Cass. Sez. III n. 36926 del 3 ottobre 2024 (PU 12 set 2024)
Pres. Ramacci Est. Scarcella Ric. Rinaldi
Rifiuti.Liquami zootecnici

In assenza di uno «scarico» in senso tecnico-giuridico, i liquami zootecnici costituiscono rifiuto ai sensi dell'art. 185, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 152/32006, con applicazione della disciplina della parte quarta del Decreto anche in termini sanzionatori, ai sensi dell'art. 256 del Testo Unico. Il nesso funzionale e diretto delle acque con il corpo recettore può essere attuato mediante «qualunque sistema stabile di collettamento» che ne consenta la canalizzazione senza soluzione di continuità, e non necessariamente attraverso una «condotta»: quindi, per «scarico», si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 30 gennaio 2024, il Tribunale di Bari dichiarava Tommaso Rinaldi colpevole del reato di cui all’art. 137, d. lgs. n. 152 del 2006, perché, quale legale rappresentante dell’azienda agricola omonima, effettuava scarichi di reflui zootecnici senza la prescritta autorizzazione, fatto contestato come accertato nel dicembre 2018.

2. Avverso tale sentenza, il predetto ha proposto ricorso per cassazione tramite il difensore di fiducia, deducendo un unico motivo, di seguito sommariamente indicato.

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 137 e 318-quater, d. lgs. n. 152 del 2006.
In sintesi, premette il ricorrente che lo scarico di effluenti da allevamento, a seguito delle modifiche normative, è sanzionato esclusivamente in via amministrativa, residuando quale unica condotta penalmente rilevante, l'utilizzazione agronomica non autorizzata di tali effluenti. Affinché l'utilizzo degli scarti zootecnici possa intendersi penalmente rilevante è però necessario che siano predisposte specifiche modalità di stoccaggio e di spandimento dei materiali tali da rendere possibile il loro effettivo utilizzo irriguo, ipotesi che nel caso di specie non si sarebbe verificata. Dagli atti di indagine emerge, infatti, che il letame prodotto dall'azienda zootecnica veniva ammassato su una platea destinata allo stoccaggio dello stesso, priva di cordolo e di un sistema di convogliamento per la raccolta e lo stoccaggio dei reflui, con l'ovvia conseguenza che, in via del tutto accidentale e disomogenea, i liquidi provenienti dal letame stoccato riversavano sul terreno seminativo adiacente alla platea di stoccaggio. Quanto sopra emergerebbe chiaramente dal verbale di accertamento del 23 novembre 2018, risultando infatti che i liquidi di sgrondo, provenienti accidentalmente dal materiale palabile ed accatastato, non erano evidentemente utilizzati per fertilizzare o irrigare il terreno. Vi sarebbe dunque un'evidente erronea applicazione della legge penale avendo il giudice ritenuto configurabile l'ipotesi contravvenzionale contestata ma riferita al semplice scarico non autorizzato degli influenti da allevamento, sanzionato esclusivamente in via amministrativa. 
Conclude, peraltro, la difesa osservando come, anche se si volesse ritenere penalmente rilevante l'iniziale condotta del ricorrente, dovrebbe comunque evidenziarsi come, in occasione della verifica dell'adempimento di cui all'articolo 318-quater del testo unico ambientale, lo sversamento nel terreno era stato definitivamente interrotto, atteso che l'unico inadempimento rilevato riguardava la mancata creazione di idonea concimaia per lo stoccaggio di materiale palabile, che peraltro era stata quasi ultimata. Dunque, l'azione penale non avrebbe dovuto essere promossa in ragione dell'effetto estintivo di cui agli articoli 318-quater e seguenti del testo unico ambientale.

3. Con requisitoria scritta del 15 luglio 2024, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso. 
In sintesi, secondo il PG, la decisione impugnata risulta conforme al principio per il quale «In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, anche a seguito della depenalizzazione della condotta di scarico senza autorizzazione di reflui provenienti da attività d'allevamento del bestiame per effetto delle modifiche introdotte dal d. lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 all'art. 101, comma settimo, lett. b) del D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, l'utilizzazione agronomica dei reflui medesimi, al di fuori dei casi o dei limiti consentiti, continua ad integrare il reato previsto dall'art. 137, comma quattordicesimo, del D.lgs. n. 152 del 2006» (Sez. 3, n. 26532 del 2008, Rv. 240553-01). È manifestamente infondata poi per il PG la deduzione intesa alla declaratoria di estinzione del reato per effetto della procedura di cui alla Parte VI bis del d. lgs. cit., posto che lo stesso ricorrente, confermando quanto indicato nella sentenza impugnata, ammette di non aver completamente ottemperato ad una parte qualificante delle prescrizioni impartite dalla Polizia giudiziaria: quella che atteneva alla creazione di idonea concimaia per lo stoccaggio del letame e alla realizzazione di idonei sistemi di raccolta e stoccaggio dei liquidi di sgrondo.

4. In data 9 agosto 2024, l’Avv. Angelo Dibenedetto, nell’interesse del ricorrente, ha fatto pervenire le proprie conclusioni scritte con cui ha insistito nell’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è complessivamente infondato.

2. Nel caso di specie, premette il Collegio, coglie nel segno l’obiezione difensiva laddove evidenzia come i fatti accertati abbiano escluso che ci si trovi in presenza della violazione per cui è intervenuta condanna, ossia l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento al di fuori dei casi o limiti consentiti, unica per la quale, come correttamente afferma il giudice, residua rilevanza penale (Sez. 3, n. 26532 del 21/05/2008, Rv. 240553 – 01).
2.1. La regola generale è contenuta nell'articolo 74, lettera g), del d. lgs. 152/2006, secondo cui sono acque reflue «domestiche» le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche», mentre per la successiva lettera h), sono «acque reflue industriali» qualsiasi tipo di «acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni», diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento. Tuttavia, l'art. 101 del Dlgs 152/06, dettato in tema di «criteri generali della disciplina degli scarichi» stabilisce la assimilazione «secca» delle acque reflue «provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame» alle acque reflue domestiche.
2.2. La disposizione in esame è stata modificata dall'articolo 2, comma 8, d. lgs. 16/01/2008, n. 16, che ha eliminato le successive parole «che, per quanto riguarda gli effluenti di allevamento, praticano l'utilizzazione agronomica in conformità alla disciplina regionale stabilita sulla base dei criteri e delle norme tecniche generali di cui all'articolo 112, comma 2, e che dispongono di almeno un ettaro di terreno agricolo per ognuna delle quantità indicate nella Tabella 6 dell'Allegato 5 alla parte terza del presente decreto». Quindi, innovando sensibilmente la precedente disciplina, l'attuale normativa ha parificato, senza limitazioni, alle acque reflue domestiche le acque reflue provenienti dall'attività di allevamento del bestiame (così Sez. 3, n. 38866 del 30/05/2017, Midgley, Rv. 271801 - 01). L'ultima sentenza citata sottolinea come la modifica normativa operata, comportando il venire meno della «connessione funzionale dell'allevamento con la coltivazione della terra» e dei criteri di individuazione di tale connessione, capovolge sostanzialmente i termini della questione rispetto alla disciplina regolata dal d.lgs. n. 152/2006: mentre, infatti, con la normativa pregressa le acque reflue provenienti da una attività di allevamento del bestiame andavano considerate, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, come acque reflue industriali, e solo eccezionalmente potevano essere assimilate, ai detti fini, alle acque reflue domestiche qualora fosse dimostrata la presenza delle condizioni indicate dal D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, art. 28, comma 7, lett. b), e poi d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101, comma 7, ossia quando vi era la prova della connessione del terreno agricolo con le attività di allevamento (Sez. 3, n.4500 del 17/11/2005, Rv. 233283); nell'attuale assetto normativo, per effetto della caducazione suindicata, l'assimilazione prevista dell'art. 101, comma 7, delle acque reflue domestiche a quelle provenienti da imprese dedite all'allevamento di bestiame, diviene la regola (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552).
2.3. Per effetto di tali modifiche si è ritenuto, pertanto, sanzionato solo in via amministrativa, ai sensi del d.lgs. 152 del 2006, art. 133, comma 2, lo scarico senza autorizzazione degli effluenti di allevamento. L'unica eccezione rimane quella - richiamata ad excludendum dell'art. 101, comma 7 - del d.lgs. n. 152 del 2006 - dell'art. 112 che regola l'utilizzazione agronomica: per effetto del combinato delle disposizioni del d.lgs. n. 152 del 2006, art. 101 comma 7, art. 112 e art. 137, comma 14, nel caso di gestione degli effluenti di allevamento, infatti, continua a mantenere rilevanza penale la sola utilizzazione agronomica - così come definita dall'art. 74, comma 1 lett. p) del d.lgs. n. 152/2006 - nelle ipotesi in cui la stessa avvenga al di fuori dei casi o dei limiti consentiti. Secondo la normativa attualmente vigente, quindi, le acque reflue provenienti da imprese dedite all'allevamento di bestiame sono assimilate alle acque reflue domestiche ai fini della disciplina degli scarichi e lo scarico senza autorizzazione degli effluenti d'allevamento non è più previsto dalla legge come reato, ma integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 133, comma secondo, del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. (Sez.3, n.26532 del 21/05/2008, Rv.240552; Sez.3, n.9488 del 29/01/2009, Rv.243112).
3. Ove quello in esame dovesse essere classificato come uno scarico di acque reflue, pertanto, come del resto emerge dalla imputazione, la sentenza andrebbe annullata senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

4. Tuttavia, non è così, ritenendo il Collegio che il giudice (e prima ancora il PM) abbiano erroneamente qualificato giuridicamente il fatto.
4.1. La Corte ha infatti evidenziato come i liquami prodotti dall'esercizio di azienda zootecnica costituiscono acque di scarico solo se il collegamento fra ciclo di produzione e recapito finale sia diretto ed attuato, senza soluzione di continuità, mediante una condotta o altro sistema stabile di collettamento (Sez. 3, n. 16623 del 08/04/2015, D'Aniello, Rv. 26335401), costituito da un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore, mentre in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si verte invece nell'ambito della disciplina sui rifiuti. Sez. 3, n. 50629 del 04/10/2017, Valentini, n.m., ha poi precisato che la disciplina delle acque sarà applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile. In tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti (cfr., tra le tante: Sez. 3, n. 45340 del 19/10/2011, Pananti, Rv. 251335; Sez. 3, n. 22036 del 13/04/2010, Chianura, Rv. 247627; Sez. 3, n. 35138 del 18/6/2009, Bastone, Rv. 244783) e che ad identiche conclusioni si è pervenuti anche con riferimento alla raccolta di liquami zootecnici (Sez. 3, n. 15652 del 161:3/2011, Nassivera, Rv. 250005; Sez. 3, n. 27071 del 20/5/2008, Cornalba e altro, Rv. 240264). 
4.2. Pertanto, in assenza di uno «scarico» in senso tecnico-giuridico, i liquami zootecnici costituiscono rifiuto ai sensi dell'art. 185, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 152/32006, con applicazione della disciplina della parte quarta del Decreto anche in termini sanzionatori, ai sensi dell'art. 256 del Testo Unico. Secondo la costante giurisprudenza della Corte, il nesso funzionale e diretto delle acque con il corpo recettore può essere attuato mediante «qualunque sistema stabile di collettamento» che ne consenta la canalizzazione senza soluzione di continuità, e non necessariamente attraverso una «condotta»: quindi, per «scarico», si deve intendere l'immissione nel corpo recettore tramite condotta o comunque tramite un sistema di canalizzazione anche se non necessariamente costituito da tubazioni (Sez. 3, n. 40191 del 11/10/2007, Schembri, Rv. 238057 - 01). 
4.3. Tuttavia - e questo è il fulcro della tematica - va escluso un ritorno al concetto di «scarico indiretto» che era previsto dalla «legge Merli» (art. 1, lettera a) e che non è stato riproposto nel d. lgs. n. 152 del 2006 (v. Sez. 3, n. 50432 del 15/10/2019, De Rosa, Rv. 277400 — 01, secondo cui lo «scarico indiretto», come quello legato all'esistenza di un pozzo nero, e che si concretizza in pratica ogni qual volta si verifica un'interconnessione tra il condotto d'adduzione e il corpo ricettore, va semplicemente ad essere ricompreso nel comune concetto di «rifiuto liquido» e resta dunque sotto l'impianto di regolamentazione della parte quarta del d. lgs. n. 152/2006). 
4.4. In tal senso, la Corte ha ritenuto che sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido, e non acque di scarico:
- gli effluenti di allevamento di bestiame che, in luogo di defluire direttamente nelle condotte di scarico, siano raccolti in apposite vasche a tempo indeterminato (Sez. 3, n. 15652 del 16/3/2011, Nassivera, cit.);
- i reflui, ove siano raccolti prima in una vasca e poi sparsi sul terreno (Sez. 3, n. 27071 del 20/05/2008, Cornalba, cit.);
- i reflui stoccati in modo incontrollato e a tempo indeterminato all'interno di vasche che, tracimando dai bordi, finiscano nel terreno circostante (Sez. 3, n. 21785 del 28/04/2011, Corbelli, Rv. 250479 - 01).
È quindi del tutto evidente che il concetto di «stabile collettamento» deve essere inteso non in senso assoluto, ma relativo, ossia riferito alla presenza di un «collegamento funzionale diretto» tra il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore.

5. Nel caso di specie, il processo ha restituito una situazione di fatto per cui il letame prodotto dall'azienda zootecnica veniva ammassato su una platea destinata allo stoccaggio dello stesso, priva di cordolo e di un sistema di convogliamento per la raccolta e lo stoccaggio dei reflui, con l'ovvia conseguenza che, in via del tutto accidentale e disomogenea, i liquidi provenienti dal letame stoccato riversavano sul terreno seminativo adiacente alla platea di stoccaggio. Quanto sopra emerge chiaramente dal verbale di accertamento del 23 novembre 2018, risultando infatti che i liquidi di sgrondo, provenienti accidentalmente dal materiale palabile ed accatastato, non erano evidentemente utilizzati per fertilizzare o irrigare il terreno.
5.1. È quindi evidente come, nel caso di specie, non si versasse in un’ipotesi di effettuazione di “scarichi” di reflui zootecnici senza la prescritta autorizzazione (condotta che, come è noto, non costituisce più reato), ma di sversamento accidentale e incontrollato di rifiuti allo stato liquido che riversavano sul terreno seminativo adiacente alla platea di stoccaggio, rendendo configurabile il diverso reato di cui all’art. 256, comma 2, d. lgs. n. 152 del 2006. 
5.2. Il Collegio ritiene dunque che, nel caso di specie, manchi il requisito dello «stabile collettamento», come dianzi specificato, necessario affinché sia applicabile la disciplina degli scarichi.

6. Né, si noti, nel caso di specie è configurabile il fatto qualificato giuridicamente dal giudice, ossia la violazione dell’art. 137, comma 14, D.lgs. n. 152 del 2006.
6.1. Essa è definita dall'articolo 74, lettera p), del testo unico come «la gestione di effluenti di allevamento, acque di vegetazione residuate dalla lavorazione delle olive, acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari, dalla loro produzione fino all'applicazione al terreno ovvero al loro utilizzo irriguo o fertirriguo, finalizzati all'utilizzo delle sostanze nutritive e ammendanti nei medesimi contenute».
Questa Corte (Sez. 3, n. 9717 del 10/01/2020, Battipaglia, n.m.) ha chiarito che detta pratica prescinde dalla modalità di gestione delle acque reflue di allevamento, sia che esse siano o no soggette alla normativa sui rifiuti o a quella sulle acque, ed in questo ultimo caso indipendentemente dalla classificazione dello scarico come industriale o domestico.
6.2. Deve tuttavia escludersi l'applicabilità dell'articolo 137, comma 14, d. lgs. 152/2006, al caso in esame. La norma infatti sanziona con la pena dell'ammenda «chiunque effettui l'utilizzazione agronomica di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione dei frantoi oleari, nonché di acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari di cui all'articolo 112, al di fuori dei casi e delle procedure ivi previste». È quindi di tutta evidenza che ciò che la norma sanziona è l'attività di fertirrigazione svolta in casi non consentiti dalla legge o con modalità difformi da quelle consentite, non anche il mero scarico dei reflui in corpo recettore, per il quale si applica la disciplina delle acque di scarico ovvero, come nel caso di specie, quella sui rifiuti, non essendosi in presenza di uno “scarico” tecnicamente qualificabile come tale. 

7. Deve, quindi, procedersi alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nei termini di cui sopra, non essendovi alcun obbligo di disporre il rinvio in applicazione dell'articolo 611 cod. proc. pen., che, al comma 1-sexies, introdotto dal d. lgs. n. 150/2022, stabilisce che «se ritiene di dare al fatto una definizione giuridica diversa, la Corte dispone con ordinanza il rinvio per la trattazione del ricorso in udienza pubblica o in camera di consiglio con la partecipazione delle parti, indicando la ragione del rinvio e dandone comunicazione alle parti con l'avviso di fissazione della nuova udienza».
7.1. Si tratta, infatti, di disposizione inapplicabile, ratione temporis, al presente processo. 
Ed infatti, l'articolo 94, comma 2, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, prevedeva, quale regime transitorio, che, per le impugnazioni proposte sino al 31 dicembre 2023 continuassero ad applicarsi le disposizioni di cui agli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176. Tale termine è stato poi differito al 30 giugno 2024 dall'articolo 11, comma 7, del d.l. n. 215/2023, convertito con legge 23 febbraio 2024, n. 18. 
7.2. Vero è che la disciplina transitoria non menzionava esplicitamente il comma in parola. Tuttavia, si deve ritenere che la disciplina delle impugnazioni, come modificata dalla c.d. "riforma Cartabia", debba essere considerata come un "sistema chiuso", in cui i commi da 1-bis a 1-sexies dell'articolo 611 del codice di rito si pongono in termini antitetici rispetto al procedimento delineato dagli articoli 23, commi 8, primo, secondo, terzo, quarto e quinto periodo, e 9, e 23-bis, commi 1, 2, 3, 4 e 7, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137. Non a caso, Sez. 3, n. 37046 del 27/06/2023, Bellini, n.m., ha evidenziato come l'art. 35 comma 1, lett. a), n. 2) del d.lvo n. 150 del 2022, nel contesto della riforma del rito nel giudizio di legittimità, sia intervenuta sull'art. 611 cod. proc. pen. ed ha previsto che la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga in camera di consiglio, con contraddittorio scritto senza l'intervento delle parti, previsione della trattazione dei ricorsi con contraddittorio scritto che diviene rito ordinario per i giudizi di cassazione, a cui si può derogare solo in presenza di specifici presupposti e previa richiesta delle parti o decisione della corte stessa. Si tratta di una previsione che, in parte, riprende la disciplina normativa del c.d. rito cartolare introdotta dalle norme emergenziali Covid. Nel giudizio di legittimità il rito cartolare, si rileva ancora nella pronuncia citata, si applica nei casi indicati dal comma 1-bis dell'art. 611 cod. proc. pen. e con le modalità per la richiesta per la trattazione indicate nel comma 1-ter del medesimo articolo. In particolare, e in questo si differenzia dalla previsione dell'art. 23 della legge n. 176 del 2020, la richiesta delle parti deve essere presentata a pena di decadenza entro dieci giorni dalla ricezione dell'avviso di fissazione dell'udienza. Negli stessi casi di cui al comma 1-bis dell'art. 611 cod. proc. pen. la Corte di cassazione può d'ufficio disporre la trattazione del ricorso con la partecipazione delle parti "per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame", dandone comunicazione alle parti (art. 611 comma 1-quater cod. proc. pen.) e "se ritiene di dare una definizione giuridica diversa" (art. 611 comma 1-sexies cod. proc. pen.). 
7.3. In definitiva, dunque, la disposizione di cui al richiamato comma 1-sexies, dell’art. 611, cod. proc. pen. non trova applicazione per i ricorsi proposti sino al 30 giugno 2024, data a partire dalla quale è divenuta efficace la nuova disciplina introdotta dalla riforma “Cartabia”, che imporrebbe l’adozione da parte della Corte dell’ordinanza di rinvio.

8. In ogni caso, peraltro, osserva il Collegio, quand’anche il ricorso fosse stato proposto dopo tale data, nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna necessità di disporre il rinvio del processo ad altra data, non potendo ritenersi che la riqualificazione sia un “atto a sorpresa”, ciò che ha giustificato l’inserimento del comma 1-sexies nell’art. 611 citato. Ed infatti, tale disposizione è stata introdotta (v. pag. 171 relazione al d. lgs. 150/2022) «a tutela del contraddittorio nel caso in cui emerga la possibilità di una ridefinizione giuridica del fatto contestato, in aderenza alla giurisprudenza CEDU di riferimento (a partire dalla nota sentenza Drassich c. Italia dell'11 dicembre 2007) e del consolidato orientamento della Suprema Corte che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, esclude la compressione o la limitazione del diritto al contraddittorio quando la diversa qualificazione giuridica del fatto non avvenga a sorpresa e l'imputato e il suo difensore siano stati posti in condizione di interloquire sulla questione (Cfr., fra le più recenti, Sez. 5, n. 27905 del 03/05/2021, Rv. 281817-03)».
8.1. Orbene, rileva sul punto il Collegio come il fatto riqualificato da questa Corte non può dirsi contestato “a sorpresa” rispetto a quella che era l’originaria contestazione – ossia  l’effettuazione di scarichi di reflui zootecnici senza la prescritta autorizzazione -, poi riqualificata erroneamente dal giudice, il quale ha ritenuto configurabile la violazione di cui agli artt. 101, comma 7, 112 e 137, comma 14, d.lgs. n. 152 del 2006, del tutto erronea. 
8.2. La diversa qualificazione giuridica operata da questa Corte, infatti, appare come uno dei naturali e «non sorprendenti» epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all'esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all'imputato o al suo difensore l'effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui, ricostruito il fatto in maniera conforme alla contestazione, l'eventuale esclusione dell'una comporta, inevitabilmente, l'applicazione dell'altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile (Sez. 6, n. 41767 del 20/06/2017, Boschi, Rv. 271391 - 01; Sez. 5, Sentenza n. 7984 del 2013, Jovanovic], atteso che a fronte dell’originaria contestazione di scarico senza autorizzazione di reflui allo stato liquido, la riqualificazione giuridica in abbandono incontrollato di tali reflui, che ha costituito sostanzialmente l’oggetto della difesa del ricorrente, come dimostra la stessa difesa sostenuta in ricorso in cui la difesa ha evidenziato come, dagli atti di indagine, emergeva  che il letame prodotto dall'azienda zootecnica veniva ammassato su una platea destinata allo stoccaggio dello stesso, priva di cordolo e di un sistema di convogliamento per la raccolta e lo stoccaggio dei reflui, con l'ovvia conseguenza che, in via del tutto accidentale e disomogenea, i liquidi provenienti dal letame stoccato riversavano sul terreno seminativo adiacente alla platea di stoccaggio - posta l'angusta linea di demarcazione tra acque di scarico e rifiuti liquidi (così, Sez. 3, n. 29351 del 19/07/2024, Ponticelli, n.m.) -, rappresentava l’unico sviluppo logicamente e giuridicamente prevedibile: dunque, bene il fatto può essere riqualificato a norma dell’art. 256, comma 2, TUA (si v., nella giurisprudenza di questa Corte: Sez. 3, n. 29351 del 5 aprile 2024, non massimata).  
 
9. Infine, non è accoglibile la residua doglianza secondo cui l’azione penale non avrebbe potuto essere esercitata essendosi verificato l’effetto estintivo ex art. 318-quater e segg. d. lgs. n. 152 del 2006.
Ed invero, la sentenza dà atto dell'inottemperanza alle prescrizioni impartite, mentre il ricorrete si limita a richiamare, senza allegarla come invece avrebbe dovuto in ossequio al principio di autosufficienza, un’annotazione di PG, in cui l'unico inadempimento rilevato riguarderebbe la mancata creazione di idonea concimaia per lo stoccaggio di materiale palabile, che peraltro era stata quasi ultimata, sostenendo lo sversamento del terreno era stato definitivamente interrotto, con conseguente effetto estintivo.
9.1. In tal modo, tuttavia, il ricorrente chiede al Collegio di svolgere un accertamento di fatto, quello cioè relativo all'adempimento delle prescrizioni, escluso nel giudizio di legittimità.
9.2. Deve, quindi, essere affermato il seguente principio di diritto: «è inammissibile il ricorso che chiede alla Corte di cassazione di verificare l'ottemperanza alle prescrizioni impartite al trasgressore ai sensi dell'articolo 318-bis e ss. del d. lgs. 152/2006, salvo che tale ottemperanza non risulti "ictu oculi" da elementi dedotti e allegati, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, senza che sia necessario alcuno spazio di valutazione in punto di fatto». 
9.3. Inoltre, il Collegio aggiunge che, dal tenore inequivoco dell'articolo 318-sexies (la norma infatti parla del solo «procedimento»; incardina la verifica solo sul pubblico ministero; non preclude l'archiviazione ovvero l'assunzione di prove non rinviabili) e 318-septies, comma 2, d. lgs 152/2006 (il quale prevede che, in caso di ottemperanza alle prescrizioni e pagamento della somma prevista, «il pubblico ministero richiede l'archiviazione se la contravvenzione è estinta») appare evidente che l'istituto può essere attivato solo entro la chiusura delle indagini preliminari. 
In altre parole, esso trova una «preclusione di fase», in cui il limite è costituito dall'avvenuto esercizio dell'azione penale (sul punto, v. Sez. 3, n. 41889 del 03/07/2023, Santeramo, n.m., secondo cui «le precise scansioni procedimentali previste dal dato normativo sono scansioni che non prevedono mai la partecipazione dell'Autorità giudiziaria, intesa come giudice del dibattimento»).
9.4. Il motivo è, pertanto, manifestamente infondato.

10. Al rigetto del ricorso segue la condanna ex lege del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 
  
P.Q.M.

Riqualificata la condotta contestata ai sensi dell'art. 256, comma 2 dlvo 152\2006, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 12/09/2024