alla giurisprudenza consolidata secondo cui “può costituire molestia anche il semplice arrecare alle persone generalizzata preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute da esposizione a emissioni inquinanti”, afferma che la idoneità ad offendere o molestare deve essere provata in modo certo ed oggettivo e non può desumersi da mere affermazioni o sensazioni soggettive di aver subito turbamenti, o fastidi, o addirittura preoccupazioni per una eventuale possibilità di danni alla salute non verificata scientificamente ed in concreto; perchè in tal modo “si determinerebbe la conseguenza che il solo superamento dei limiti di esposizione o dei valori di attenzione –proprio perchè si tratta di limiti fissati in via precauzionale a tutela della salute- potrebbe, in pratica essere, di per se stesso, idoneo a provocare turbamento, preoccupazione, allarme”. Occorre, quindi, “non solo il superamento dei limiti ma anche la sussistenza di una prova certa e obiettiva di una effettiva e concreta idoneità delle onde elettromagnetiche a ledere o molestare i potenziali soggetti esposti”.
Probatio diabolica che non solo non tiene in alcun conto il principio di precauzione, ma, soprattutto, pur riconoscendo che il reato in esame è reato di pericolo, ne limita la sussistenza alla sola ipotesi in cui vi sia, oltre al superamento dei limiti, la prova del danno (molestia) visto che attualmente il mondo scientifico, se pure riconosce che l’esposizione all’inquinamento elettromagnetico certamente porta ad alterazioni dell’organismo umano, ancora non è giunto a conclusioni universalmente riconosciute sull’entità delle conseguenze e neppure su quale sia (se c’è) il “limite di innocuità” o , se si preferisce, di pericolosità (forse qualcuno ricorda che gli stessi argomenti furono usati per il nucleare).
In tal modo viene frustrata totalmente la ratio della norma, la quale –non dimentichiamolo- mira a tutelare la tranquillità delle persone, che viene tanto più messa oggettivamente a rischio se non vi sono certezze scientifiche sulla innocuità delle radiazioni.
La sentenza, infatti, se pure accoglie formalmente la tesi, già praticamente pacifica in giurisprudenza (un solo precedente contrario), che l’art. 674 c.p., prima parte, è applicabile anche a fatti di inquinamento elettromagnetico, va, in realtà ben oltre questo problema (che era l’unico trattato nella sentenza di secondo grado ed oggetto del ricorso in Cassazione) e svuota di operatività, rispetto alla lotta agli inquinamenti, l’art. 674 c.p., sovvertendo completamente la giurisprudenza consolidata in proposito, proprio e soprattutto dalla terza sezione della Cassazione.
Ma andiamo con ordine. E’ noto che dal 2000 nell’ambito della terza sezione esiste un contrasto circa il significato da attribuire all’inciso “nei casi non consentiti dalla legge” contenuto nella seconda parte dell’art. 674 c.p. (emissioni di gas, vapori o fumi), in quanto da un lato (orientamento più antico, ma, a volte, seguito ancora oggi) si ritiene che il reato possa sussistere anche in presenza di attività autorizzata e conforme alle prescrizioni di settore, e dall’altro (orientamento oggi nettamente maggioritario), invece, si ritiene il contrario.
Trattasi, come si è detto, di problema relativo alla seconda parte dell’art. 674 c.p., e, quindi, non rilevante rispetto al caso in esame (relativo al “getto” della prima parte), ma è proprio questa la prospettiva nuova su cui si basa la sentenza in esame. Essa, infatti, in nome della “razionalità del sistema” o, in subordine, della analogia in bonam partem, afferma che l’art. 674, nonostante vi sia un chiarissimo “ovvero” che lo divide in due parti nettamente differenziate come fattispecie e nonostante la prima parte abbia anche dei limiti spaziali non presenti nella seconda, va inteso come unica ipotesi di reato, ove la seconda parte è una specificazione della prima. E pertanto la limitazione inserita solo nella seconda parte (“nei casi non consentiti dalla legge”), che va interpretata in senso conforme alla seconda tesi sopra citata, deve valere anche per la prima parte. In tal modo, tutte le fattispecie previste dall’art. 674 c.p. (prima e seconda parte) rientrerebbero nell’ambito di una unica ipotesi di reato, che non sarebbe configurabile nel caso in cui getto o emissioni provengano da attività regolarmente autorizzata o da una attività prevista e disciplinata da atti normativi speciali e siano contenuti nei limiti previsti dalle leggi di settore o dagli specifici provvedimenti amministrativi che li riguardano, il cui rispetto implica una presunzione assoluta di legittimità del comportamento. Quindi, per la configurazione del reato, vi è la necessità che “qualora si tratti di attività considerata dal legislatore socialmente utile e che per tale motivo sia prevista e disciplinata, l’emissione avvenga in violazione delle norme o prescrizioni di settore che regolano la specifica attività”.
Vi sarebbe, quindi, -ed è questo, a mio sommesso avviso, l’aspetto più preoccupante- una totale ed obbligata soggezione, nel campo delle attività inquinanti, del giudice penale (e della legge penale) rispetto all’autorità amministrativa (ed alle norme di settore), anche se fosse provata la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico protetto da una norma penale. Perché, a questo punto, sempre in nome della razionalità del sistema e della analogia in bonam partem, sembra che si possa andare ben oltre l’art. 674 c. p. ed applicare questo principio a qualsiasi reato, incluso l’omicidio o il disastro. Insomma, una ancora incerta interpretazione relativa ad una limitata fattispecie penale (la seconda parte dell’art. 674 c.p.) diventa, con questa sentenza, principio generale, valido per qualsiasi reato commesso nell’ambito di una “attività socialmente utile”.
Il che significa azzerare di colpo tutta la recentissima e coraggiosa giurisprudenza, anche della terza sezione, nei confronti di colossi dell’industria chimica responsabili della morte di migliaia di lavoratori, la cui giustificazione era stata proprio quella dell’essere regolarmente autorizzati e nell’aver rispettato le limitate prescrizioni dell’epoca, nonostante vi fossero già, sempre all’epoca, fondatissimi elementi per ritenere la nocività delle lavorazioni. Con buona pace del principio di precauzione, e del diritto alla salute costituzionalmente garantito, che, evidentemente, deve cedere rispetto alle attività economiche o produttive (“socialmente utili”).
Sia chiaro, non c’era bisogno che la Cassazione ci dicesse con questa sentenza che l’interpretazione del giudice deve sempre tener conto della “razionalità del sistema”, per cui occorre essere particolarmente cauti tutte le volte che si valuti una fattispecie di reato nell’ambito di attività autorizzata e rispettosa della normativa di settore. E’ ovvio che sempre il superamento dei limiti di legge costituisce un elemento oggettivo certamente da considerare, al fine di valutare, a livello probatorio, l’attitudine nociva delle emissioni necessaria per l’integrazione del reato. Tanto più nel settore dell’inquinamento elettromagnetico, dove mancano conclusioni certe, a livello scientifico, circa la nocività delle esposizioni. Ed è altrettanto pacifico che il superamento o meno dei limiti deve essere valutato anche e soprattutto nell’ambito dell’indagine doverosa sull’elemento soggettivo da fare caso per caso.
Ma non è questo che dice la Cassazione, la quale, invece, afferma un principio assoluto e rigido: solo se l’attività non è autorizzata e non rispetta i limiti, il reato è ipotizzabile. Mentre non lo è neppure se, nel concreto, a prescindere dal superamento dei limiti, si raggiungesse la prova oggettiva dell’attitudine molesta, se non addirittura della molestia arrecata alle persone tramite onde elettromagnetiche, la prova, cioè, proprio della lesione del bene giuridico tutelato dalla norma penale.
Neppure, quindi, se risultasse (come risulta dalla sentenza di primo grado su radio vaticana) che il Pontificium Collegium Germanicum et Hungaricum sin dal 26 ottobre 1987 aveva intimato per iscritto a tutti i coltivatori della zona di andarsene perché le “radiazioni” di radio vaticana, regolarmente autorizzata, potevano essere pericolose per la loro salute, e risultasse che a causa di queste emissioni autorizzate la gente dei dintorni non poteva più avere una vita normale per le continue interferenze (per il possibile nesso di causalità rispetto a numerosi morti per tumore e leucemia è in corso incidente probatorio presso il Tribunale di Roma).
In tal modo, peraltro, si azzera anche la costante ed univoca giurisprudenza della Cassazione relativa ai rapporti tra norme del codice penale e normative di settore relative agli inquinamenti (in particolare cfr. la giurisprudenza relativa alla questione, del tutto simile, dei rapporti tra il primo comma dell’art. 659 c.p. e la legge n. 447/1995, anche essa con i suoi limiti, nel campo dell’inquinamento acustico), secondo cui la introduzione di una normativa speciale con sanzioni solo amministrative per superamento di limiti non preclude affatto l’applicazione dell’art. 674 c.p., trattandosi di ambiti distinti ed indipendenti, e che il reato può ipotizzarsi a prescindere dal superamento dei limiti stessi.
Del resto, quid iuris se si prova una molestia e nulla si sa dei limiti perché non sono stati fatti controlli o si tratta di controlli contestabili tecnicamente? E se i limiti, come spesso accade, vanno misurati come “media” e non tengono, quindi, conto, dei picchi molesti o pericolosi? Ovvero vengono misurati solo raramente e sempre con preavviso all’interessato? E quale razionalità di sistema si riscontra se puniamo la molestia provocata dalla puzza di industria autorizzata (non ci sono limiti di legge) e non puniamo la molestia molto più preoccupante derivante da radiazioni elettromagnetiche perchè non sono stati effettuati controlli sul rispetto dei limiti?
In conclusione, certamente il superamento dei limiti (punito con sanzione amministrativa “salvo che il fatto costituisca reato”) è un elemento rilevante per valutare la esistenza del reato di cui all’art. 674 c.p., in quanto certamente, nella maggior parte dei casi, il rispetto dei limiti dovrebbe garantire l’assenza di danni e molestie alla popolazione, ma altrettanto certamente non è sostenibile né che ogni superamento dei limiti integri, di per sé, il reato di cui all’art. 674 c.p. (visto che è previsto come illecito amministrativo) né soprattutto che, comunque, nel settore dell’inquinamento elettromagnetico, tale reato debba necessariamente e rigidamente essere collegato alla prova di un superamento. Di certo, infatti, quello che conta, ai fini del reato di cui all’art. 674 c.p. è la prova dell’attitudine delle emissioni a recare offesa o molestia alle persone, che, in alcuni casi, può essere desunta anche senza e a prescindere dalla prova di un superamento. Per cui è possibile ipotizzare il reato in caso di rispetto dei limiti (a causa, ad esempio, di particolari situazioni ambientali, territoriali o sanitarie) ovvero escluderlo in caso di superamento (ad esempio, qualora l’area irradiata sia completamente disabitata).
Ma le novità non sono finite. Perché la sentenza, sempre per evitare irrazionalità, di fronte alla giurisprudenza consolidata secondo cui “può costituire molestia anche il semplice arrecare alle persone generalizzata preoccupazione ed allarme circa eventuali danni alla salute da esposizione a emissioni inquinanti”, afferma che la idoneità ad offendere o molestare deve essere provata in modo certo ed oggettivo e non può desumersi da mere affermazioni o sensazioni soggettive di aver subito turbamenti, o fastidi, o addirittura preoccupazioni per una eventuale possibilità di danni alla salute non verificata scientificamente ed in concreto; perchè in tal modo “si determinerebbe la conseguenza che il solo superamento dei limiti di esposizione o dei valori di attenzione –proprio perchè si tratta di limiti fissati in via precauzionale a tutela della salute- potrebbe, in pratica essere, di per se stesso, idoneo a provocare turbamento, preoccupazione, allarme”. Occorre, quindi, “non solo il superamento dei limiti ma anche la sussistenza di una prova certa e obiettiva di una effettiva e concreta idoneità delle onde elettromagnetiche a ledere o molestare i potenziali soggetti esposti”.
Probatio diabolica che non solo non tiene in alcun conto il principio di precauzione, ma, soprattutto, pur riconoscendo che il reato in esame è reato di pericolo, ne limita la sussistenza alla sola ipotesi in cui vi sia, oltre al superamento dei limiti, la prova del danno (molestia) visto che attualmente il mondo scientifico, se pure riconosce che l’esposizione all’inquinamento elettromagnetico certamente porta ad alterazioni dell’organismo umano, ancora non è giunto a conclusioni universalmente riconosciute sull’entità delle conseguenze e neppure su quale sia (se c’è) il “limite di innocuità” o , se si preferisce, di pericolosità (forse qualcuno ricorda che gli stessi argomenti furono usati per il nucleare).
In tal modo viene frustrata totalmente la ratio della norma, la quale –non dimentichiamolo- mira a tutelare la tranquillità delle persone, che viene tanto più messa oggettivamente a rischio se non vi sono certezze scientifiche sulla innocuità delle radiazioni.