Cass. Sez. III n. 6782 del 19 febbraio 2025 (UP 17 dic 2024)
Pres. Di Nicola Rel. Corbetta Ric. Scarano
Rifiuti.Abiti usati
In tema di tutela penale dell'ambiente, deve riconoscersi natura di rifiuti agli indumenti usati, abbandonati da chi ne abbia la detenzione, in quanto essi non possono essere ritenuti né sottoprodotti ex art. 182-bis d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, non derivando da un processo di produzione, né rifiuti che abbiano cessato di essere tali, postulando la cessazione l'esecuzione di operazioni di recupero debitamente autorizzate o, comunque, assoggettate a procedura semplificata ai sensi dell'art. 214 e segg. del citato d.lgs. n. 152 del 2006
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Milano, ai fini qui di interesse, ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Monza e appellata dagli imputati, la quale aveva condannato Carmine Scarano alla pena ritenuta di giustizia in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 112 cod. pen., 260 d.lgs. n. 152 del 2006, perché, in concorso con altri coimputati, attraverso la Nuova Tessil Pezzame s.a.s. di Scarano Carmine & c. (d’ora in avanti N.T.P.), riceveva ingenti quantitativi di rifiuti – raccolti nel territorio di comuni ubicati in Lombardia, in Piemonte e nella zona di Udine – costituiti da indumenti usati, prodotti tessili ed accessori di abbigliamento post consumo e, senza averli sottoposti preventivamente a un effettivo processo di trattamento e recupero (secondo il dettato dal d.m. 5.2.1998, punti 8.4 e 8.9, che prescrivono la necessaria selezione, separazione ed igienizzazione di detti rifiuti), e violando le prescrizioni contenute nell’autorizzazione n. 8860/2014 rilasciata in data 11 settembre 2014 alla Nuova Tessil Pezzame s.a.s., li avviava, con documentazione accompagnatoria falsa, in quanto nei documenti di trasporto tali rifiuti venivano falsamente indicati come materie prime secondarie (M.P.S.), al mercato dell’usato sia in Italia che all’estero.
2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per il ministero dei difensori di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
2.1. Con un primo motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 183 ss. d.lgs. n. 152 del 2006, 1 d.m. 5 febbraio 1998, 2 cod. pen. e 533 cod. proc. pen., con riferimento alla qualificazione di rifiuto delle res di cui all’imputazione. Ad avviso del ricorrente, la modalità di raccolta degli indumenti ne escludono in radice la natura di rifiuto, secondo la definizione di cui all’art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, posto che non è rinvenibile nel donatore la volontà di disfarsi dell’abito; aggiunge il ricorrente che, a differenza di quanto opinato dalla Corte di merito, la l. n. 166 del 2016, chiaramente ispirata a finalità promozionali rispetto a operazioni di solidarietà sociale, conforterebbe l’assunto secondo cui gli abiti usati non rientrano nella categoria dei rifiuti, posto che si valorizza l’intenzione del soggetto donante di consentire il reimpiego della merce, conformemente all’art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006. Sotto altro profilo, il ricorrente evidenzia come la sentenza impugnata sia incorsa in errore, laddove ha affermato l’obbligatorietà del trattamento di igienizzazione degli abiti usati, posto che detto trattamento è meramente facoltativo, come stabilito dal punto 8.9.3 lett. a) dell’allegato I al d.m. 5 febbraio 1998. Parimenti errata, ad avviso del ricorrente, è l’affermazione della Corte secondo cui la facoltatività sarebbe prevista solo dal 2016 ed esclusivamente per gli enti benefici, in quanto, per un verso, la modifica, incidendo sulla qualifica di rifiuto, soggiace alla disciplina di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen. e, quindi, in quanto più favorevole, ha effetto retroattivo; per altro verso, essa ha una valenza di carattere generale. Aggiunge, inoltre, il ricorrente che la motivazione sarebbe viziata sotto il profilo della valutazione del compendio probatorio in punto di igienizzazione, non essendo emerso il superamento della carica batterica con riferimento alla merce trattata; la Corte di merito, inoltre, sarebbe incorsa in un ulteriore errore, laddove ha ritenuto che la selezione degli indumenti comporterebbe la perdita della qualità di rifiuto, che, invece, dipende in via esclusiva dall’avvenuta igienizzazione ove questa sia necessaria, come affermato da una sentenza del Tribunale di Genova, la quale ha definitivamente assolto Scarano in una vicenda del tutto sovrapponibile a quella qui al vaglio.
2.2. Con un secondo motivo, eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento alla qualificazione come “ingente” del quantitativo di rifiuti di cui al capo di imputazione. Espone il ricorrente che la Corte di merito ha erroneamente ravvisato sussistenza di un quantitativo “ingente”, nozione che deve essere individuata in relazione alla quantità massima trattabile oggetto di autorizzazione amministrativa, come indicato dal consulente di parte, dott. Zanaboni e come recepito nella sentenza della Cassazione n. 42631 del 2021. Nel caso di specie, la natura “ingente” del quantitativo sarebbe inoltre esclusa dall’assenza di rifiuti pericolosi, dal mancato superamento di cariche inquinanti, dall’estrema dilatazione del tempo della condotta.
2.3. Con un terzo motivo, lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento alla determinazione dell’illecito profitto e alla confisca. Argomentano i difensori che il calcolo del profitto, oggetto di confisca, è manifestamente illogico, perché si sarebbe dovuto basare sulla contabilità aziendale, che non è stata mai acquisita. In ogni caso, i militari della G.d.F. non hanno spiegato da dove abbiano tratto i numeri, che poi sono stati indicati nelle tabelle, tanto più che, se essi sono stati desunti dalle fatture di vendita, queste sono state ritenute inattendibili. Quanto ai metodi di calcolo del profitto utilizzati dalla Corte di appello, in relazione al primo, che si riferisce al periodo in cui la società non sarebbe stata autorizzata, ossia dal settembre 2014 al maggio 2015, lo stesso sarebbe errato, perché dagli atti emerge che la N.T.P. aveva le autorizzazioni per operare, e considerando che i ricavi sono stati calcolati sulla base delle sole fatture di vendita. Quanto al secondo criterio utilizzato, relativo al periodo in cui la società era dotata di autorizzazione, i calcoli sarebbe errati, in quanto le tabelle riportano dei numeri complessivi, senza indicare, in maniera analitica, quali addendi sono stati utilizzati per giungere a quei risultati. Tali censure valgono anche per il terzo criterio, che fa riferimento agli abiti entrati “in nero”, ossia senza F.I.R., come rilevato dal consulente dell’imputato, dott. Fornari, le cui considerazioni, già indicate nei motivi di appello, sono riportate alle p. 14 e 15 del ricorso. Ad avviso dei difensori, inoltre, la motivazione sarebbe erronea nella parte in cui ha ritenuto che i costi non debbano essere scorporati nella determinazione del profitto, considerando che la confisca ha natura riparatoria. Illogica e fuorviante, infine, sarebbe la motivazione laddove ipotizza che il prezzo effettivamente pagato dai clienti della società sia stato solo in parte fatturato, posto che dagli atti non è mai emerso alcun pagamento “in nero”.
2.4. Con un quarto motivo, deduce la violazione la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento alla violazione del principio di offensività; al proposito, la motivazione sarebbe mancante, non avendo valutato i giudici, in concreto, la lesione del bene giuridico tutelato, ossia l’ambiente.
2.5. Con un quinto motivo, deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006, con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Sul punto, la motivazione addotta dalla Corte di merito sarebbe illogica in riferimento al fatto che gli indumenti usati costituiscono un rifiuto, ciò che è stato confutato anche dalla giurisprudenza di merito, sia all’utilizzo fraudolento, da parte dello Scarano, del logo “l’Africa nel cuore”, essendo stata dimostrata la collaborazione e la pubblicizzazione dell’attività con la N.T.P.
2.6. Con un sesto motivo, lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62-bis cod. pen. e 260 d.lgs. n. 152 del 2006, in quanto la motivazione sarebbe illogica in punto di determinazione della pena e di diniego delle circostanze attenuanti generiche, non avendo la Corte di merito considerato le incertezze interpretative in materia, l’assenza di un danno all’ambiente e la circostanza che la N.T.P. non è stata più nelle condizioni di operare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo è infondato.
2.1. Secondo quanto concordemente ricostruito dai giudici di merito – e nemmeno oggetto di contestazione da parte del ricorrente – nel periodo dal gennaio 2014 al 22 novembre 2017 la N.T.P. ha ricevuto ingenti quantitativi di rifiuti, costituiti da indumenti usati, prodotti tessili ed accessori di abbigliamento post consumo, raccolti secondo due canali differenti: da un lato, mediante cassonetti appositamente posizionati nella pubblica via e con il sistema del ritiro porta a porta utilizzando, in maniera fraudolenta, il logo della onlus “Africa nel cuore”, posto che detta associazione non ha mai ricevuto alcun indumento usato; dall’altro, mediante formulari di identificazione dei rifiuti (cd. F.I.R.).
In entrambi i casi, gli indumenti venivano avviati - con documentazione accompagnatoria costituita da documenti di trasporti, in cui tali rifiuti venivano falsamente indicati come M.P.S., ossia materie prime secondarie, anziché con i prescritti F.I.R. - al mercato dell’usato in Italia e, prevalentemente, in Tunisia, senza che fossero previamente svolte le doverose – perché, come si dirà imposte dalle prescrizioni annesse all’autorizzazione - attività di selezione, cernita e igienizzazione, le quali, come emerge dal contenuto delle conversazioni intercettate, avrebbe fatto lievitare i costi e allungare i tempi di consegna.
2.2. Ciò posto, occorre evidenziare, come già rilevato dalla Corte di merito, che la maggior parte dei rifiuti usati oggetto di contestazione sono stati acquisiti da N.T.P. come rifiuti; essi, pertanto, sono entrati nell’impianto con F.I.R., codice CER 200110, e sono stati annotati nei registri di carico e scarico dei rifiuti.
In relazione ad essi, non è revocabile in dubbio – né la difesa lo contesta – che siano da qualificare come rifiuti urbani non pericolosi, ciò che, in considerazione della mole di quantità trattate in violazione delle prescrizioni imposte dall’autorizzazione, nell’ordine delle migliaia di tonnellate, integra di per sé il reato in contestazione.
2.3. Si rammenta, infatti, che, ai sensi del’art. 184-ter d.lgs. n. 152 del 2006, la cessazione della qualifica di rifiuto dell'indumento usato è subordinata alle operazioni di recupero, previste dal decreto del Ministero dell’Ambiente del 5 febbraio 1998, all’Allegato 1, sub allegato 1, n. 8.9, il quale, in tema di recupero di “indumenti, accessori di abbigliamento ed altri manufatti tessili confezionati post-consumo” onde ottenere “indumenti, accessori di abbigliamento ed altri manufatti tessili confezionati utilizzabili direttamente in cicli di consumo“, prevede (punto 8.9.3, lett. a) la selezione e l’igienizzazione per l’ottenimento di alcune specifiche sanitarie.
2.4. Nel caso in esame, come accertato dalla Corte d’appello (cfr. p. 23 della sentenza impugnata), la N.T.P. era in possesso dell’autorizzazione n. 8860/2014 rilasciata in data 11 settembre 2019 dalla Provincia di Milano, in forza della quale la società era autorizzata all’esercizio delle operazioni di messa in riserva R13, deposito D15 e recupero R3 e R12, presso l’impianto di Solaro, di rifiuti non pericolosi, alle condizioni e con le prescrizioni di cui agli allegati tecnici A, B, C, D, tra cui (all. A, punto 1.9), “una preliminare selezione e cernita”, al fine di suddividere gli indumenti “per tipologia e separare quanto non recuperabile”, nonché “nel successivo trattamento di igienizzazione”.
Di conseguenza, le accertate condotte (e nemmeno contestate) di omessa cernita manuale e selezione e di omessa igienizzazione dei rifiuti integrano altrettante violazioni alle prescrizioni dell’autorizzazione, il che realizza una gestione, appunto, abusiva, dei rifiuti, rilevante ex art. 260 d.lgs. n. 152 de 2006.
3. La contestazioni difensive si appuntano sulla qualifica di rifiuto in relazione a una parte minore di indumenti usati, vale a dire quella raccolta da privati tramite cassonetti o il ritiro porta a porta, indumenti che sono entrati nell’impianto in totale assenza di documentazione.
Ciò chiarito, e riaffermato che le contestazioni difensive, al più, inciderebbero non sulla sussistenza del reato (pacificamente configurabile in relazione agli indumenti usati entrati nell’impianto con F.I.R., codice CER 200110) ma sulla determinazione della pena, va ribadita la natura di “rifiuto” di questa categoria di indumenti usati, assoggettati alla disciplina dinanzi indicata al par. 2.3.
4. Nonostante la differente – ed errata - conclusione - a cui è giunto il Tribunale di Genova con la sentenza assolutoria emessa per fatti analoghi nei confronti dello Scarano, va ribadito il principio giusto il quale, in tema di tutela penale dell'ambiente, deve riconoscersi natura di rifiuti agli indumenti usati, abbandonati da chi ne abbia la detenzione, in quanto essi non possono essere ritenuti né sottoprodotti ex art. 182-bis d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, non derivando da un processo di produzione, né rifiuti che abbiano cessato di essere tali, postulando la cessazione l'esecuzione di operazioni di recupero debitamente autorizzate o, comunque, assoggettate a procedura semplificata ai sensi dell'art. 214 e segg. del citato d.lgs. n. 152 del 2006 (Sez. 3, n. 35000 del 29/05/2024, Lazzarin, Rv. 286898).
4.1. Una conclusione del genere non è smentita dal fatto che, come argomenta la difesa, nel donatore non sarebbe presente la volontà di disfarsi dell’indumento, che, quindi, non rientrerebbe nella definizione dell'art. 183, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 152 del 2006, a termini della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione ovvero l'obbligo di disfarsi.
Questa Corte ha, da tempo, chiarito che deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento del prodotto o tramite il suo recupero. E ciò sia per l'interpretazione della nozione legislativa nazionale, di cui al decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22, sia per le affermazioni della Corte di Giustizia della Comunità Europea, le cui decisioni sono immediatamente e direttamente applicabili in ambito nazionale, secondo cui la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell'ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l'applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dall'intenzione del detentore di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanza o degli oggetti di cui ci si disfa, o si sia deciso o si abbia l'obbligo di disfarsi (Sez. 3, n. 2125 del 27/11/2002, dep. 2003, Ferretti, Rv. 223291).
Si è precisato, inoltre, che la definizione di rifiuto esige - in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l'azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell'ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione - che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l'agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino, Rv. 269912).
4.2. Nel caso in esame, non può certamente dubitarsi che gli indumenti usati, conferiti tramite cassonetti o meditante raccolta porta a porta, siano da qualificarsi rifiuti, per l’evidente ragione che il detentore si è disfatto di tali beni con la chiara intenzione di non servirsene più, quale che sia il movente dell’azione, che, ad esempio, può essere sorretta da uno scopo di beneficenza.
4.3. Una conclusione del genere è confortata – e non smentita, come assume il ricorrente – dall’entrata in vigore della legge 19 agosto 2016, n. 166, recante “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli sprechi”.
4.3.1. In particolare, ai fini qui di interesse, rileva l’art. 14, rubricato “Distribuzione di articoli e accessori di abbigliamento usati a fini di solidarietà sociale”.
Ai sensi del comma 1, “si considerano cessioni a titolo gratuito di articoli e di accessori di abbigliamento usati quelle in cui i medesimi articoli ed accessori siano stati conferiti dai privati direttamente presso le sedi operative dei soggetti donatari”.
Il successivo comma 2 stabilisce che “I beni che non sono destinati a donazione in conformità a quanto previsto al comma 1 o che non sono ritenuti idonei ad un successivo utilizzo sono gestiti in conformità alla normativa sui rifiuti di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.
Il comma 3, infine, così recita “Al fine di contribuire alla sostenibilità economica delle attività di recupero degli indumenti e degli accessori di abbigliamento di cui al comma 1, favorendo il raggiungimento degli obiettivi di cui alla presente legge ed evitando al contempo impatti negativi sulla salute, al punto 8.9.3, lettera a), del sub allegato 1 dell'allegato 1 al decreto del Ministro dell'ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario n. 72 alla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 16 aprile 1998, le parole: «mediante selezione e igienizzazione per l'ottenimento delle seguenti specifiche» sono sostituite dalle seguenti: «mediante selezione e igienizzazione, ove quest'ultima si renda necessaria per l'ottenimento delle seguenti specifiche»”.
4.3.2. Orbene, lo scopo della norma è evidente: sottrarre dalla disciplina dei rifiuti gli indumenti usati ceduti a titolo gratuito a fini di solidarietà sociale, il che si verifica quando sono realizzate le condizioni previste dal comma 1, con riferimento sia all’individuazione dei soggetti donatari, sia alle modalità della consegna.
Quanto al primo aspetto, per “soggetti donatari”, come puntualizza l’art. 1, lett. b), della legge in esame, si intendono “gli enti pubblici nonché gli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche e solidaristiche e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività d'interesse generale anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale nonché attraverso forme di mutualità, compresi gli enti del Terzo settore di cui al codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo del 3 luglio 2017, n. 117”.
Quanto al secondo aspetto, gli indumenti usati devono esser conferiti dai privati direttamente presso le sedi operative dei soggetti donatari.
In difetto di tali condizioni – ossia nel caso in cui il soggetto donatario non sia tra quelli ricompresi nella definizione di cui all’art. 1, lett. b), e quando la consegna non avvenga secondo le modalità descritte – ovvero nel caso in cui gli indumenti non sono ritenuti idonei ad un successivo utilizzo, detti indumenti “sono gestiti in conformità alla normativa sui rifiuti di cui al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”, a riconferma che gli abiti usati, a meno che non siano ceduti a titolo gratuito a fini di solidarietà sociale secondo le modalità previste dall’art. 14 l. n. 166 del 2016, sono soggetti alla disciplina generale in tema di rifiuti.
4.4. Nel caso in esame, come già correttamente ritenuto dalla Corte di merito (cfr. p. 21 della sentenza impugnata), è perciò manifesta l’inapplicabilità delle più favorevoli disposizioni di cui all’art. 14 l. n. 166 del 2016 per il rilievo dirimente che il donatario non era un ente benefico, rientrante nella definizione di cui all’art. 1, lett. b), della legge in esame, bensì una società commerciale autorizzata al trattamento dei rifiuti, e, in ogni caso, gli indumenti non erano nemmeno conferiti presso le sedi operative del soggetto donatario, bensì mediante cassonetti o il ritiro porta a porta.
Nemmeno rileva la circostanza che, ai sensi del comma 3 dell’art. 14, la igienizzazione deve essere attuata solo se necessaria per raggiungere determinate specifiche tecniche, in quanto, nella vicenda qui al vaglio, l’obbligo di igienizzazione era espressamente previsto, come si è detto, dalle prescrizioni imposte con l’autorizzazione.
5. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Sezione, l'ingente quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti, già previsto dall'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 ed attualmente disciplinato dall'art. 452-quaterdecies cod. pen., deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità (ex multis, cfr. Sez. 3, n. 39952 del 16/04/2019, Radin, Rv. 278531-02; Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667; Sez. 3, n. 40827 del 06/10/2005, Carretta, Rv. 232348).
5.2. Orbene, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del principio ora evocato, avendo accertato – sulla scorta delle evidenze risultanti dai registri di carico e scarico, dal modello unico di dichiarazione ambientale, dalle fatture di acquisto e dal contenuto di talune conversazioni intercettate, in cui si discorre anche di venti quintali al giorno per un raccoglitore (tel. 3312 del 6 agosto 2015, indicata a p. 26 della sentenza impugnata) -, che la N.T.P. ha trattato illecitamente (almeno) 3.269,129 tonnellate di rifiuti nel 2014, e 3.360,002 tonnellate di rifiuti nel 2015, ciò che integra, secondo quanto ritenuto dai giudici di merito in maniera certamente non manifestamente illogica, l’elemento costitutivo rappresentato dall’essere “ingente” il quantitativo di rifiuti abusivamente gestito.
5.3. A fronte di tale motivazione, che il ricorrente non contesta, si oppone l’assunto interpretativo secondo cui la qualificazione come “ingente” dei rifiuti dovrebbe essere individuata in relazione alle quantità massime trattabili oggetto di autorizzazione amministrativa: un assunto erroneo, posto che, come già affermato da questa Corte, l'autorizzazione era subordinata al rispetto delle specifiche condizioni, la mancata realizzazione delle quali non consente, in difetto di parametri di riferimento, proporzioni di sorta tra i rifiuti astrattamente autorizzati e quelli di fatto gestiti (cfr. Sez. 3, n. 23347 del 14/05/2021, Conforti, in motivazione).
5.4. Né in senso contrario depone sentenza di questa Sezione n. 42631 del 2021, indicata dal difensore, la quale, nel conformarsi all’indirizzo dinanzi indicato al par. 5.1, ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, la quale aveva definito “ingente” il quantitativo dei rifiuti rapportandolo all'attività abusiva nel suo complesso e, dunque, valutando l'insieme delle operazioni illecite svolte che quand'anche, ove considerate singolarmente, potessero essere definite di modesta entità, sono state, invece, riferite al materiale complessivamente gestito, e al lungo arco temporale, pari a circa sei anni, in cui si è protratta.
6. Il terzo motivo è inammissibile per mancanza di interesse.
Deve osservarsi che il Tribunale, come risulta dal dispositivo, ha disposto “la confisca della somma pari a euro 2.360.869,95 quale profitto del reato”; in motivazione, dopo aver lungamente esposto i criteri adottati, ci si limita sic et sempliciter a disporre la confisca di detto profitto, quantificato nella misura dinanzi indicata (cfr. p. 88).
Orbene, in assenza di ulteriori specificazioni – non essendovi alcun riferimento alla confisca per equivalente, che certamente il Tribunale avrebbe potuto disporre - e considerando l’oggetto del provvedimento ablativo - vale a dire il profitto del reato – si tratta di confisca diretta, quindi disposta nei confronti della persona giuridica, e non di una confisca per equivalente avente ad oggetto i beni dell’imputato.
Ne deriva che, non essendo attinto dalla misura di sicurezza reale, l’imputato non ha alcun interesse a interloquire in ordine alla quantificazione del profitto del reato, oggetto di confisca diretta nei confronti della società.
7. Il quarto motivo è manifestamente infondato.
7.1. Premesso che la questione posta con il motivo in esame non risulta essere stata dedotta con l’appello, come risulta dalla ricapitolazione dei motivi, non oggetto di contestazione, sicché non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione, in ogni caso la stessa appare manifestamente infondata, in quanto la ricostruzione del fatto, come operata dai giudici di merito, ossia l’abusiva commercializzazione di migliaia di tonnellate di indumenti usati, non lascia alcun dubbio sulla concreta messa in pericolo del bene tutelato.
7.2. La prospettazione difensiva, d’altro canto, assume un presupposto interpretativo erroneo, laddove pare ricostruire il delitto in esame quale fattispecie di danno, in evidente contrasto con la costante elaborazione giurisprudenziale, secondo cui, per l’integrazione del reato di traffico illecito di rifiuti - originariamente punito dall’art. 53 bis d.lgs. n. 22 del 1997, quindi dall’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 e, attualmente, dall’art. 452-quaterdecis cod. pen. -, non è necessario un danno ambientale, né la minaccia grave di danno ambientale, atteso che la previsione di ripristino ambientale non muta la natura del reato da reato di pericolo presunto a reato di danno (cfr. Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, dep. 2013, Accarino, Rv. 255395; Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, dep. 03/02/2006, Samarati, Rv. 233294).
Stante, dunque, la natura di reato di pericolo della fattispecie di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 – ciò che vale per la nuova e corrispondente fattispecie ex art. 452-quaterdecies cod. pen., strutturalmente riconducibile alle precedenti - non può che ribadirsi l'irrilevanza, ai fini della tipicità penale, della verifica della sussistenza di un danno.
8. Il quinto motivo è inammissibile perché generico e fattuale.
8.1. Invero, la Corte d’appello ha evidenziato che l’imputato gestiva una società autorizzata al trattamento dei rifiuti, nel cui oggetto sociale non era affatto ricompresa la commercializzazione di capi di abbigliamenti e che certamente non era soggetto destinatario delle donazioni, prova ne è che lo Scarano si procurava dai privati l’abbigliamento usato attraverso la fraudolenta esposizione del logo della onlus “Africa nel cuore”.
Al proposito, la Corte di merito ha logicamente spiegato la sussistenza del dolo, facendo puntuale riferimento al contenuto di alcune conversazioni telefoniche (si incidano la n. 8855 del 19 febbraio 2015 e la n. 695 dell’1 luglio 2015, riportate a p. 31 della sentenza impugnata), da cui risulta la piena consapevolezza, in capo all’imputato, che gli indumenti usati erano da qualificarsi come rifiuti, tanto che egli si mostrava insofferente rispetto alle previsioni legislative che imponevano l’obbligo di igienizzazione quale modalità di recupero.
La Corte di merito, inoltre, ha ritenuto irrilevante, per escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo, l’intervenuta assoluzione dello Scarano, per fatti analoghi, da parte della più volte indicata sentenza del Tribunale di Genova, per la dirimente ragione che essa è stata emessa nel 2021, e, quindi, molto tempo dopo i fatti oggetto del processo.
8.2. A fronte di tale motivazione, nella quale non è dato ravvisare alcun profilo di illogicità manifesta, il ricorrente confezione un motivo di contenuto fattuale che, quindi, non supera il vaglio di ammissibilità, esulando dai casi previsti dall’art. 606 cod. proc. pen.
9. Il sesto motivo è inammissibile.
9.1. Si rileva che la Corte di merito, con una valutazione di fatto certamente non manifestamente illogica, ha escluso, nel caso concreto, la sussistenza di elementi valorizzabili ex art. 62-bis cod. pen., in ciò facendo corretta applicazione del principio secondo cui il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590).
9.2. Al cospetto di tale motivazione, il motivo si rileva generico, posto che gli elementi dedotti dal ricorrente sono del tutto inconsistenti, posto che o sono insussistenti, quali le asserite incertezze interpretative in materia ed essendo lo Scarano pienamente consapevole dalla qualità di rifiuti degli indumenti usati, ovvero irrilevanti, quali l’assenza di danno all’ambiente e la circostanza che la N.T.P. non è stata più nelle condizioni di operare, e, comunque, non sono in grado di connotare il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre (cfr. Corte costituzionale sent. n. 197 del 2023).
10. Per i motivi indicati, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17/12/2024.