SULLA OBBLIGATORIETÀ DELLA CONFISCA DI BENI CULTURALI APPARTENENTI ALLO STATO ILLECITAMENTE ESPORTATI
di Pierluigi Cipolla
Pubblicato su Giur. merito 9\2011
Il provvedimento annotato è in calce all'articolo
Sommario:1. Premessa. “ 2. I requisiti oggettivi del delitto di esportazione illecita di cose di interesse artistico e archeologico. “ 3. (segue) L'esportazione di beni culturali appartenenti allo Stato. “ 4. Confisca di beni culturali ricettati e confisca di oggetti di interesse artistico, storico, archeologico illecitamente esportati. “ 5. (segue) Limiti soggettivi alla confisca di beni culturali ricettati e confisca di oggetti di interesse artistico, storico, archeologico illecitamente trasferiti all'estero. “ 6. Nostra opinione: la natura extracommercium del reperto archeologico scoperto dopo il 1909 esclude l'«appartenenza» a terzi. “ 7. Confisca, estinzione del reato per prescrizione, archiviazione. “ 8. Destinazione della res in caso di inconfiscabilità. “ 9. Conclusioni.
1. PREMESSA
Il decreto in commento affronta con rigore una serie di questioni di diritto penale sostanziale e processuale relative alla tematica dei beni culturali e degli oggetti di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico:
1) se e a quali condizioni si possa disporre la confisca di reperti archeologici illecitamente esportati all'estero;
2) quale rilevanza presenti l'acquisto del terzo;
3) se possa essere applicata la confisca pur in caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione;
4) se l'ordine di confisca possa essere disposto contestualmente all'archiviazione.
La dovizia di argomenti e i plurimi richiami giurisprudenziali su cui si fonda il decreto in esame potrebbe rendere superfluo ogni ulteriore commento; appare utile tuttavia un più ampio inquadramento della materia, anche al fine di constatare se e in che misura il provvedimento de quo appaia conforme al diritto vivente.
L'estensore del decreto in commento, chiamato a pronunciarsi in qualità di giudice dell'esecuzione sulla confiscabilità di un importante reperto archeologico («L'atleta vittorioso») rinvenuto nelle acque antistanti Fano, una volta esposte le vicende traslative della scultura e aver tratteggiato il (complesso) quadro normativo dei beni culturali appartenenti allo Stato aventi natura archeologica, si è soffermato sulla confiscabilità del bene illecitamente esportato e in particolare sui limiti soggettivi della confisca ex art. 174 d.lg. n. 42 del 2004 codice dei beni culturali (d'ora in poi c.b.c.), concludendo per la non operatività di tali limiti al cospetto di beni assolutamente non commerciabili. La sintesi del discorso si rinviene in questo passo: «trattandosi di un bene di interesse storico e archeologico appartenente allo Stato, la cui circolazione è vietata in modo assoluto, si verte in una ipotesi di confisca obbligatoria ai sensi dell' art. 240 comma 2 c.p.». Infine, avendo ipotizzato anche l'applicabilità della confisca prevista dalla legge speciale il giusdicente ha esposto gli elementi sulla base dei quali ha escluso la buona fede degli acquirenti stranieri.
Il punto centrale del provvedimento consiste quindi nel problema relativo all'esistenza o meno di limiti soggettivi della confisca, nell'ipotesi di esportazione clandestina di res archeologica appartenente allo Stato.
Prima di affrontare la questione specifica, sarà dunque opportuno rievocare i profili sostanziali delle fattispecie in parola.
2. I REQUISITI OGGETTIVI DEL DELITTO DI ESPORTAZIONE ILLECITA DI COSE DI INTERESSE ARTISTICO E ARCHEOLOGICO
Il reato di cui all' art. 174 c.b.c. consta, 1) nel materiale trasferimento al di fuori del territorio dello Stato, 2) nell'interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico delle cose trasferite all'estero, 3) nel difetto dell'attestato di libera circolazione o della licenza di esportazione.
Da un confronto con la fattispecie della ricettazione dei beni culturali (art. 648 c.p. in relazione all'art. 176 c.b.c.) risulta di tutta evidenza come nel reato di illecita esportazione non sia richiesto il carattere della «culturalità» dell'oggetto materiale della condotta, il che elimina, d'emblée, le varie e complesse questioni che avviluppano quel requisito (1).
Infatti, l'oggetto materiale del reato in esame (così come l' oggetto materiale del reato di mancato o tardivo rientro in violazione dei termini imposti nell'attestato di temporanea esportazione) deve presentare un obiettivo interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, e non è richiesta alcuna dichiarazione o notifica (2) , né si pretende l'appartenenza in capo allo Stato, così come avviene per i «beni culturali di natura archeologica» (3) . Sotto il primo profilo è sufficiente che la res abbia un intrinseco valore artistico, il cui apprezzamento è rimesso all'autorità giudiziaria (4) ; di qui, l'obbligo di richiedere l'attestato di libera circolazione e nell'attesa, astenersi dal trasferimento all'estero (5) ; tra l'altro in caso di esportazione abusiva, il bene è soggetto a confisca, salvi i diritti dei terzi (6) . Tale regime era analogo prima dell'entrata in vigore del codice dei beni culturali (artt. 36 e 66 l. n. 1089 del 1939) (7) .
Conseguentemente, l'impianto probatorio che incombe sull'accusa appare meno oneroso, rispetto a quello previsto per il reato di impossessamento e ricettazione di beni culturali (artt. 176 c.b.c. e 648 c.p.), laddove occorre provare non solo l'obiettivo interesse culturale, ma anche il prelevamento dell'oggetto dal sottosuolo e dai fondali marini in epoca successiva al 1909.
3. (segue) L'ESPORTAZIONE DI BENI CULTURALI APPARTENENTI ALLO STATO
Qualora, poi, la cosa di interesse artistico, storico, archeologico rientri tra i beni culturali l'esportazione è vietata (8) , in tale ipotesi, quindi, l'attestato non potrà essere richiesto né rilasciato. Analogamente disponeva la l. n. 1089 del 1939 (9) .
Laddove, infine, la cosa di interesse artistico, storico, archeologico costituisca bene culturale e appartenga allo Stato (o a enti pubblici territoriali), alle conseguenze dell'incriminazione per il reato di cui all'art. 174 c.b.c. si sommano gli effetti civili: già gli artt. 23 e 24 l. n. 1089 del 1939 prescrivevano l'inalienabilità delle cose mobili e immobili appartenenti allo Stato, alle province e ai comuni, salvo diverso provvedimento del Ministro della pubblica istruzione; a sua volta l'art. 823 c.c. ha introdotto la regola dell'inalienabilità assoluta e inusucapibilità dei beni facenti parte del demanio pubblico (beni immobili e raccolte di musei); l'art. 826 c.c. ha inserito nel patrimonio indisponibile dello Stato le cose mobili di interesse storico e archeologico; in seguito il d.lg. n. 490 del 1999 (testo unico beni culturali) ha esteso ai beni culturali appartenenti agli enti pubblici territoriali il regime proprio del demanio pubblico. Infine l'art. 53 c.b.c. ha escluso l'alienabilità i beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni e agli altri enti pubblici territoriali rientranti nelle tipologie indicate all'art. 822 c.c., se non nei limiti e con le modalità previsti dal codice stesso.
La conseguenza è di tutta evidenza: l'acquisto di opera d'arte avente il carattere di bene culturale, di proprietà dello Stato o di un ente territoriale, illecitamente trasferita all'estero è nullo, né tale invalidità può essere sanata dall'usucapione o da altro acquisto a titolo originario.
4. CONFISCA DI BENI CULTURALI RICETTATI E CONFISCA DI OGGETTI DI INTERESSE ARTISTICO, STORICO, ARCHEOLOGICO ILLECITAMENTE ESPORTATI
Passando al tema specifico della confiscabilità dei beni di natura archeologica, in sublata materia il regime della più importante misura di sicurezza reale varia a seconda che si verta in beni culturali provento di ricettazione ovvero in cose di interesse artistico, storico, archeologico trasferite all'estero.
Infatti, per il delitto di ricettazione (così come per la fattispecie base, costituita dal delitto di impossessamento di beni culturali) deve richiamarsi la disciplina ordinaria, in base alla quale «nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato o delle cose che ne sono il prodotto, o il profitto» (art. 240 comma 1 c.p.). Non è possibile infatti applicare la più rigida regola della confisca obbligatoria, di cui al secondo comma del medesimo art. 240 c.p.: «è sempre ordinata la confisca 1) delle cose che costituiscono il prezzo del reato 2) delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna», dato che la ricettazione implica logicamente la detenzione, ma non si risolve in essa (10) .
Da qui consegue che i beni culturali oggetto di ricettazione possono essere confiscati solo in caso di condanna. In tale eventualità, i reperti saranno affidati al Ministero oppure alla Soprintendenza del luogo dal quale provengono.
Al contrario, nell'ipotesi di assoluzione per insussistenza del fatto, per carenza del requisito di culturalità o per acquisto del possesso in epoca antecedente al 1909, i reperti devono essere restituiti al privato (11) . Questo esito non è ineluttabile nel caso di assoluzione per difetto dell'elemento psicologico, o «per non aver commesso il fatto»: occorrerà infatti accertare l'appartenenza dei beni e quindi disporne la restituzione all'avente diritto, se del caso lo Stato, anche a prescindere da idonea istanza dell'organo pubblico (12) . Sul punto v. infra.
La disciplina varia con riguardo ai beni oggetto del delitto di illecita esportazione; infatti in base all'art. 174 c.b.c. (conforme alle norme omologhe pregresse, ivi compreso l'art. 66 l. n. 1089 del 1939, come scaturito dall'intervento della Corte costituzionale) (13) «il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che esse appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando», il che vuol dire, in coerenza con la giurisprudenza in tema di confisca obbligatoria, che la misura di sicurezza è applicata sempre, tranne nel caso di assoluzione per insussistenza del fatto, e salvi i diritti delle persone estranee al reato.
Nel decreto in commento si saggia l'ipotesi che la norma applicabile in caso di trasferimento illecito di beni culturali debba individuarsi nell'art. 240 comma 2 c.p.; all'uopo sono esposti plurimi argomenti (v. punto 5 del decreto).
E tuttavia l'applicabilità dell'art. 174 c.b.c., nella fattispecie che interessa è indiscutibile, in virtù della palese specialità della disposizione in parola rispetto alla omologa codicistica (14) . A questa soluzione perviene, alla fine, anche l'estensore del provvedimento de quo (v. punto 6).
Le conseguenze non sono di poco conto: l'art. 240 comma 2, n. 2, c.p. prevede un caso di confisca obbligatoria inderogabile, ossia senza eccezioni; al contrario l'art. 174 c.b.c. contempla una clausola di salvaguardia a favore dei terzi estranei al reato.
Il problema si sposta dunque sulla esatta delimitazione di siffatta clausola di salvaguardia, il che si traduce, laddove la res illecitamente esportata appartenga allo Stato, nella soluzione del conflitto tra l'«appartenenza» originaria in capo allo Stato e l'«appartenenza» al terzo estraneo al reato.
5. (segue) LIMITI SOGGETTIVI ALLA CONFISCA DI BENI CULTURALI RICETTATI E CONFISCA DI OGGETTI DI INTERESSE ARTISTICO, STORICO, ARCHEOLOGICO ILLECITAMENTE TRASFERITI ALL'ESTERO
Nel decreto in commento, pur sostenendosi l'ipotesi della confiscabilità dell'«atleta vittorioso» ex art. 240 comma 2 c.p., al fine di dissipare ogni dubbio è stata applicata anche la confisca prevista dalla legge speciale, previa esclusione nello specificoo del menzionato limite soggettivo posto a tutela dei diritti dei terzi. In particolare si legge nel provvedimentoo il possessore del bronzo antico non aveva provato la propria buona fede a causa del difetto in capo al dante causa del titolo originario di proprietà.
Nell'iter argomentativo logico giuridico seguito nel decreto appaiono particolarmente ampie le notazioni sul concetto di «persona estranea al reato» (punto 6: la confisca prevista dall'art. 1754 d.lg. n. 42 del 2004 e la nozione di appartenenza a terzo estraneo al reato). In sintesi, si afferma che 1) «terzo estraneo» è chiunque non abbia tratto un qualche profitto dall'illecito penale; 2) che la cosa può definirsi «appartenente» al terzo estraneo quando sia stata acquistata in buona fede, in quanto requisito necessario per il perfezionarsi dell'acquisto a non domino; 3) la buona fede deve essere provata da chi l'invoca; 4) se si verte in bene extracommercium l'acquisto non può dirsi perfezionato nonostante e indipendentemente dalla buona fede del terzo.
In effetti, quanto al primo punto, la giurisprudenza ha escluso che possa considerarsi «estraneo» colui che non ha partecipato al processo e tuttavia risulta implicato nel reato (15) per avervi partecipato con attività variamente connessa (16) , o anche per aver evidenziato un collegamento diretto o indiretto con il reo (17) ; del pari ha escluso l'estraneità rispetto al reato di chi abbia partecipato all'utilizzazione dei profitti (18) o sia implicato moralmente con lo stesso (19) .
Correlativamente la dottrina ha escluso dall'ambito della «persona estranea al reato» non solo come ovvio chi ha concorso alla realizzazione del reato, ma anche a chi vi ha partecipato con attività altrimenti connessa (20) e comunque chi ha tratto dal reato un illecito profitto (21) ; sulla base di questa impostazione, si è prospettata la confiscabilità di una cosa rientrante tra gli oggetti elencati dall' art. 240 c.p. allorché appartenente alla persona giuridica nella quale sia incardinato l'autore del fatto (22) .
Quanto al secondo punto, il diritto vivente ritiene «estraneo al reato» l'acquirente in buona fede, in base a titolo idoneo, ex art. 1153 c.c. e in mancanza di titolo idoneo, ex art. 1161 c.c.; su questa linea si pone la Cassazione penale nella nota sentenza imp. Pludwinski, specificamente in materia d'arte (23) , secondo cui «l'appartenenza della cosa ... deve essere limitata con riferimento alla tutela dei principi di affidamento e della circolazione giuridica dei beni mobili e quindi all'acquirente in buona fede».
La giurisprudenza della Corte costituzionale (24) fornisce lo spunto per una ermeneusi della disciplina in materia di confisca obbligatoria volta a circoscrivere i terzi «estranei al reato» agli acquirenti «incolpevoli»; in breve, il concetto di «estraneità al reato», spesso ancorato alla buona fede come mera ignoranza dell'illecito (25) , dovrebbe essere meglio identificato con l'ignoranza incolpevole e comunque con il difetto di colpa (26) . In tal modo, il limite dell'obbligatorietà della confisca obbligatoria a favore dei terzi estranei al reato opererebbe solo allorché questi dimostrino di aver acquistato ignorando la illiceità della res e di non essere incorsi in qualsivoglia difetto di vigilanza.
In concreto, in sublata materia, non potrebbe definirsi incolpevole l'acquirente di oggetto d'arte che abbia omesso di pretendere l'esibizione del titolo di proprietà del dante causa e dell'attestato di libera circolazione o che sia stato attratto da un prezzo eccessivamente favorevole, comunque lontano dalle quotazioni di mercato.
Quanto al terzo punto, costituisce conquista del pensiero giuridico contemporaneo l'insegnamento per cui spetta a chi richiede la restituzione la prova della estraneità al reato (27) e quindi dell'ignoranza incolpevole della natura illecita della res(28) . Da ciò consegue che gli ambiti di operatività della citata clausola di riserva a favore dei terzi estranei, in caso di esportazione abusiva, risultano alquanto ridotti.
6. NOSTRA OPINIONE: LA NATURAEXTRACOMMERCIUMDEL REPERTO ARCHEOLOGICO SCOPERTO DOPO IL 1909 ESCLUDE L'«APPARTENENZA» A TERZI
A fronte dell'encomiabile sforzo dell'organo giusdicente nella puntuale dimostrazione nel caso di specie del difetto di prova in ordine alla buona fede dell'acquirente non può non rilevarsi la preminenza dell'argomento pure rinvenibile nel decreto in parola afferente alla natura extra commercium dell'Atleta vittorioso.
Infatti, allorché l'esportazione abbia ad oggetto beni culturali appartenenti allo Stato, perché scoperti o rinvenuti dopo il 1909, l'«appartenenza» in capo agli acquirenti in buona o mala fede non importaa deve escludersi in radice, vertendosi in beni appartenenti a titolo originario al demanio statale. A tacer d'altro, l'atto di acquisto, in quanto afferente a bene demaniale, sarebbe irrimediabilmente nullo (29) ; né sarebbe consentita l'usucapione.
Non diversamente si è ritenuto, con riguardo alla analoga confisca di cui all'art. 127 ult. comma d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490 (ora art. 178 c.b.c.), che quando una res è extracommercium non può entrare nell'asse ereditario e quindi l'erede del reo non può vantare diritti su di essa (30) .
Se dunque il limite soggettivo alla confisca ex art. 174 c.b.c. non può mai operare al cospetto di reperti archeologici scoperti o rinvenuti dopo il 1909, perché non appartenenti a nessun altro diverso dallo Stato, confisca deve essere disposta senza eccezioni: in tale specifico caso, l'articolato sistema costituito dagli artt. 15 l. 20 giugno 1909, n. 364, 822 ss c.c., 53 e 174 c.b.c. impone che i diritti dei terzi debbano sempre cedere rispetto ai prevalenti diritti dello Stato.
7. CONFISCA, ESTINZIONE DEL REATO PER PRESCRIZIONE, ARCHIVIAZIONE
Nel provvedimento in epigrafe si esclude altresì che l'archiviazione per prescrizione inibisca la declaratoria relativa alla confisca. All'uopo si richiama altra ordinanza emessa dal medesimo ufficio in data 12 giugno 2009, nonché due pronunce delle sezioni unite del 1993 e del 2008, nonché la sentenza della I sezione del 4 dicembre 2008, n. 2453, che ha ritenuto legittimi gli accertamenti finalizzati alla pronuncia della confisca anche nell' ipotesi di declaratoria di estinzione del reato
In linea generale il problema dei rapporti tra confisca e estinzione per prescrizione è destinato ad acuirsi, a seguito della modifica degli artt. 157, 158 e 161 c.p. ad opera della l. 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. ex Cirielli. Infatti, l'ancoraggio del tempo a prescrivere alla pena edittale, il contenuto aumento del termine prescrizionale massimo in caso di interruzione e l'identificazione del dies a quo per il calcolo della prescrizione con il dies commissi delicti di ognuno dei reati avvinti dal medesimo disegno criminoso ex art. 81 comma 2 c.p. hanno drasticamente ridotto il termine prescrizionale, con la conseguenza che di sovente all'atto della scoperta del fatto il reato è già prescritto o è prossimo alla prescrizione, per la gioia di tombaroli, mercanti d'arte disonesti e collezionisti senza scrupoli.
In effetti, se è vero che in forza dell'art. 236 comma 2 c.p., non si applicano alla confisca le disposizioni dell' art. 210 c.p. in base alle quali l'estinzione del reato impedisce l'applicazione delle misure di sicurezza e ne fa cessare l'esecuzione (art. 210 c.p.), tuttavia la Suprema Corte a sezioni unite ha ritenuto che in tal caso si debba aver riguardo alle previsioni dell' art. 240 c.p. (31) e l'art. 240 comma 1 c.p., come si è visto, nel subordinare la confisca alla condanna, inibisce l'applicazione di questa peculiare mi sura di sicurezza in caso di estinzione dei reati di ricettazione o impossessamento di bei culturali.
E così, per la giurisprudenza prevalente, «in assenza del presupposto costituito da una pronuncia di condanna, non può essere disposta la confisca di cui al comma 1 dell' art. 240 c.p. qualora venga dichiarata la prescrizione del reato di ricettazione di reperti archeologici di particolare valore; né può applicarsi, in tali ipotesi, il precetto di cui al comma 2, n. 2, della medesima disposizionee in tema di confisca obbligatoriaa trattandosi di beni il cui trasferimento, pur se assoggettato a particolari condizioni o controlli, non rende gli stessi illeciti e la cui detenzione non può reputarsi vietata in assoluto, bensì subordinata a determinate condizioni volute dalla legge» (32) .
Diverso è il caso dei beni di interesse artistico, storico, archeologico illecitamente esportati, dato che qui, come noto, la confisca è obbligatoria, salvi i diritti dei terzi estranei al reato, ex art. 174 comma 3 c.b.c. In tal senso, da ultimo, Cass., sez, III, 4 novembre 2009, Zerbone (33) : «la confisca prevista per il reato di esportazione abusiva di beni culturali va disposta oltre che in caso di pronuncia di condanna anche in ipotesi di proscioglimento per cause che non riguardino la materialità del fatto e non interrompano il rapporto tra la res e il reato fattispecie di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione».
Così tratteggiati i rapporti tra declaratoria di estinzione per prescrizione e confisca, resta da domandarsi se il diritto processuale inibisca la confisca in sede di archiviazione. Nel decreto al quesito si risponde in senso negativo: «le censure difensive sulla inammissibilità ... della confisca in presenza di un decreto di archiviazione per prescrizione del reato non appaiono condivisibili».
In punto di rito, si può aggiungere che il provvedimento di confisca deve considerarsi atto afferente alla fase esecutiva, giuridicamente scindibile e autonomo rispetto a quello di archiviazione (34) .
E ciè è tanto vero che contro la confisca applicata in sede di archiviazione l'unico rimedio esperibile consiste nell'incidente ex art. 676 comma 1 c.p.p. che afferisce proprio al procedimento di esecuzione (35) .
Un'ultima notazione sull'argomento. Si sostenne a suo tempo che l'ordine di confisca non potesse essere pronunciato contestualmente all'archiviazione a causa della natura de plano di questo provvedimento (36) . In realtà il decreto di archiviazione presenta la stessa natura della sentenza di proscioglimento all'esito dell'udienza preliminare: al pari di questa consegue all'attività investigativa, deve essere giustificato sulla base della insostenibilità dell'azione in giudizio (art. 408 c.p.p. e art. 125 att. c.p.p.) e può essere posto nel nulla da nuovi elementi di prova, riconosciuti come tale da un provvedimento giurisdizionale. Tra l'altro, ai fini della capacità a testimoniare, come è noto, la condizione dell'indagato beneficiario di un provvedimento di archiviazione è identica a quella dell'imputato prosciolto all'esito di udienza preliminare. In forza della constatata analogia tra i citati provvedimenti, se non è contestata la possibilità di applicare la confisca contestualmente al proscioglimento all'esito di udienza preliminare, non si vede cosa impedisca analogo risultato in caso di archiviazione.
Tra l'altro ogni altra soluzione sfiorerebbe l'assurdo: infatti, il pubblico ministero dovrebbe esercitare l'azione penale al solo fine di ottenere l'ordine di confisca all'esito del giudizio, benché il reato sia prescritto ovvero sia palese il difetto dell'elemento soggettivo o addirittura l'imputato sia deceduto (37) .
8. DESTINAZIONE DELLARESIN CASO DI INCONFISCABILITÀ
La complessa materia della confisca di beni culturali illecitamente esportati lascia spazio ad una questione che il decreto in commento non ha affrontato, visto l'esito del giudizio (confisca del bene): quid juris allorché non si possa dar luogo alla confisca?
In tema di beni culturali, qualora l'accusa contempli il reato di ricettazione, e si pervenga a condanna, la restituzione dovrà effettuarsi a favore di chi risulti proprietario in base alla normativa civilistica e alle disposizioni speciali di cui alla l. 1 giugno 1939, n. 1089 (38) . Con la precisazione che ove la questione emerga in sede esecutiva (art. 263 comma 6 c.p.p.) la prova della legittimità del possesso spetterà a colui che ha subito il sequestro (39) .
Infatti, in sede civile, incombe al privato l'onere della prova della scoperta e appropriazione anteriormente all'entrata in vigore della l. 20 giugno 1909, n. 364 non solo nel caso in cui ricorra al giudice civile per ottenere la restituzione della res, secondo la regola generale di cui all' art. 2697 c.c., ma anche quando ad agire sia la pubblica amministrazione: la Cassazione civile da tempo ripartisce in tal modo l' onere della prova a danno del privato sulla base della presunzione di proprietà statale dei reperti archeologici (40) .
La conseguenza è presto detta: all'infuori del caso di prova positiva dello scavo in epoca antecedente al 1909, la res, pur non confiscata, va restituita allo Stato, vertendosi di oggetto appartenente allo Stato a titolo originario.
Quanto agli oggetti d'arte «esportati», allorché risulti il rilascio dell'attestazione di libera circolazione, e quindi manchi il presupposto oggettivo del reato, ovviamente non si farà luogo alla confisca e l'avente diritto sarà l'autore dell'esportazione ovvero l'acquirente che abbia subito il sequestro. Un problema a parte che non si può affrontare in questa sede riguarda il caso dell'attestazione esistente ma illegittima, ideologicamente, frutto di induzione di errore.
Laddove l'elemento oggettivo del reato sussista e tuttavia per qualunque motivo non si pervenga alla condanna, per la nota clausola di salvaguardia dei terzi non si darà luogo alla confisca qualora l'avente causa provi la sua buona fede: questi sarà il beneficiario del provvedimento di restituzione.
Del pari, anche in caso di condanna, per lo stesso limite soggettivo della confisca il bene dovrà essere restituito all'acquirente in buona fede.
Richiamato quanto già detto (v. supra punto 5) in ordine alla inevitabile confiscabilità di bene culturale appartenente allo Stato e alla conseguente impossibilità giuridica di una restituzione al «terzo», quand' anche in buona fede, vi è da aggiungere che perfino quando il fatto non sussista, a causa della presenza di un attestato di libera circolazione, evidentemente frutto di errore il reperto archeologico scoperto o rinvenuto dopo il 1909 e ogni altro bene culturale di proprietà statale non potrà essere incamerato dall'autore dell'esportazione o dall'avente causa in buona fede, vertendosi in una res appartenente al demanio dello Stato. In questa ipotesi tuttavia non si darà luogo alla confisca, bensì alla mera «restituzione».
9. CONCLUSIONI
La peculiarità del regime giuridico che attinge i beni culturali appartenenti allo Stato implica forti deviazioni dalla disciplina ordinaria in tema di confisca.
Infatti, come si è visto, in caso di assoluzione per difetto dell'elemento psicologico ovvero per estraneità al fatto o in caso di sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione non si può pervenire alla confisca del reperto archeologico scoperto o rinvenuto dopo il 1909 e ricettato; tuttavia il bene andrà restituito allo Stato. Qualora l'imputazione abbia ad oggetto l'esportazione illegale di un'opera d'arte, il corpo del reato andrà confiscato non solo in caso di condanna, ma anche qualora il reato sia estinto per prescrizione, salvi i diritti dei terzi in buona fede. Tale clausola di salvaguardia, tuttavia, non opererà qualora la res esportata consista in un bene culturale appartenente allo Stato: il più volte menzionato limite soggettivo alla confisca presuppone infatti non solo la buona fede, ma anche l'«appartenenza» del bene al terzo, «appartenenza» che dovrà escludersi in radice al cospetto di beni di proprietà statale a titolo originario.
Il regime giuridico secolare che contrasta consente la dispersione del patrimonio culturale è ormai entrato nella coscienza collettiva e costituisce espressione di valori condivisi a livello internazionale. Tra l'altro, eccezionale nel nostro ordinamento, il combinato disposto tra gli artt. 823 ss. c.c. e l'art. 174 c.b.c. rende difficile l'esito gravemente immorale della disciplina codicistica della confisca, in base alla quale il provento, il profitto, il prodotto e il prezzo del reato sono destinati a restare nel godimento del reo non punibile per qualsiasi causa e perfino la confisca obbligatoria trova un limite nei diritti di terzi, sia pure incolpevoli. A causa di siffatta ineffabile disciplina, operante in materia urbanistica, ecomostri non bonificabili testimonieranno in perpetuo l'attuale stato di decadenza della civiltà occidentale.
Resta l'auspicio che la giurisprudenza, per mezzo di una lettura particolarmente restrittiva del concetto di «terzo estraneo al reato» riduca ulteriormente i limiti soggettivi alla confisca dei beni d'arte, così che il patrimonio culturale italiano già irreparabilmente depauperato da decenni di rapine non subisca ulteriori guasti.
Note
(1)Sullo specifico punto, il diritto vivente è ormai attestato nel senso di ravvisare una «presunzione di culturalità», almeno fino alla verifica di cui all'art. 12 c.b.c. (con la particolarità che in precedenza i soggetti pubblici diversi dallo Stato concorrevano all' individuazione del carattere culturale mediante la presentazione degli elenchi e delle denunce; attualmente la verifica è disposta dal Ministero ancheex officio si spera in questo modo che la presunzione di culturalità sia meno provvisoria “ e riguarda altresì i beni dello Stato. (Sulle differenze tra il precedente sistema della individuazione dei beni culturali pubblici mediante elenchi e denunce, e l'attuale meccanismo della verificaSciullo,Articolo 12. Verifica dell' interesse culturale, inAa.Vv.Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di Cammelli, Bologna, 2004, 113). Con riguardo ai beni che presentano un interesse artistico, storico, archeologico, o etnoantropologico appartenenti allo Stato (art. 10 comma 1 c.b.c.), senza necessità, quindi, che siano stati qualificati come tali nel provvedimento formale dell'autorità amministrativa previsto dall'art. 13 stesso Codice: v Cass., sez. III, 11 gennaio 1986, Picchiarallo, inCed Cass., n. 171514: «non è sufficiente la sempliceantiquitas perché la cosa appartenente ad antiche civiltà sia considerata di interesse archeologico e soggetta alla disciplina della legge. tale assoggettazione, infatti, non consegue alla semplice appartenenza della cosa ad una data categoria, (cosa d'antichità e d'arte ecc.) ma alla appartenenza qualificata dall'interesse culturale»; Cass., sez. III, 8 novembre 1985, Carraro, inCed Cass., n. 170991: «requisito indefettibile perché la cosa sia tutelata dalla l. 1 giugno 1939, n. 1089 è il suo interesse (nelle varie gradazioni) per l'antichità e l'arte (artt. 1, 2, 3, 5 legge citata); la tutela non consegue invero per la semplice appartenenza della cosa a date categorie, cosa artistica, storica, archeologica, ecc., ma quando l'appartenenza a tali categoria sia qualificata da un interesse culturale pubblico. È infatti evidente che, perché il bene culturale sia tale, la cosa deve avere la dignità di testimonianza materiale avente valore di civiltà»; Cass., sez. III, 5 maggio 1997, Leonelli, inCed Cass., n. 208026: «In tema di omessa denuncia di reperti archeologici (art. 48 legge 1giugno 1939, n. 1089), l'elemento psicologico deve riguardare sia la condotta omissiva, sia la qualità della cosa e, cioé, la percepibilità della nota di valore. È, pertanto, necessario che le cose rinvenute presentino un interesse culturale oggettivo, indipendentemente da un formale provvedimento dell' autorità' amministrativa. Questo interesse può essere spesso desunto dalle caratteristiche dellares.L'errore incolpevole può essere addotto, nell'ipotesi in cui si tratti di oggetti di larga diffusione in una determinata zona, frutto di una generalizzata scoperta. Esso, invece, non è invocabile, qualora l'erede non abbia accertato che la denuncia sia stata presentata dal suo dante causa»; Cass., sez. III, 16 dicembre 2003, Petroni, inRiv. giur. ed., 2004, I, 1124 per cui «per l' accertamento del delitto di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato è necessario che le cose rinvenute presentino un interesse culturale oggettivo indipendentemente da un formale provvedimento dell' autorità amministrativo, desumibile dalle stesse caratteristiche dell' oggetto, poiché non è richiesto un particolare pregio nelle cose archeologiche» e Cass., sez. III, 24 dicembre 2001, Cricelli inCass. pen., 2002, 3858 per cui «l'interesse culturale oggettivo può essere desunto dalle caratteristiche dellares non solo per il valore comunicativo spirituale, ma anche per i requisiti peculiari attinenti alla tipologia, alla localizzazione, alla rarità e ad altri analoghi criteri». Più recentemente, in sede penale, la Suprema Corte in sentenza n. 21400 del 15 febbraio 2005, Pavoncelli (inCed Cass., n 231638 e inCass. pen., 2006, 46 con nota critica diPioletti,Considerazioni sull'obbligo di denuncia per il privato del trasferimento di beni culturali non notificati) ha affermato espressamente che «in tema di beni culturali, il riferimento contenuto nell' art. 2 d.lg. 22 gennaio 2004, n 41 alle altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà costituisce una formula di chiusura che consente di individuare il bene giuridico protetto dalle nuove disposizioni sui beni culturali e ambientali non soltanto nel patrimonio storico-artistico-ambientale dichiarato, ma anche in quello reale, ovvero in quei beni protetti in virtù del loro intrinseco valore, indipendentemente dal previo riconoscimento da parte delle autorità competenti». Nello stesso senso, ancor più risolutamente, la Cassazione civile: «resta ... il principio fondamentale per cui fino al compimento della verifica della culturalità qualora questa dovesse aver esito negativo le cose sono comunque sottoposte alla legislazione di tutela (art. 12 comma 1) e che la verifica concernente i beni di proprietà pubblica, non si estrinseca in una formale dichiarazione (art. 13 comma 2 codice). ... Il riconoscimento di culturalità non è provvedimento costitutivo, che si basi sull' esercizio della discrezionalità amministrativa, ma solo atto di certazione, che rivela prerogative che il bene possiede per le sue caratteristiche» (Cass., sez. I, 31 gennaio 2006, ric. Loria, inAmbienteDiritto.it.eCed Cass., n. 586959 eGiust. civ., 2007, 2231, con nota dello scriventeDiscordanze tra Cassazione civile e penale in tema di beni culturali. Contra, isolata, Cass., sez. III, 27 maggio 2004, Mugnaini (inCass. pen., 2005, 2328 e 3451 con nota diCipolla - Ferri,Il recente codice dei beni culturali e la continuità normativa in tema di accertamento della culturalità del bene) per cui i beni culturali di cui all'art. 10 comma 3 c.b.c. potrebbero essere oggetto di «furto d'arte» «solo allorquando siano stati qualificati come tali nel provvedimento formale dell' autorità amministrativa previsto dall' art. 13» dello stesso Codice).
(2)Cass., sez. II, 28 febbraio 1995, Vallorani, inCed Cass., n. 201588, in riferimento all' art. 6 l. n. 1089 del 1939.
(3)Proprio l'appartenenza al patrimonio dello Stato, ossia il modo attraverso il quale i reperti archeologici entrano a far parte del patrimonio statale determina un regime «oggettivo» o «presuntivo» di riconoscimento della «culturalità» del bene. Sul punto occorre far capo all'art. 91 c.b.c. che attribuisce allo Stato le cose «da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini», e alle analoghe norme della legge Bottai del 1939 e del testo unico dei beni culturali (c.d. t.u.b.c.) del 1999 (Sulla continuità normativa tra il comma 1 dell'art. 91 c.b.c. e l'art. 88 t.u.b.c. e tra il comma 2 dell'art. 91 c.b.c. e l'art. 29 le. 1089 del 1939 in tema di rinvenimenti nei materiali di recupero,Marzuoli,Articolo 91, inAa.Vv.Il codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di Cammelli, cit., 379 s.); dunque rientrano tra i beni culturali «presunti», di proprietà dello Stato a titolo originario, gli oggetti rinvenuti nel sottosuolo e sui fondali marini in epoca successiva all'entrata in vigore della citata l. n. 1089 del 1939. Ed anzi se si considera che la l. 20 giugno 1909, n. 364 all'art. 15 ha attribuito allo Stato italiano la proprietà dei reperti di nuova scoperta, così estendendo al Regno di Italia la disposizione vigente fino al 1870 nello Stato pontificio (editto Pacca del 7 aprile 1820), consegue che perpetra il delitto di ricettazione colui che acquista o riceve beni culturali estratti dal sottosuolo o dai fondali marini dopo il 1909 (Per la non configurabilità del reato di ricettazione, con riferimento a reperti rinvenuti tra il 1909 e il 1939, invece,Avila,Il possesso dei beni archeologici tra garanzie costituzionali e presunzione di colpevolezza nella giurisprudenza della Suprema Corte, inCass. pen.2001 p. 980, per la quale la legge del 1909 sanciva la proprietà pubblica dei reperti rinvenuti in seguito a ricerche archeologiche effettuate dalla autorità competente, ma nulla disponeva con riferimento ai beni rinvenuti in scavi svolti da enti o da privati e ai beni scoperti fortuitamente; inoltre la legge del 1909 incriminava la omessa denuncia di scoperta fortuita e la ricerca abusiva, ma non anche l' impossessamento delle cose ritrovate; né era possibile applicare la norma sul furto, mancando il requisito dello spossessamento del legittimo proprietario (in quanto ignaro della stessa esistenza dellares inventa). Nel senso tuttavia della onnicomprensività della proprietà statale dei reperti archeologici tratti dal sottosuolo, dopo il 1909, comunque rinvenuti, già Cass., sez. un., 27 giugno 1918, Min, istruz. Pubblica c. Schiappa inForo it., 1918, I, c. 869) (art. 176 c.b.c. già art. 125 t.u.b.c. e art. 67 l. n. 1089 del 1939), senza che occorra un previo pronunciamento della pubblica amministrazione.
(4)Cass., sez. II, 28 febbraio 1995, n. 1253 inCass. pen., 1996, 1579; Cass., sez. III, 31 ottobre 1986,Giur. it., 1987, II, 295.
(5)«Art. 68 c.b.c. - 1. Chi intende far uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica le cose indicate nell'articolo 65, comma 3, deve farne denuncia e presentarle al competente ufficio di esportazione, indicando, contestualmente e per ciascuna di esse, il valore venale, al fine di ottenere l'attestato di libera circolazione. 2. L'ufficio di esportazione, entro tre giorni dall'avvenuta presentazione della cosa, ne dà notizia ai competenti uffici del Ministero, che segnalano ad esso, entro i successivi dieci giorni, ogni elemento conoscitivo utile in ordine agli oggetti presentati per l'uscita definitiva. 3. L'ufficio di esportazione, accertata la congruità del valore indicato, rilascia o nega con motivato giudizio, anche sulla base delle segnalazioni ricevute, l'attestato di libera circolazione, dandone comunicazione all'interessato entro quaranta giorni dalla presentazione della cosa. 4. Nella valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell'attestato di libera circolazione gli uffici di esportazione accertano se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, a termini dell'articolo 10. Nel compiere tale valutazione gli uffici di esportazione si attengono a indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero, sentito il competente organo consultivo. 5. L'attestato di libera circolazione ha validità triennale ed è redatto in tre originali, uno dei quali è depositato agli atti d'ufficio; un secondo è consegnato all'interessato e deve accompagnare la circolazione dell'oggetto; un terzo è trasmesso al Ministero per la formazione del registro ufficiale degli attestati. 6. Il diniego comporta l'avvio del procedimento di dichiarazione, ai sensi dell'articolo 14. A tal fine, contestualmente al diniego, sono comunicati all'interessato gli elementi di cui all'articolo 14, comma 2, e le cose sono sottoposte alla disposizione di cui al comma 4 del medesimo articolo. 7. Per le cose di proprietà di enti sottoposti alla vigilanza regionale, l'ufficio di esportazione acquisisce il parere della regione, che è reso nel termine perentorio di trenta giorni dalla data di ricezione della richiesta e, se negativo, è vincolante».
(6)«Art. 174 c.b.c. - Uscita o esportazione illecite: 1. Chiunque trasferisce all'estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, nonché quelle indicate all'articolo 11, comma 1, lettere f), g) e h), senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, è punito con la reclusione da uno a quattro anni o con la multa da euro 258 a euro 5.165. 2. La pena prevista al comma 1 si applica, altresì, nei confronti di chiunque non fa rientrare nel territorio nazionale, alla scadenza del termine, beni culturali per i quali sia stata autorizzata l'uscita o l'esportazione temporanee. 3. Il giudice dispone la confisca delle cose, salvo che queste appartengano a persona estranea al reato. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. 4. Se il fatto è commesso da chi esercita attività di vendita al pubblico o di esposizione a fine di commercio di oggetti di interesse culturale, alla sentenza di condanna consegue l'interdizione ai sensi dell'articolo 30 del codice penale.
(7)L. 1 giugno 1939, n. 1089 - «Art. 36 - 1. Chiunque intenda esportare dallo Stato cose di cui allo art.1 deve ottenere licenza 2. A tale scopo deve fare denunzia e presentare all'ufficio di esportazione le cose che intende esportare, dichiarando per ciascuna di esse il valore venale. 3. Le contestazioni tra l'esportatore e l'ufficio di esportazione sul pregio della cosa sono decise dal Ministro della pubblica istruzione, sentito il consiglio superiore delle antichità e belle arti o quello delle accademie e biblioteche».«Art. 66 1. È punita con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da lire 300 mila a lire 4 milioni e 500 mila l'esportazione, anche soltanto tentata, delle cose previste dalla presente legge e successive modificazioni: a) quando la cosa non sia presentata alla dogana; b) quando la cosa sia presentata con dichiarazione falsa o dolosamente equivoca, ovvero venga nascosta o frammista ad altri oggetti per sottrarla alla licenza di esportazione e al pagamento della tassa relativa. 2. La cosa è confiscata. La confisca ha luogo in conformità delle norme della legge doganale relative alle cose oggetto di contrabbando. 3. Quando si tratti di cose di proprietà di enti o istituti legalmente riconosciuti, il Ministero della pubblica istruzione può disporre che le cose stesse siano attribuite all'ente o istituto che ne era proprietario. 4. Ove non sia possibile recuperare la cosa, sono applicabili le disposizioni dell'art. 64».
(8)«Art. 65 Uscita definitiva - 1. È vietata l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica dei beni culturali mobili indicati nell'articolo 10, commi 1, 2 e 3. 2. È vietata altresì l'uscita: a) delle cose mobili appartenenti ai soggetti indicati all'articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, fino a quando non sia stata effettuata la verifica prevista dall'articolo 12; b) dei beni, a chiunque appartenenti, che rientrino nelle categorie indicate all'articolo 10, comma 3, e che il Ministero, sentito il competente organo consultivo, abbia preventivamente individuato e, per periodi temporali definiti, abbia escluso dall'uscita, perché dannosa per il patrimonio culturale in relazione alle caratteristiche oggettive, alla provenienza o all'appartenenza dei beni medesimi. 3. Fuori dei casi previsti dai commi 1 e 2, è soggetta ad autorizzazione, secondo le modalità stabilite nella presente sezione e nella sezione II di questo Capo, l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica: a) delle cose, a chiunque appartenenti, che presentino interesse culturale, siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni; b) degli archivi e dei singoli documenti, appartenenti a privati, che presentino interesse culturale; c) delle cose rientranti nelle categorie di cui all'articolo 11, comma 1, lettere f), g) ed h), a chiunque appartengano. 4. Non è soggetta ad autorizzazione l'uscita delle cose di cui all'articolo 11, comma 1, letterad). L'interessato ha tuttavia l'onere di comprovare al competente ufficio di esportazione che le cose da trasferire all'estero sono opera di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni, secondo le procedure e con le modalità stabilite con decreto ministeriale».
(9)L. 1 giugno 1939, n. 1089 - «Art. 35 - È vietata l'esportazione dallo Stato delle cose indicate nell'art.1 quando presentino tale interesse che la loro esportazione costituisca un ingente danno per il patrimonio nazionale tutelato dalla presente legge».
(10)A tacer d'altro in varie fattispecie penali il legislatore penale prende non di rado in considerazione la detenzione, e condotte collegate quali il tenere per la vendita, il porre in vendita ecc. e spesso sanziona per lo stesso titolo tanto il vendere quanto alcune delle predette condotte collegate; inoltre per la descrizione (e quindi della incriminazione) di ogni fase dell'iter della vendita sono previste espressioniad hoc, non intercambiabili tra loro. Ad es. dal fatto che talvolta è previsto il «vendere» e talvolta il «porre in vendita», e talvolta il «detenere per la vendita» si deduce che esiste una differenza tra la portata delle attività incriminate con le varie espressioni (il senso comune riconduce la seconda al solo offrire per la vendita, la terza al deposito finalizzato alla vendita); infatti, se si riconducesse alla seconda locuzione non solo il fatto della stipula del contratto di vendita, ma anche l' attività prodromica consistente nell' offrire per la vendita si dovrebbe ammettere che legislatore del '30 usò espressioni diverse (vendere e porre in vendita) per indicare la stessa situazione, ciò che contrasta con il principio di non contraddizione. La conclusione ermeneutica è la seguente: se la condotta consistente nella detenzione per la vendita non potrà essere logicamente commutata con quella consistente nell'offerta in vendita, o nella messa in vendita o nell' atto della vendita; né potrà essere punito per lo specifico titolo un comportamento diverso da quello espressamente previsto, come la detenzione allorché sia prevista l' offerta in vendita, o la messa in vendita allorché sia sanzionata la consegna, del pari non potrà confondersi la condotta del «detenere» con quella consistente nell'«acquisto». Dunque la parcellizzazione delle condotte inerenti la vendita e la fase prodromica, in linea con il principio di frammentarietà, dimostra in modo indubitabile la volontà del legislatore di reprimere le sole fasi della vendita espressamente menzionate, senza che sia consentita una estensione del significato delle parole, fino a ricomprendere condotte prodromiche e/o successive (infattiubi voluit, dixit). Che detenzione e acquisto costituiscano due condotte ontologicamente autonome e distinte è dimostrato anche dall'eterogeneità di natura: in linea astratta l'acquisto/ricezione ha natura istantanea, mentre la detenzione ha natura permanente, il che vieta di considerare la seconda ungenus rispetto alle condotte prive del requisito della persistenza temporale.
(11)Cass., sez. III, 28 aprile 2004, Paleologo, inCed Cass., n. 229427: «ove l' assoluzione sia stata pronunciata per insussistenza del fatto, in quanto non si era in presenza di beni di interesse culturale, la restituzione andava effettuata nei confronti del privato proprio per le ragioni addotte, cioè la possibilità di possesso di detti beni da parte di privati oltre che dei soggetti di collaborazione».
(12)Cass., sez. III, 28 ottobre 2004, Paleologo, cit.
(13)La C. cost., con sentenza 19 gennaio 1987, n. 2, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione in parola nella parte in cui prevedeva la confisca di opere tutelate che oggetto di esportazione abusiva, anche quando risultassero di proprietà di un terzo che non fosse autore del reato e non ne avesse tratto in alcun modo profitto.
(14)Sul punto, Cass. sez VI, 7 novembre 1997, n. 546, inCass. pen., 1999, 851 secondo cui i casi di cui all'art. 240 comma 2 c.p. riguardano oggetti aventi carattere intrinsecamente criminoso, con esclusione delle ipotesi nelle quali la confisca sia comunque ritenuta obbligatoria da leggi speciali.
(15)Cass., sez. I, 17 marzo 1972, Mustafa, inCed Cass., n. 120524: «La nozione di «persona estranea al reato» è diversa da quella di «persona estranea al processo», cosi che non ricorre la prima delle due ipotesi nel caso del terzo che pur risultando implicato nel reato sia per circostanze più o meno fortuite sfuggito al procedimento penale». Negli stessi termini Cass. sez. I, 6 luglio 1988, Tartaro, inCed Cass., n. 178817.
(16)Cass., sez. III, 3 aprile 1979, Ravazzani, inCed Cass., n. 141690: «Per poter ordinare la confisca non é necessario che le cose appartengano al condannato, ma e sufficiente che dal procedimento risulti che le cose da confiscare non appartengano a terzi estranei al reato; può ritenersi estraneo al reato soltanto colui che alla commissione del reato medesimo non abbia partecipato in alcun modo con una qualsiasi attività di concorso o altrimenti connessa, ancorché non punibile». Conforme, Cass., sez. I, 20 ottobre 1948, inRiv. pen., 1949, II, 85; Cass. sez. I, 14 novembre 1978, inCass. pen., 1980, 878.
(17)Cass., sez. III, 15 gennaio 1979, Hollyer, inCed Cass., n. 140832: «Il rinvio alle disposizioni dell' art. 240 c.p. effettuato nel capoverso dell' art 301 d.P.R. 23 gennaio 1973, n 43 (tu delle disposizioni legislative in materia doganale) sulla confisca che, ai sensi dell'art 342 deroga alla disciplina comune della misura di sicurezza è eccezionalmente limitato, tra le cose che servirono alla commissione del reato, ai mezzi di trasporto "appartenenti a persona estranea al reato", espressione da intendersi non nel senso di persona che sia rimasta estranea al procedimento penale, ma nel senso di persona che risulti non aver avuto alcun collegamento, ne diretto ne indiretto, con la commissione del contrabbando». Conforme, in tema di confisca obbligatoria, ai sensi dell'art.12 comma 4 d.lg. 25 luglio 1998, n. 286, del mezzo di trasporto utilizzato per il compimento dei reati in materia di immigrazione clandestina, Cass., sez. I, 9 giugno 2000 Xhaxho Xemal, inCed Cass., n. 216425, per cui il collegamento indiretto consiste nel volontario consenso all' uso dellaresper la commissione del reato; nella fattispecie, trattandosi di un peschereccio adoperato per il trasporto di clandestini dall'Albania all'Italia e pertanto sequestrato e confiscato all'esito del processo svoltosi a carico dei componenti dell'equipaggio, la S.C. ha ritenuto che correttamente fosse stata respinta dal giudice dell'esecuzione la richiesta di restituzione avanzata dal proprietario dell'imbarcazione, considerando che non vi erano elementi tali da far pensare che costui fosse stato ignaro dell'illecito uso dell'imbarcazione medesima e che risultava inverosimile la tesi da lui sostenuta, secondo la quale lo spostamento del mezzo dall'Albania all'Italia sarebbe stato disposto al fine, del tutto antieconomico, di effettuare rifornimento di carburante e far applicare sullo scafo della pittura antiruggine). Per Cass., sez. III, 20 ottobre 1948, Giannelli, inRiv. it, dir, proc. pen., 1949, 196 «agli effetti della confisca degli autoveicoli usati per il trasporto di merci indebitamente procacciate sono estranei al reato coloro che non vi abbiano concorso e ne siano rimasti completamente al di fuori, onde è legittimo il provvedimento di confisca nei confronti del proprietario favoreggiatore». Per una ipotesi ora depenalizzata, Pret. Lamezia Terme 2 dicembre 1987, Giampà, in questa Rivista, 1989, 967: «può essere disposta la confisca del veicolo ai sensi dell' art. 80-biscod. strada a carico del proprietario, anche nel corso del procedimento penale per guida senza patente instaurato contro il solo conducente, dovendo ritenersi il proprietario, bensì estraneo al procedimento, ma non persone estranea al reato, allorché si accerti una sua partecipazione, anche indiretta, alla condotta criminosa». Conforme Cass., sez. IV, 25 ottobre 1984, Paparella, inCass. pen., 1986, 136.
(18)Cass., sez. II, 18 novembre 1992, Tassinari, inCed Cass., n. 193422: «Il concetto di «appartenenza» di cui all'art. 240 c.p. ha una portata più ampia del diritto di proprietà, essendo sufficiente che le cose da confiscare, di cui il reo ha la disponibilità, non appartengano a terzi estranei al reato, intendendosi per estraneo soltanto colui che in nessun modo partecipi alla commissione dello stesso o all'utilizzazione dei profitti che ne sono derivati. Poiché la misura di sicurezza della confisca ha carattere non punitivo ma cautelare, fondato sulla pericolosità derivante dalla disponibilità delle cose che servirono per commettere il reato, ovvero ne costituiscano il prezzo, il prodotto o il profitto, essa può essere disposta anche per i beni appartenenti a persone giuridiche dovendo a tali persone, in forza dei principi di rappresentanza, essere imputati gli stati soggettivi dei loro legali rappresentanti. (Fattispecie relativa a confisca di compendi immobiliari, azioni e quote di società, autoveicoli, saldi di conti correnti bancari appartenenti a società i cui legali rappresentanti erano stati ritenuti responsabili di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri e di contrabbando di tali tabacchi). Nello stesso senso C. cost. n. 2 del 1987, che ha negato la confiscabilità dei beni di interesse artistico e storico qualora essi, esportati abusivamente, risultino di proprietà di chi non sia autore del reato e non ne abbia tratto in alcun modo profitto.
(19)Cass., sez. III, 28 settembre 1995, Marraro, inCed Cass., n. 203084: «Exart. 19 l. 28 febbraio 1985, n. 47 la confisca è obbligatoria ogni volta che il giudice penale accerti che vi è stata lottizzazione abusiva, indipendentemente dalla persona del condannato e addirittura dalla stessa condanna penale (potendo l'accertamento della lottizzazione abusiva conseguire ad una declaratoria di amnistia o di prescrizione del reato); in conseguenza della natura "reale" e non "personale" della confisca, la restituzione dell'area abusivamente lottizzata non è consentita dall'art. 19 citata l. n. 47 del 1985 neppure a favore di proprietari estranei al processo penale; ricorrendo alla disciplina generale di cui all'art. 240 c.p., la restituzione del terreno, abusivamente lottizzato non è consentita quando il proprietario richiedente, pur essendo rimasto estraneo al processo, non può dirsi materialmente o moralmente estraneo al reato o quando il terreno confiscato non è giuridicamente suscettibile di lottizzazione (ex ult. comma art. 240 c.p.)».
(20)Manzini,Trattato del diritto penale italiano, Torino, 1950, III, 389;Guarneri,Confisca (diritto penale) inNoviss. Dig. it., Torino, IV, 42, i quale precisano che l'attività «connessa» che esclude l'estraneità al reato può consistere nel favoreggiamento e nella ricettazione;De Marsico,Codice penale illustrato, a cura di Conti, Milano, 1934, I, p. 965, il quale fa leva su un argomento letterale: «è notevole che la legge dica «estranei» anziché «non partecipi» al reato. Se avesse usato quest' ultima locuzione, la confisca si sarebbe potuta ordinare solo in danno, oltre che dell' autore, di chi avesse in un grado qualunque, concorso nel reato commesso dall' autore; basta invece che esse appartengano a chi ha avuto una qualsiasi parte o in quel reato o in un altro connesso al primo da un vincolo di accessorietà. Da ciò la confiscabilità della refurtiva passata al ricettatore e dell' arma micidiale passata al favoreggiatore».Contra,Sansò,La nozione di estraneo ai sensi dell' art. 240 c.p.inRiv. it. dir. proc. pen., 1949, 196,Civoli,Confisca in diritto penale, inDig. it., 1893, 900 e 94;Saltelli,Confisca in diritto penale, inNuovo dig., III, 791;Romano Di Falco,Commento al c.p., Roma, 1930, I, parte II, 895, per i quali estraneo, ai sensi dell'art. 240 c.p. sono tutti coloro che né commisero né parteciparono in alcuna forma allo stesso reato.Gozzer,Confisca del veicolo contro il proprietario non conducente, in questaRivista, 1989, 967 rileva come l'interpretazione opposta sarebbe del tutto in contrasto con l' art. 27 Cost. e con il principio di stretta legalità, che opera anche per le misure di sicurezza,ex art 199 c.p. e 25 comma 3 Cost.
(21)Pioletti,Articolo 127, inAa.Vv.,La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali, a cura di Cammelli, Bologna, 2000, 401.
(22)Sull'argomentoAlessandri,Confisca nel diritto penale, inDigesto delle discipline penalistiche, Torino, III, 1988, 55. In giurisprudenza, in questo senso, Cass., sez. I, 19 gennaio 1979, inGiust. pen., 1979, II, 529 e Pret. Napoli 13 maggio 1976, inForo it., 1977, II, 30.
(23)Cass., sez. III, 12 febbraio 2003, Pludwinski, inCed Cass., n. 225320 e inCass. pen., 2005, n. 244, 559 con nota dello scrivente:I limiti soggettivi alla confiscabilità delle opere di pittura, scultura, e grafica provento di falsificazione.
(24)Ex plurimis, C. cost. n. 2 del 1987 e n. 239 del 2009.
(25)Cass. pen., sez. III, 17 marzo 2009, Quarta, inCed Cass., n. 243749, per cui «nel reato di lottizzazione abusiva cd negoziale, l'acquirente del lotto frazionato non può considerarsi solo per tale qualità terzo estraneo, potendo tuttavia il medesimo dimostrare di aver agito in buona fede, senza rendersi conto, cioè, di partecipare ad una operazione di illecita lottizzazione».
(26)In tal senso, in materia urbanistica, Cass. pen. sez. III, 29 settembre 2009, Spini, inCed Cass., n. 245170 per cui il terzo acquirente di immobile abusivamente lottizzato, può subirne la confisca solo nel caso in cui sia ravvisabile una condotta quantomeno colposa in ordine al carattere abusivo della lottizzazione negoziale e/o materiale e Cass., sez. III, 13 luglio 2009, Apponi, inCed Cass., n. 245348, in cui si statuisce che la confisca è condizionata, sotto il profilo soggettivo, quantomeno all' accertamento di profili di colpa nella condotta dei soggetti sul cui patrimonio la misura viene ad incidere.
(27)In tema di onere della prova, da ultimo, Cass., sez. I, 5 novembre 2009, Succi, inCed Cass., n. 245624: «il terzo rimasto estraneo al giudizio di cognizione, che agisca in fase esecutiva per ottenere la restituzione di effetti cambiari confiscati, ha l'onere di dimostrare di essere titolare del diritto incorporato negli stessi in base ad un titolo lecito, non essendo sufficiente che adduca di essere il formale intestatario».
(28)Cass., sez. III, 11 luglio 2007, Doyran, inCed Cass., n. 238053 in tema di contrabbando doganale: «nel caso in cui venga utilizzato per il trasporto della merce un mezzo di proprietà di un terzo estraneo al reato, quest' ultimo ha l'onere di provare al fine di evitarne la confisca obbligatoria, e ottenerne la restituzione, di non averne potuto prevedere, nemmeno a titolo di colpa, l'illecito impiego anche occasionale da parte di terzi e di non essere incorso in un difetto di vigilanza». Conforme, Cass., sez. I, 9 dicembre 2004, Ambrono, inCed Cass., n. 230904.
(29)In questi termini, in merito alla nullità dell' atto di trasferimento, Cass., sez. I, 4 dicembre 2008, Maj, inCed Cass., n. 242555: «l'acquirente finale di un bene del patrimonio artistico dello Stato che sia oggetto di un atto di trasferimento al di fuori delle procedure previste dalla legge, non può ottenere la revoca della confisca disposta all' esito del processo penale, invocando la propria buona fede o l'esistenza di un primo acquisto a titolo originario, in particolare nelle forme dell' asta pubblica, data la nullità dell' atto di trasferimento».
(30)Cass., sez. III, 12 febbraio 2003, Pludwinski, cit.: «In tema di confisca obbligatoria di opere d'arte ai sensi dell'art. 127 ult. comma d.lg. 29 ottobre 1999, n. 490, la clausola di esclusione relativa alle cose appartenenti a persone estranee al reato non copre i diritti dell'erede dell'imputato, poiché tali beni, incommerciabili, non possono essere entrati nell'asse ereditario, mentre tale previsione, in conformità alla disposizione generale di cui all'art. 240 c.p., tutela solo l'affidamento del terzo che abbia acquistato le opere in buona fede».
(31)Cass., sez. un., 23 aprile 1993, inCed Cass., n. 193120: «Anche nel caso di estinzione del reato astrattamente non incompatibile con la confisca in forza del combinato disposto degli artt. 210 e 236 comma 2 c.p., per stabilire se debba farsi luogo a confisca deve aversi riguardo alle previsioni dell' art 240 c.p. e alle varie disposizioni speciali che prevedono i casi di confisca, potendo questa conseguentemente essere ordinata solo quando alla stregua di tali disposizioni la sua applicazione non presupponga la condanna e possa aver luogo anche a seguito di proscioglimento». Conforme Cass., sez. un., 10 luglio 2008, De Maio, inCed Cass., n. 240565, dove, in parte motiva, si afferma: «deve pertanto ritenersi corretta l'interpretazione secondo la quale la formula normativa è sempre ordinata di cui all' art. 240 c.p. comma 2 si contrappone a quella può ordinare di cui comma 1, fermo restando il presupposto nel caso di condanna fissato dallo stesso comma 1 ed esplicitamente derogato solo con riferimento alle cose di cui al n. 2 comma 2». Sull'argomento, da ultimo,Ielo,Confisca e prescrizione: nuovo vaglio delle sezioni unite, inCass. pen., 2009, 1392;Giordano-Imbesi,Prescrizione del reato e confisca dei beni del corrotto, inRiv. pen., 2009, 1143;Governa,Proscioglimento per intervenuta prescrizione del reato e successiva confisca: accertamento del fatto reato e della responsabilità inGiur. it., 2009, 2288;Marcianò,Osservazioni su confisca e prescrizione, inGiust. pen., 2009, 478.
(32)Cass., sez. II, 10 agosto 1996, Iurlo, inCed Cass., n. 205605.
(33)InCed Cass., n. 245862.
(34)In tal senso Cass., sez. IV, 23 aprile 1991, Lucco Castello, inGiur. it.1992, II, 123; Cass. pen. sez. I, 8 aprile 1991, Zanetti, inGiur it.II, 124.
(35)Cass., sez. I, 26 aprile 2007, inCed Cass., n. 237366; Cass., sez. I, 24 settembre 2008, Bordessa, inCed Cass., n. 241146, in tema di contrabbando; Cass., sez. I, 5 febbraio 2009, Rosa inCed Cass., n. 243291, in tema di armi.
(36)Trevisson Lupacchini,Decreto di archiviazione e ordine di confisca, inGiur. it, 1992, II, 123.
(37)In questi termini, Cass., sez, III, 4 giugno 2009, Vedani, inCed Cass., n. 244780, in tema di contrabbando, laddove si afferma espressamente che «la confisca obbligatoria ... deve essere disposta anche con il decreto di archiviazione pronunciato per cause che non attengono alla sussistenza del fatto e al rapporto con il soggetto autore e che non è sostenibile che per potersi disporre la confisca il P.M. sia costretto a esercitare l'azione penale ove già risulti l'inutilità del dibattimento per intervenuta prescrizione del reato o per evidente mancanza dell'elemento soggettivo ovvero in caso di morte dell'imputato».
(38)Cass., sez. III, 9 novembre 1999, Zaccherini, inCed Cass., n. 215052; Cass. 28 aprile 2004, Paleologo, cit.
(39)Cass., sez. II, 27 giugno 1995, Dal Lago, inCed Cass., n. 203105,Giust. pen.1996, II, 577 eCass. pen. 1997, 515.
(40)Cass., sez. I, 31 gennaio 2006, ric. Loria, cit.,: «sostiene il ricorrente che la Corte di Appello avrebbe erroneamente invertito l' onere della prova, facendone richiesta al privato stesso. ... Non si vede come si debba far carico allo Stato di provare di aver devoluto parte degli oggetti reperiti ai privati, e di aver compilato il relativo verbale, non è dato comprendere su quali beni ciò dovrebbe avvenire, non certo su quelli di cui il privato è stato trovato in possesso, giacché la denuncia da cui è scattata la misura probatorio-cautelare del sequestro e la presente azione per l'accertamento della proprietà dimostrano che l'amministrazione, proprio in quanto consapevole di aver devoluto i beni in oggetto quale premio in natura per il reperimento, ha agito per riaverne la disponibilità ... lo Stato nell' azione di revindica di beni archeologici può avvalersi di una presunzione di proprietà statale..». Conforme Cass., sez. I. 2 ottobre 1995, ric. Min. B. culturali c. Torno, inCed Cass., n. 494150: «nell'azione di rivendica di beni archeologici promossa dall'amministrazione statale, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore alla l. n. 364 del 1909 non è fatto cognitivo negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l'eccepisce». In senso critico,Pioletti,Articolo 176, Impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, inAa.Vv.,Il codice dei beni culturali e del paesaggio, cit., 701.
-----------------------------
TRIBUNALE ORDINARIO DI PESARO
UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
IN FUNZIONE DI GIUDICE DELL'ESECUZIONE
Il Giudice
Nel procedimento a carico di :
P. R., F. G., B. P., B. F., B. G., indagati in concorso con persone
da identificare ( fra cui verosimilmente: H. H., D. C. ed altri) per
i seguenti reati:
a) Delitto p.e p. dagli artt. 110 c.p. art. 66 L. 1.6.1939 n° 1089
( oggi modificato dall'art. 123 T. U. 1999 e dall'art. 174 D. L.vo
n° 42 del 22.1.2004 e succ. modif. ) perché , in concorso fra loro,
i primi due in qualità di comandanti delle navi a bordo delle quali
il reperto fu assicurato e sbarcato sul lido di Fano e quindi
avviato alle future destinazioni, i tre fratelli B. quali
trafugatori della statua ( che prelevarono dalle mani dei pescatori
che l'avevano rinvenuta in mare e poi nascosta, la trasportarono
quindi in Gubbio dove la occultarono presso terza persona fino al
momento della esportazione), H. H. in qualità di socio del consorzio
londinese A. (costituito ad hoc, per gestire l'operazione di
fuoriuscita , restauro e successiva allocazione della statua)
materiale detentore della stessa fra il 1971 ed il 1973; D. C. quale
soggetto esponenziale del consorzio A. che gestì l'esportazione
clandestina dall'Italia e successivo ritrasferimento oltreoceano
della statua, preparavano e organizzavano l'esportazione e quindi
effettivamente esportavano illecitamente (clandestinamente, senza
presentare il bene protetto alla Dogana, in assenza della prescritta
autorizzazione, senza l'autorizzazione prescritta di libera
circolazione e in evasione dei diritti di confine) la statua Atleta
Vittorioso attribuita allo scultore greco Lisippo.
In Fano, Gubbio ( Londra-Monaco di Baviera), condotta iniziata a
decorrere da data imprecisata (verosimilmente negli anni 1971-1972)
Agli stessi indagati veniva ascritto il reato ex artt. 110, 482-476
e/o 483 c.p.
P. R., F. G., inoltre:
b) reato p. e p. dagli artt. 81 cpv. 110 c.p., artt 510, 511 e 1146
C.N.(D. 30.3.1942 n° 327, Codice della navigazione) perché, in
concorso fra loro, in qualità di armatori e comandanti,
rispettivamente, dei motopescherecci "F. F." e "G. F.", e con più
condotte ( commissive ed omissive) esecutive di un medesimo disegno
criminoso, omettevano di denunciare entro tre giorni all'Autorità
marittima più vicina il relitto consistente nella statua oggi nota
come L'Atleta Vittorioso, attribuita allo scultore greco Lisippo,
all'Autorità marittima più vicina al luogo di sbarco, così
precludendo altresì la devoluzione obbligatoria del relitto di
rilevante interesse artistico-archeologico allo Stato italiano.
In Fano agosto 1964
P. e F., inoltre:
c) reato p. e p. dagli artt. 110 c.p. e artt. 48-68 L. 10989/1939
perché in concorso fra loro e nelle qualità sopra richiamate,
omettevano di denunciare il bene di straordinario valore
archeologico ed artistico, alla competente Autorità amministrativa (
Sovrintendenza alle belle arti) .
Fano .c.s.
d) reato ex artt. 110 c.p. 97 e s. L. 1424/ 1940 perché con la
condotta descritta ai capi precedenti, violavano i diritti di
confine nell'atto di importazione del bene. Fano c.s.
Sentite le parti;
Letti gli atti processuali e la documentazione prodotta;
Sciogliendo la riserva posta all'udienza del 15 gennaio 2010;
OSSERVA
Fatto
1. Premessa.
Preliminarmente e con riferimento alle censure già proposte in via pregiudiziale e ribadite dalla difesa del The J. Paul Getty Trust rappresentato da S. W. C., nella memoria depositata in data 9 gennaio 2010 ( cfr. memoria a firma dell'Avv.Prof. A. G.) e nel corso della discussione all'udienza del 15 gennaio 2010, circa l'inammissibilità dell'odierno incidente di esecuzione e l'impossibilità di adottare un provvedimento di confisca della statua in presenza di un decreto di archiviazione per prescrizione, si rinvia alle motivazioni già esposte nell'ordinanza emessa da questo ufficio in data 12.06.2009, ( cfr. in particolare paragrafi 2-3 dell'ordinanza allegata al verbale di udienza), da intendersi qui integralmente richiamata, con la quale venivano respinte le censure difensive.
Nell'ordinanza si faceva in particolare riferimento a due pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione: la sentenza 25 marzo 1993 nr. 5 e la sentenza 10 luglio 2008 nr. 38834 ( cfr. pagine 7-9 del provvedimento 12.06.2009). È opportuno richiamare per completezza in questa sede anche Cass. Pen. Sez. I, 4 dicembre 2008-21 gennaio 2009 nr. 2453 (già citata nella prima ordinanza), decisione in cui la Suprema Corte era chiamata a pronunciarsi sulla questione se la confisca delle cose costituenti il prezzo del reato ( articolo 240, 2° comma nr. 1 c.p.), possa essere disposta nel caso di estinzione del reato ( nella fattispecie dichiarata con decreto di archiviazione).
Nella motivazione il Giudice di legittimità prendeva le mosse dalla prima decisione delle Sez. Unite 25 marzo 1993 nr. 5, per poi recepire l'orientamento più recente espresso nel luglio 2008, laddove le Sezioni Unite pur aderendo alla precedente pronuncia nel ritenere che la formula normativa " è sempre ordinata " che compare al 2° comma dell'articolo 240 c.p., si contrappone a quella contenuta nel 1° comma " può ordinare", tuttavia, proponevano una diversa lettura della norma fondata proprio sulla valorizzazione della legislazione speciale in materia di confisca. Infatti, proprio in virtù della normativa speciale, si sono ampliate significativamente le ipotesi di confisca obbligatoria di beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato " è stata incrinata la ricostruzione di una categoria dogmatica unitaria, e si sono gettate le basi per un superamento dei ristretti confini tracciati dalla norma generale di cui all'articolo 240 c.p..." In questo contesto, la Suprema Corte rivisitando in chiave critica le affermazioni della pronuncia del 1993 circa la limitazione dei poteri di accertamento riservati al giudice nel caso di estinzione del reato per disporre la confisca, che lo porterebbero a superare i limiti della cognizione connaturata alla particolare fase processuale, affermava che "le innovazioni legislative e la successiva evoluzione giurisprudenziale attribuiscono al giudice ampi poteri di accertamento del fatto in una pluralità di ipotesi"
Al riguardo, a titolo esemplificativo, si può richiamare la previsione di cui all'articolo 425 4° comma c.p.p. che consente al Giudice per l'udienza preliminare di applicare la confisca anche in caso di pronuncia di non luogo a procedere o, ancora, l'articolo 576 c.p.p che prevede la possibilità di pronunciare sull'azione civile a seguito di impugnazione della sentenza di proscioglimento.
Pertanto, nella decisione nr. 2453/2009 la Cassazione affermava che la possibilità per il giudice di procedere ad accertamenti al fine di pronunciarsi sulla confisca, anche in caso di declaratoria di estinzione del reato, non può considerarsi " anomala" ... "Considerata l'evoluzione della legislazione in materia e la sempre più ampia utilizzazione dell'istituto della confisca al fine di contrastare i fenomeni di criminalità, si può affermare che, in caso di estinzione del reato, il riconoscimento al Giudice di poteri di accertamento al fine dell'applicazione della confisca medesima, non possono dirsi necessariamente legati alla facilità dell'accertamento medesimo e, quindi, tale accertamento può riguardare non solo le cose oggettivamente criminose per la loro intrinseca natura ( art. 240, secondo comma nr. 2 c.p.), ma anche quelle che sono considerate tali dal legislatore per il loro collegamento con uno specifico reato"
Indicativa ad esempio appare la fattispecie di cui all'articolo 44 secondo comma D.P.R. nr 380 del 2001, laddove, nella costante interpretazione giurisprudenziale in caso di lottizzazione abusiva, la confisca si atteggia come obbligatoria indipendentemente da una pronuncia di condanna.
Si evidenzia ancora che, nel caso in esame, il reato contestato dal P.M. al capo a) dell'imputazione (art. 66 L. nr 1089/1939) prevede la confisca delle cose di interesse storico ed artistico esportate abusivamente, in conformità delle norme della legge doganale relative al reato di contrabbando, con conseguente applicabilità dell'articolo 301 del D.P.R. 23 gennaio 1973 nr 43, sostituito dall'articolo 11 della legge 30 dicembre 1991 nr. 413, che stabilisce " nei casi di contrabbando è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l'oggetto, ovvero, il prodotto o il profitto". In relazione all'articolo 301 la giurisprudenza è uniforme nel ritenere che la confisca possa essere disposta nonostante la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, sempre che non venga escluso il rapporto tra la res ed il fatto di contrabbando. (cfr. Cass. Pen. Sez. III 21 settembre 2007 nr.3874, Del Duca; Cass. Pen. Sez. III 26 novembre 2001, 4739 - Vanni).
L'ipotesi di confisca di cui alla legge nr 1089/1939 è stata confermata anche nell'articolo 174 del D.L.gvo nr. 42 del 2004, che si pone in rapporto di continuità normativa con il richiamato articolo 66.
Pertanto, le censure difensive sull'inammissibilità dell'incidente di esecuzione e della confisca in presenza di un decreto di archiviazione per prescrizione del reato non appaiono condivisibili.
2. La ricostruzione delle vicende traslative della scultura.
Prima di affrontare le problematiche attinenti al regime giuridico relativo alla circolazione della statua, appare opportuno ricostruire in fatto le fasi essenziali della sua vicenda, alquanto articolata e complessa ed ancora oggi non completamente chiarita, sulla base delle indagini esperite e della documentazione acquisita.( cfr. in particolare gli atti del procedimento penale nr. 2257/1990 avanti all'A.G. di Gubbio acquisiti al procedimento, le indagini svolte dal personale del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico, riferite nell'informativa del 30 maggio 1979 e relativi allegati e nel Dossier Lisippo ed i documenti prodotti nell'odierno procedimento dal P.M. e dai difensori The J. Paul Getty Trust).
Le circostanze di fatto in cui sono avvenuti il ritrovamento, l'esportazione dall'Italia e la vendita al suo attuale detentore rivestono infatti particolare importanza, sia per l'accertamento riguardante i reati in contestazione demandato a questa sede, seppur in via incidentale, sia per l'individuazione del regime giudico applicabile, che costituiscono i presupposti per la decisione sul provvedimento di confisca del bene richiesto dal P.M.
L'ampiezza della ricostruzione storica anche in questa fase processuale, si è resa necessaria per evitare di appesantire i successivi percorsi argomentativi, così da consentire nel prosieguo della trattazione il semplice richiamo a fatti, documenti e circostanze specifiche già dettagliatamente descritti in questo paragrafo.
La storia del reperto può essere così riassunta:
Il bronzo in contestazione fu rinvenuto nell'estate 1964 da alcuni pescatori di Fano, ( P. R. e F. G. erano i comandanti dei due pescherecci coinvolti nel rinvenimento), sbarcato sul lido di Fano e quindi nascosto per alcuni giorni o settimane nel territorio fanese, precisamente, nell'abitazione di tale F. D., amico di F. G., il quale ascoltato dai Carabinieri dichiarava di aver trasportato la statua, su richiesta del F., utilizzando la propria autovettura presso la propria abitazione in Carrara di Fano per poi dissotterrarla provocando inavvertitamente, con un colpo di zappa, il distacco di un frammento di concrezione marina, che il F. riconosceva per quella mostratagli dai verbalizzanti (cfr.annesso nr. 10 al Dossier Lisippo)
L'introduzione della statua nel territorio italiano non venne denunciata né all'Ufficio Esportazioni del Ministero per i beni e le attività culturali, né all'Autorità doganale territorialmente competente è ciò in violazione delle disposizioni di cui agli articoli 35, 36 , 39, 42, 48, 61 della legge nr. 1089 del 1939. L'introduzione clandestina ed il successivo occultamento della statua dimostrano inequivocabilmente la consapevolezza da parte degli indagati del rilevante valore storico ed archeologico del reperto e la volontà si sottrarlo al particolare regime di tutela previsto dalla legislazione italiana per la salvaguardia del proprio patrimonio culturale.
Nella prima decade di agosto, il bronzo venne acquistato da G., P. e F. B., dagli stessi pescatori che lo avevano rinvenuto. La vendita fu conclusa a Fano presso l'abitazione di F. D., ove era custodito il bene per un compenso di 3.5000.000 lire. La scultura fu quindi trasferita nell'abitazione di B. G. e, quindi, in quella del sacerdote G. N. di Gubbio, ritenuta luogo più sicuro, ove sarebbe rimasta fino al maggio 1965 (epoca in cui nel corso delle indagini fu eseguita una perquisizione nei confronti degli indagati, con esito negativo) . La concrezione marina anni dopo fu regalata dalla stesso F. al geometra C. E., il quale venuto a conoscenza della provenienza della stessa, la consegnava alla Procura della Repubblica di Pesaro.
La statua rimase nascosta per alcuni anni a Gubbio dove venne visionata da vari commercianti d'arte italiani e stranieri, tra cui, nel dicembre 1964, anche E. B., commerciante d'arte internazionale residente in Basilea, il quale secondo un rapporto dell'Interpool del 1970 avrebbe offerto per l'acquisto centomila dollari, che furono tuttavia rifiutati dal B..
Nell'aprile del 1965 a seguito di una lettera anonima pervenne alla P.G. di Perugia la notizia di un viaggio fatto dai B. in Germania per trattative inerenti la statua.
Nei mesi di maggio-giugno del 1965 vennero avviate particolari indagini da parte della P.G. a seguito delle quali, presumibilmente, B. P. prelevò il bene dall'abitazione del sacerdote per venderlo ad un personaggio non meglio identificato di Milano. Nello stesso periodo fu iscritto presso l'A.G. di Perugia, un procedimento penale a carico di P., F. B. e del sacerdote N. G. per il delitto di ricettazione. Successivamente l'allora Tenenza di Gubbio denunciò anche B. G. per il reato di ricettazione, in relazione al reato di cui all'articolo 67 L. nr.1089 del 1939, commesso in Fano e Gubbio dall'agosto 1964 e dicembre 1964 fino al maggio 1965. ( cfr. Dossier Lisippo annessi 1,2 e 3).
Nel corso delle indagini i C.C eseguirono anche una perquisizione in casa del sacerdote, con esito negativo, in quanto fu rinvenuto solamente il drappo rosso che avvolgeva la statua. Si persero così le tracce del reperto. Secondo l'ipotesi degli inquirenti, il bronzo sarebbe rimasto in Italia, presumibilmente a Gubbio e sempre in condizioni di clandestinità, fino al 1967, periodo del secondo processo.
Il procedimento si concluse con sentenza di assoluzione in data 18.05.1966, nei confronti di tutti gli imputati, avendo il Tribunale ritenuto l'insufficienza delle prove raccolte sia in ordine alla circostanza del ritrovamento della statua in territorio italiano ( mare territoriale), sia sul valore storico ed artistico dell'oggetto, sia infine sulla sussistenza dell'elemento soggettivo dei reati contestati.
La sentenza di assoluzione in primo grado venne impugnata dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Perugia e, con sentenza emessa in data 27.1.1967, la Corte di Appello riformando la sentenza condannò i B. per il delitto di ricettazione ed il N. per quello di favoreggiamento reale.
Successivamente, a seguito di ricorso in Cassazione, la Suprema Corte annullò la sentenza di condanna della Corte di Appello di Perugia rinviando gli atti alla Corte di Appello di Roma, ritenendo il difetto di motivazione in ordine alla prova del rinvenimento della statua in acque nazionali e del valore artistico ed archeologico del bene, in ragione dell'impossibilità di procedere ad un suo esame diretto ( all'epoca infatti non erano ancora state acquisite riproduzioni fotografiche del bene).
La Corte d'Appello di Roma con sentenza in 8.11.1970 assolse tutti gli imputati in ragione dell'incertezza probatoria circa l'esistenza del reato presupposto, a sua volta derivante dal difetto di prova della provenienza della statua dal territorio nazionale, non essendo stato chiarito in quali acque la scultura era stata rinvenuta.
Nei vari processi penali i B. ed il N. confermarono di aver acquistato la scultura in bronzo e di averla venduta a persona di Milano, della quale però non fornivano alcun utile elemento per l'identificazione.
Il bronzo ricomparve nel 1972, secondo le dichiarazioni di T. H. già direttore del Metropolitan Museum di New York ( cfr. Dossier Lisippo) , che asserì di aver visto la statua proprio in quell'anno presso il negozio di un antiquario tedesco, tale H. H. di Monaco di Baviera,mentre era in fase di ripulitura e di averla poi rivista l'anno successivo, a restauro completato.
Nel 1973 anche a seguito di notizie divulgate dalla stampa (cfr. annesso 3 del Dossier e informativa dei C. C. del 30 maggio 1979) i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico acquisirono la notizia che una scultura in bronzo attribuita al Lisippo e proveniente dall'Italia, si trovava nel negozio dell'antiquario H. H. a Monaco di Baviera, che la offriva in vendita a musei americani.
Nel luglio 1973 i Carabinieri che si trovavano a Monaco di Baviera per un'altra indagine, si recarono presso il negozio di H., trovando solo il legale di fiducia e la segretaria dell'antiquario, i quali confermarono che costui era in possesso della statua in questione, rifiutandosi però di fornire altre indicazioni e di consegnare una riproduzione fotografica del bronzo. Gli stessi affermarono che H. era in possesso di documentazione comprovante la liceità dell'acquisto.
A seguito di tali notizie, venne iscritto dal Pretore di Gubbio un procedimento a carico di ignoti per il reato di esportazione clandestina ed in data 9 gennaio 1974 il giudice formulò una richiesta di rogatoria internazionale, con la quale chiedeva il sequestro della scultura, l'interrogatorio di H. in qualità di indiziato in concorso nel reato di esportazione clandestina dall'Italia di reperti archeologici, la documentazione fotografica della statua.
Tale richiesta non venne accolta dal Tribunale Distrettuale della Baviera che giustificò il rifiuto in base al fatto che il reato ipotizzato dall'A.G. italiana non consentiva l'estradizione.
Risulta dalla documentazione prodotta dalla difesa del The J. Paul Getty Trust, che sempre nel 1974, il Procuratore presso il Tribunale di Monaco di Baviera comunicò all'A.G. italiana di non poter procedere contro il signor H. H.. Il procedimento infatti venne archiviato dall'A.G. tedesca ed in data 8 aprile 1974 lo stesso Procuratore informò H. che il sequestro della statua effettuato con il consenso dello stesso antiquario non era più necessario e sarebbe quindi stato revocato, con conseguente possibilità di disporre liberamente del bene.
In merito alla vicenda della scultura venne fatta anche un'interrogazione parlamentare in data 20 novembre 1973 dall'onorevole M., alla quale il Ministero della Pubblica Istruzione allora competente aveva risposto che il bronzo era stato esportato clandestinamente.
Le indagini per il recupero della statua iniziate nel 1964 dai Carabinieri di Roma, Gubbio e Fano proseguirono senza interruzioni da parte dei Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico ed in data 24 novembre 1977 finalmente i militari riuscirono ad acquisire una fotografia dell'opera, così come appariva al momento del ritrovamento ( ricoperta da concrezioni), da tale R. M., commerciante di Imola, che all'epoca del rinvenimento del bronzo si era interessato all'acquisto. Il M. riferì ai militari di aver visto la scultura nell'estate del 1964 nell'abitazione di un pescatore di Fano e di aver saputo che in seguito il reperto era stato venduto ai fratelli B. di Gubbio.
Le dichiarazioni del Merli consentirono ai Carabinieri di identificare tutti i componenti dei due pescherecci che avevano recuperato il bene, nonché i fratelli B. a cui il bene era stato venduto dal P. e dal F.. Il M. ascoltato dai Carabinieri dichiarò di aver appreso dai due fratelli marinai che avevano trovato la statua, che il reperto era stato rinvenuto in prossimità della costa fanese in acque territoriali italiane. F. G. e P. R. riferirono ai C.C. che il ritrovamento era avvenuto all'alba di un venerdì del mese di agosto 1964, nelle acque antistanti la zona di Pedaso in provincia di Ascoli Piceno. Da un primo esame della statua i due indagati avevano constatato la mancanza dei piedi e degli occhi. ( cfr. annesso nr.5 al Dossier Lisippo , informativa del 30 maggio 1979 e relativi allegati).
Alla luce di tali nuovi elementi, il Pretore di Gubbio, tramite il servizio Interpol di Roma interessò la polizia inglese, statunitense e belga, al fine di acquisire e sequestrare tutta la documentazione inerente l'acquisto della statua per chiarirne le modalità dell'esportazione dall'Italia.
In data 6 dicembre 1977 l'Interpol comunicò che la vendita della statua del Lisippo era avvenuta a Londra da parte di un mercante d'arte, D. C. e del barone belga L. L., in favore del museo americano Paul Getty. Il C. era direttore della società commercianti d'arte D. C. ltd con sede a Londra, filiale della società "A. S.A" del Lussemburgo. La società A. aveva acquistato la scultura nel 1974 da H. H. antiquario di Monaco, il bronzo prima di essere portato al Museo Paul Getty di Malibù era rimasto a Londra dai primi del 1975 ai primi del 1977 e, successivamente, dato in prestito per breve tempo al Museo di Denver in Colorado.
In data 25 novembre 1977, l'Ambasciata d'Italia a Londra informò le competenti Autorità italiane che il direttore della galleria londinese " A." interpellato in merito alla statua aveva precisato che gli Avv. G. e M. (legali della A.) avevano ottenuto una regolare licenza di esportazione del bronzo acquistato dal Getty Museum.
In data 2 gennaio 1978 il Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico, inviò al Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali la fotografia della statua del Lisippo, perché fosse diramata agli Uffici Esportazione, onde verificare se presso qualcuno di essi fosse stata richiesta la relativa licenza di esportazione.
Il 23 maggio 1978, l'Ufficio Centrale per i Beni Ambientali, Architettonici, Archeologici, Artistici e Storici del Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali riferì che dagli accertamenti esperiti non risultava rilasciata dalla competenti autorità italiane, alcuna licenza di esportazione del Lisippo.
Il direttore della galleria A. aveva dunque riferito false circostanze circa l'esistenza della licenza di esportazione.
Nel frattempo, nel prosieguo delle indagini, i Carabinieri segnalarono al Pretore di Gubbio di aver appreso notizie circa il fatto che il bronzo era stato fatto uscire dall'Italia, dapprima, spedendolo da Gubbio a Fano, imballato in una cassa e, successivamente, inviato via mare da Fano in Sud America.
La statua sarebbe così pervenuta ad un certo padre "Leone", italiano, che dimorava nel convento dei cappuccini di Alagoinbas, nella Stato di Salvador- Bahia del Brasile. Il Giudice incaricò i Carabinieri di esperire nuove indagini al riguardo.
In data 14 giugno 1978 l'Interpol riferì che padre Leone, identificato in R. S. nato a Fano e localizzato in Brasile, non aveva fornito alcuna notizia utile circa le vicende della statua.
L'A.G. di Gubbio richiese ulteriori ricerche, previo scandaglio marino, per cercare di rinvenire le parti mancanti della statua, indagini che tuttavia non furono effettuate per motivi tecnici.
Nel frattempo, qualche mese prima, il 21 marzo 1978, l'Interpol aveva inviato la documentazione relativa alle indagini svolte dalla polizia statunitense, che aveva ascoltato la signorina S. E., segretaria del Paul Getty Museum. La signora riferiva che la statua era entrata in America dal porto di Boston a mezzo dell'agenzia doganale T.D. DWNING Company di quella città, con bolletta datata 15.08.1977, spedita dall'agenzia A.. Quindi era stata portata nel museo delle Belle Arti di Boston ed ivi lasciata dai fiduciari del Paul Getty per un certo periodo di tempo, allo scopo di non pagare le tasse in California, dopodichè, per ragioni climatiche, era stata trasferita nel museo di Denver in Colorado, dove era rimasta in mostra fino al marzo 1978 e, successivamente, portata al Museo Paul Getty di Malibù. La scultura era stata trovata in acque internazionali, di fronte alla costa italiana, legalmente esportata a Monaco di Baviera, acquistata e parzialmente restaurata da H. H., commerciante per l'A., poi era stata proposta in vendita fin dal 1970 a facoltosi acquirenti, tra anche Paul Getty. Il bronzo era stato acquistato dal Paul Getty Museum nel 1977 per 3.950.000 dollari, imbarcato a Londra tramite l'A. e portato a Boston, dove fu perfezionata la vendita. Nel 1974 la statua era stata ispezionata dal Soprintendente del Paul Getty Museum, al fine di verificarne l'autenticità. Il Museum era inoltre in possesso delle sentenze della A.G. italiana del 1965 e del 1970, che avevano assolto i venditori della statua e dalle quali risultava che la stessa era stata rinvenuta in acque internazionali e, di conseguenza, non soggetta alla legge italiana.
In data 21 giugno 1978 la polizia di Nuova Scotland Yard rispondendo alla rogatoria internazionale del Pretore di Gubbio riferì che, secondo le dichiarazioni di D. C., la statua era stata tenuta a Londra nei magazzini della D. C. Ltd, di cui era titolare lo stesso C., società che era una succursale dell'A. S.A, con sede in Lussemburgo. La statua era stata acquistata da un'altra succursale dell'A. , la "Establissement D.C." con sede a Vaduz nel Leinchtenstein in un luogo imprecisato nel 1971. C. affermava di non conoscere alcun dettaglio di tale transazione. La statua rimase nei magazzini di D. C. di Londra per circa un anno, dopodichè, fu inviata al museo della Antichità Classiche di Monaco per il restauro. Essa rimase a Monaco per circa due anni, fino a quando nel 1975 P. G. si interessò all'acquisto e poiché G. non voleva muoversi da Londra, la statua fu nuovamente inviata nei magazzini di C. a Londra. La scultura fu acquistata dal Getty Museum e poi trasportata a Boston in data 8 agosto 1977. C. riferì che l'antiquario H. H. era anche un membro del consiglio dell'A. Fine Arts e nella vendita della statua al Museum Getty aveva svolto il ruolo di consigliere. Il C. affermava di non sapere chi avesse trasportato la statua dall'Italia e che nessun documento pertinente alla stessa era in possesso della D. C. L.td ( cfr. foglio 171 del fascicolo di Gubbio acquisito in atti ed allegato all'informativa dei C.C. del 30 maggio 1979.).
Le ulteriori richieste relative all'acquisizione della documentazione non furono evase dalla polizia inglese, in quanto la Gran Bretagna non aveva aderito alla Convenzione dell'UNESCO del 1970, a cui il giudice aveva fatto riferimento.
In data 21 giugno 1978 L'Ambasciata d'Italia a Washington comunicò che il competente Dipartimento di Stato, interessato per rogatoria dell'A.G. italiana aveva precisato con nota verbale di non poter aderire alla richiesta in assenza dei necessari requisiti di legge.
In data 25 novembre 1978 si chiudeva il procedimento di Gubbio, con una pronuncia di non luogo a procedere per essere rimasti ignoti gli autori del reato.
In data 15 maggio 1989 l'allora Direttore Generale MIBAC inviò al Direttore del Getty una lettera con cui chiedeva di valutare l'opportunità di restituire l'opera all'Italia, ricevendo tuttavia risposta negativa.
Venendo ai nostri giorni, nell'ambito delle indagini avviate nell'odierno procedimento, personale del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale - Nucleo di Ancona ( cfr. informativa in data 27 novembre 2007) assumeva informazioni sull'acquisto della statua da parte del Getty Museum, dal Dr. T. H. all'epoca direttore del Metropolitan Museum di New York e dall'arch. S. G. G. vice direttore del Getty Museum
è opportuno sottolineare che i Carabinieri del T.PC. , anche in relazione ad un articolo apparso sul Los Angeles Times in data 11 maggio 20006 avevano acquisito in copia digitale un documentario prodotto il 20 aprile 1979 dall'emittente televisa ABC News di Los Angeles, nel quale T. H. ricostruiva la storia ed i passaggi del Lisippo. Nelle dichiarazioni rese in data 24 aprile 2007 H. riferiva di aver visto per la prima volta il bronzo il 13 dicembre 1972 a Monaco di Baviera presso la galleria di H. H. e che in quel momento la statua era sottoposta al processo di ripulitura dalle incrostazioni. H. ed uno dei curatori del MET che era con lui, D. V. B. erano rimasti subito entusiasti dalle bellezza della statua che era stata posta in vendita al prezzo di 3,5 milioni di dollari. Il MET tuttavia aveva già speso il budget previsto per gli acquisiti ed H. pensò allora di proporre un acquisto congiunto al signor J. P. G. senior.
Dopo un primo contatto telefonico, i due si incontrarono a Londra il 14 giugno 1973 ed in quella occasione H. ricevette dal G. l'incarico di negoziare con H. e la società A., l'acquisto dell'opera. J. P. G. indicò il prezzo di acquisto in 3,5 milioni di dollari, riservandosi però ulteriore tempo per riflettere sull'eventuale innalzamento del prezzo sino a 4 milioni di dollari. Sempre a dire di H., nella circostanza, il G., gli esternò le sue preoccupazioni circa le circostanze del rinvenimento e dell'esportazione della statua, essendo perfettamente consapevole che l'opera proveniva dall'Italia e che era stata raccolta fortuitamente da alcuni pescatori nelle loro reti al largo di Fano. J. P. G. senior era anche a conoscenza che per tale vicenda era stato aperto un procedimento penale dall'A.G. italiana per il reato di ricettazione, che si era concluso con l'assoluzione di tutti gli imputati, sentenza divenuta poi definitiva in Cassazione. Il signor G. pose quindi come condizione per l'acquisto del bronzo, l'acquisizione delle autorizzazioni scritte da parte delle Autorità italiane. Al ritorno negli Stati Uniti H. contattò immediatamente i membri della Commissione Acquisizioni del MET al fine di concordare le modalità dell'acquisto congiunto del Lisippo ed i particolari dell'accordo. D. v. B. ( membro della Commissione del MET) compilò il modulo di acquisizione del Lisippo contenente tutti i dettagli della transazione.
Al punto XII di tale scheda di acquisto (pervenuta ai C.C. del T.P.C in data 26 gennaio 2007 ed acquisita al Dossier Lisippo) v. B. precisava di aver appreso dell'esistenza del bronzo dal suo amico E. B., che lo aveva visto per primo in Italia, all'interno della vasca da bagno del sacerdote di Gubbio. Il 25 giugno 1973 H. fece consegnare a mano una sua lettera a D. C. negoziatore designato dall'A. ( allegati all'informativa del 27 novembre 2007), nella quale comunicava al C. di essere stato incaricato dal signor G. senior ad offrire la somma di 3,8 milioni di dollari per l'acquisto del bronzo, previo esame ed approvazione da parte del Consiglio del MET e dei legali del G. dei documenti concernenti la proprietà del bene .
Tale missiva è stata acquisita dai C.C. e tradotta in lingua italiana con incarico peritale conferito da questo giudice nell'odierno procedimento ( cfr pagine 36 e 37 della traduzione peritale e pag 208-209 del Dossier Lisippo). In essa H. scrive testualmente a C. "Come le ho chiarito nelle nostre conversazioni, ( si erano in precedenza sentiti telefonicamente) la conclusione di questo acquisto da parte del Sig. G. è soggetta all'esame ed all'approvazione del Consiglio del Metropolitan Museum e del Consulente legale dei signor G., in relazione ad alcuni punti legali che possono richiedere qualifiche o certificazioni..."
Il 26 giugno 1973, H. inviò al signor G. senior una lettera dove venivano precisati i dettagli dell'accordo relativo al prestito ed alla comproprietà del bronzo, ( cfr. allegati all'informativa del 27 novembre 2007 e pag 210 del Dossier Lisippo) Nella lettera venivano evidenziati dettagliatamente tutte le condizioni legali da chiarire e la documentazione da acquisire prima di concludere l'acquisto. H. riferiva inoltre al G. che il MET aveva già incaricato l'avvocato H. B. di acquisire presso le competenti autorità italiane le autorizzazioni scritte per l'acquisto del bronzo.
Anche questa lettera che, come la precedente, conferma la versione di H. è stata tradotta dal CTU del giudice ( cfr. pag. 37-40 della traduzione) ed al punto 5 si legge testualmente: " Resta chiaramente sottinteso tra di noi che nessun impegno da parte mia è da considerarsi preso nei riguardi del bronzo greco fino a quando non vengano chiarite alcune condizioni legali. Queste riguardano : a) Il chiaro titolo di proprietà A.-H., b) Se c'è o meno un possesso da parte dello Stato Italiano; c) Le circostanze che riguardano la sua uscita dall'Italia; d) la possibile giurisdizione sul pezzo da parte del Ministero della Cultura Belle Arti o altro ente del Governo Italiano; i) Come abbiamo detto, il consigliere generale del MMA, H. B..... Si metterà in contatto con gli avvocati dell'A. a Roma , G. M. e V. G., dello Studio "G.", per rivedere tutti i problemi legali passati e presenti; ii) È ugualmente chiaro che H. B. o il suo rappresentante si sforzeranno di discutere le questioni legali sia con le Belle arti, la Polizia Italiana o qualsiasi altro ente italiano per scoprire se ci possano o meno essere rivendicazioni legali sull'Atleta di bronzo. È pure sottolineato che H. B. discuterà tutti i problemi legali con i vostri avvocati; iii) Ho accluso una copia della lettera a D. C. in relazione all'offerta e a tutte le importanti questioni legali, come ne abbiamo parlato....." H. riferì ancora ai Carabinieri che il giorno successivo, o due giorni dopo l'invio delle missive, ricevette da Londra una telefonata di D. C., che nel frattempo aveva ricevuto la su lettera. C. richiese di aumentare l'offerta di acquisto a 3,9 milioni di dollari. H. accettò e C. disse che l'affare era fatto. Una settimana prima che la Commissione Acquisizioni del MET si riunisse per l'approvazione dell'acquisto C. telefonò ad H. riferendogli che il prezzo era aumentato a 4,2 milioni di dollari, su richiesta di H., somma che avrebbe dovuto essere pagata in marchi tedeschi, in ragione della diminuzione del valore di cambio del dollaro. H. comunicò l'aumento al signor G., il quale riferì che in nessun modo avrebbe accettato e diede ad H. istruzioni di attendere una settimana riproponendo poi l'offerta a 3,7 milioni di dollari, poi dopo un'altra settimana di abbassarla a 3,6 milioni di dollari e così via. G. senior esternò ad H. il sospetto che non si trattasse, in realtà, di un problema di soldi, ma del fatto che H. sapeva perfettamente che non era possibile fornire i documenti legali richiesti, provenienti dall'Italia. L'accordo quindi venne meno. H. non ebbe più contatti con la società A. e con H., venne cancellata la riunione della Commissione del MET e l'Avv. B. pose fine alle sue indagini per ottenere le autorizzazioni dall'Italia. Dopo la morte del signor G. avvenuta nel 1977, H. apprese che il Getty Museum aveva acquistato il Lisippo dalla A. / H. al prezzo di 3,9 milioni di dollari e che l'acquisto era stato portato a termine dal curatore del Museum J. F..
Il 26 aprile 2007, i Carabinieri del TPC ascoltavano anche S. G. G., all'epoca vice direttore del Getty Museum e direttore del Museum dopo la morte di J.P. G. senior, il quale riferiva di non conoscere nei dettagli l'operazione relativa al tentativo di acquisto congiunto del Lisippo da parte del J.P.G.M e del MET. Nella dichiarazione giurata prodotta dalla difesa all'udienza del 21.12.2009 (allegato 16) G. affermava che né lui e neppure gli altri componenti del Consiglio dei Fiduciari del Museum avevano mai discusso l'acquisto del bronzo con T. H..
L Avv. J. P. W., membro del Consiglio dei Fiduciari nella dichiarazione giurata del 3 giugno 2009 ( allegato 15 delle produzioni dei difensori del The J. Paul Getty Trust all'udienza del 21 dicembre 2009) riferiva di essersi occupato delle trattative concernenti l'acquisto del bronzo, autorizzato dal Consiglio in data 27 luglio 1977 ed asseriva che nessun membro del Consiglio era a conoscenza di potenziali rivendicazioni sul bene da parte delle autorità italiane, oltre alle cause già risolte nel 1970. Il teste riferiva che all'epoca dell'acquisto il Museum era a conoscenza che la statua era stata oggetto di un processo in Italia, che tuttavia si era concluso con una sentenza della Corte di Cassazione nel 1968 e successiva sentenza della Corte di Appello di Roma nel 1970, che aveva assolto tutti gli imputati, perché la statua non proveniva da acque territoriali italiane. W. era al corrente di una precedente trattativa intercorsa tra J.P.G. senior ed il MET di New York per l'acquisto in comproprietà della statua. L'accordo prevedeva che il 75% del prezzo fosse versato da J.P.G. ed il restante 25% dal MET ma, al contrario, la proprietà del bene doveva spettare al 75% per cento al MET ed il 25% al Getty Museum. In cambio il MET doveva prestare alcune opere d'arte secondarie. W. dichiarava che il signor B. ( consigliere del G.) aveva convinto il signor G. che l'affare non era vantaggioso, come riferitogli dallo stesso B.. W. asseriva inoltre che né lui, né gli altri consiglieri erano conoscenza di documenti redatti dal MET in relazione all'acquisto del bronzo.
Nella documentazione prodotta dalla difesa del G., si fa espressamente riferimento alle trattative con il MET ed alle preoccupazioni nutrite da J.P.G. senior in ordine alla provenienza della statua nella lettera inviata dallo stesso G. a H. il 31 agosto 1972 (allegato 7 produzione del 21.12.2009), in cui veniva richiesta all'antiquario tedesco copia degli atti del processo italiano e tutti i particolari della causa. Nella nota per l'archivio a firma N. B., Fiduciario e Tesoriere del Museum, (allegato 8 alla produzione del 21 dicembre) si legge : " Il sig. G. ha affermato che, subordinatamente all'ottenimento del titolo di proprietà incontestabile e supponendo di riuscire ad ottenerlo, di gradimento dell'Avv. S. P., (legale del Museum), raccomanderebbe ai fiduciari l'acquisto della statua".
In data 4 ottobre 1972 gli Avvocati G. M. e V. G., dello studio E. G. (legali di H. e di A.) inviavano all'Avvocato S. T. P. (legale del Getty Museum) un parere " sulla questione del bronzo greco". (cfr. allegato 10 alle produzioni difensive del 21.12.2009). Affermavano i legali che la statua era stata acquistata da un loro cliente (Establissement pour la Diffusione et la Connaissence des Ouvres d'Art " D.C") in Brasile da un gruppo di venditori italiani, ai sensi di un contratto stipulato in data 9 giugno 1971. Tale circostanza conferma le dichiarazioni rese da D. C. che aveva riferito alla polizia inglese che il bronzo era stato acquistato da una succursale dell'A. la"Establissement D.C." con sede a Vaduz nel Leinchtenstein. Gli Avv. G. e M. riferivano che il bronzo era stato oggetto in Italia di un lungo processo dal 1965 al 1970 conclusosi con una sentenza definitiva di assoluzione pronunciata dalla Corte di Appello di Roma, a cui il procedimento era prevenuto a seguito di rinvio da parte della Corte di Cassazione, sentenza che aveva assolto i venditori del bene con formula piena "fatto non costituisce reato". I legali chiarivano che l'assoluzione era stata determinata dal mancato accertamento sia del luogo del rinvenimento, sia dall'incertezza circa la natura di bene di interesse storico archeologico attribuibile alla statua. I legali asserivano che lo Stato Italiano non si era costituito parte civile nel processo "mostrando così nessun interesse al recupero del bronzo. Né il bronzo né alcuna fotografia dello stesso sono mai stati prodotti durante il processo e la pubblica accusa si è basata soltanto su prove verbali. Di conseguenza non è legalmente provato che questo bronzo sia quello oggetto del processo..." I legali si ponevano comunque il problema, di eventuali rivendicazioni da parte dello Stato Italiano, indipendentemente dalla sentenza di assoluzione, qualora fosse stata accertata l'identità tra il bronzo in questione e che quello rinvenuto in Italia, ma sostenevano che tale prova era pressochè impossibile e che di conseguenza il Getty Museum non aveva alcun motivo di preoccuparsi, perché i loro clienti (H. e A.) avevano acquistato il bene in modo legittimo ed in buona fede dopo l'assoluzione dei venditori. La sentenza comunque era ormai passata in giudicato ed, in ogni caso, qualsiasi eventuale rivendicazione da parte dello Stato Italiano sul bene sarebbe stata preclusa dall'acquisizione della statua da parte dei loro clienti e da qualsivoglia cessionario degli stessi.
L'identità tra il bronzo detenuto dal Getty e la statua trovata dagli attuali indagati è stata invece incontestabilmente provata nell'odierno procedimento attraverso la documentazione fotografica acquisita e le analisi sul frammento di concrezione marina consegnato al P.M. di Pesaro da C. E. e non è contestata dai difensori del museo.
In una comunicazione datata 30 giugno 1973 ( allegato 14 della stessa produzione difensiva) N. B. illustrava al G. le proprie considerazioni circa le modalità e le condizioni che potevano essere più vantaggiose per il Getty Museum nella trattativa intrapresa con H.. In particolare, B. mostrava alcune perplessità nei confronti della pretesa manifestata, seppur non espressamente da H., di riservare al MET il 50% della proprietà del bronzo ( e non il 75% per conto come dichiarato P. W.) e proponeva una serie di condizioni e dettagli che potevano rendere l'acquisto congiunto più vantaggioso per il Museum.
In data 26 agosto 1973 ( allegato 17 alla produzione documentale del 21.12.2009) H. H. scriveva a J. F. ( Curatore alla antichità del Getty Museum), facendo riferimento ai problemi insorti con H. nel corso della trattativa a causa dell'aumento del prezzo della statua di 3,5 milioni di dollari inizialmente pattuiti a 4 milioni di dollari, in ragione della svalutazione del dollaro. Alla fine della missiva H. in risposta ai questi legali posti dal G. asseriva che "anche lo Stato Italiano ammette il nostro diritto incontestabile di proprietà sul bronzo; l'Avv. B. ( il legale incaricato da H.) verrà debitamente informato dai nostri legali italiani, indipendentemente dall'eventuale esito positivo dell'operazione.
In data 14 settembre e 1 ottobre 1973 l'Avv. G. inviava due lettere allo Avv. B. ( allegati 18 e 19 della produzione difensiva) nelle quali comunicava che il Procuratore Distrettuale di Monaco aveva archiviato l'accusa originariamente mossa nei confronti dei suoi clienti perché non comprovata, ribadiva che dopo le pronuncia di assoluzione della Corte di Appello di Roma non potevano essere prospettate accuse nei confronti di H. e della A. e che il termine di prescrizione precludeva qualsiasi accusa per il reato di esportazione clandestina nei confronti dei suoi clienti, accusa che tuttavia non poteva essere formulata nei confronti dei suoi clienti perché gli stessi avevano acquistato il bene all'estero.
In data 3 novembre 1973 ( allegato 20 della produzione dei difensori del Getty Museum) H. H. scriveva a J. F. per comunicare il fallimento delle trattative per l'acquisto congiunto della statua da parte del Getty Museum e del MET, avendo appreso da H. che il signor G. senior non era d'accordo con il prezzo di 4 milioni di dollari ed era disposto ad offrire solo la somma di 3,5 milioni di dollari, offerta che H. non poteva a sua volta accettare.
In data 8 luglio 1977 veniva inviata una lettera da A. H. H. & Co, nella persona di H. H. al Dottor J. F. (cfr. allegato 20 della produzione documentale effettuata dai difensori del Getty Museum all'udienza del 12 giugno 2009- pagine 44-47). Nella lettera H. comunicava a F. di aver dato disposizioni all'ufficio di A. di inviare al Museum tutta la documentazione completa in ordine agli aspetti giuridici inerenti alla statua greca in bronzo. I documenti tradotti in lingua inglese erano stati suddivisi in tre fascicoli di cui : "i fascicoli uno e due riguardano i fatti già noti ai Vostri legali........ I fatti contenuti nel terzo fascicolo forniscono una prova ulteriore e definitiva della correttezza dello stato giuridico dell'oggetto.."
Nell'assemblea dei Fiduciari del Museo J.P.Getty in data 27 luglio 1977 veniva approvato e deliberato l'acquisto della statua per un importo di 3.950.000 dollari.
All'udienza del 21 dicembre 2009, su richiesta dei difensori del Museo veniva ascoltato il Dottor S. W. C., legale rappresentante del The J.P.Getty Trust, il quale in sostanza dichiarava che l'acquisto del bronzo dal parte del Getty Museum era stata effettuata nella piena convinzione della legittimità e legalità dell'operazione, in considerazione della documentazione prodotta dai venditori, con particolare riferimento alla sentenza di assoluzione emessa dall'A.G. italiana nel 1970, del decreto di archiviazione emesso nei confronti di H. dall'A.G. tedesca e dei pareri legali degli Avvocati di H. ed A., che affermavano la sussistenza e la legittimità del diritto di proprietà dei venditori e l'assenza di qualsiasi rivendicazione da parte dello Stato italiano. A specifica domanda del rappresentante dell'Avvocatura dello Stato ( cfr. pagine 66 e seguenti del verbale di udienza del 21 dicembre 2009), C. affermava di non essere in possesso del contratto di acquisto del bene da parte dei venditori, precisamente, il contratto di acquisto stipulato in Brasile il 9 giugno 1971 tra i venditori italiani e la Establissement pour la Diffusione et la Connaissence des Ouvres d'Art " D.C", società succursale dell'A., a cui si faceva espresso riferimento nel parere degli Avvv. M. e G. in data 4 ottobre 1972 . Precisava di aver visto la lettera dei due legali, ma non il contratto. Il Dottor C. riferiva inoltre che all'epoca dell'acquisto del Lisippo non era stata ancora instaurata la prassi, poi adottata in seguito, di predisporre un dossier per l'acquisto, cioè delle relazioni formali con tutte le notizie riguardanti la provenienza e le caratteristiche dell'opera da acquistare e che la documentazione prodotta dai suoi difensori ed acquisita gli atti costituiva tutta la documentazione in possesso del Museum in ordine alla provenienza , al titolo di acquisto ed all'autenticità dell' opera. Tutti i documenti erano stati forniti dai venditori, che ne avevano garantito la verità e la correttezza.
Ebbene, dalle ricostruzione appena delineata emergono almeno quattro dati fondamentali : 1) La provenienza del bene dall'Italia, in quanto è stata accertata l'identità tra il bronzo detenuto dal Getty Musuem e quello trovato dai pescherecci italiani al largo delle coste della città di Fano. 2) La sua storia di clandestinità atteso che, dopo il rinvenimento fortuito, la stessa è stata introdotta illegalmente dagli indagati nel territorio dello Stato Italiano, ivi occultata e venduta sempre illegalmente ed, infine, esportata clandestinamente, in assenza di qualsiasi licenza e/o autorizzazione, forse in Brasile, come hanno sostenuto H./ A. ed i loro legali, forse a Londra e da qui in Germania dopo l'acquisto da parte di H., come sostenuto da H.. 3) La consapevolezza da parte del Getty Museum che il bronzo proveniva dall'Italia e che coloro che lo avevano trovato e poi rivenduto ad H.-A. erano stati processati ed assolti dall'A.G. italiana per il delitto di ricettazione ed, inoltre, che era stato iscritto dall'A.G. di Gubbio anche un procedimento contro ignoti per il reato di esportazione clandestina del bene.
4) La mancanza del titolo originario di acquisto del bene da parte del dante causa del Getty Museum, titolo che non poteva esserci, proprio perché H. ed A. avevano acquistato il bronzo illegalmente dai venditori italiani, cioè gli attuali indagati, che lo avevano fatto uscire clandestinamente dall'Italia. Trattasi di circostanze decisive, perchè dimostrano univocamente, come di seguito si dirà affrontando le problematiche in materia di confisca, se non la piena consapevolezza della illecita esportazione della statua da parte del Getty Museum, quantomeno, una grave negligenza ed il conseguente collegamento tra l'attuale detentore del bene ed il reato contestato al capo a) della rubrica, che non consente di qualificare il Museum "persona estranea al reato" ai sensi dell'articolo 174 comma 3° D.Lgs nr. 42 / 2004.
3. Il regime giuridico del bene.
Così delineato il contesto storico e fattuale delle vicende della statua, al fine di individuarne il regime giuridico di circolazione, occorre ancora una volta un preliminare richiamo alle considerazioni già svolte nell'ordinanza del 12 giugno 2009.
Nel provvedimento si affermava in sostanza: a) l'identità tra la statua rinvenuta dal peschereccio fanese e la scultura attualmente detenuta dal Paul Getty Museum, identità peraltro non contestata dal museo;
b) la sussistenza della giurisdizione italiana e la competenza territoriale di questa A.G., in virtù del titolo di reato, in quanto le condotte criminose risultavano realizzate in tutto o almeno in parte in Fano e nel territorio della sua provincia, nonché, a Gubbio ;
c) l'applicabilità della legge penale italiana sulla base delle disposizioni di cui agli articoli 3 e 4 c.p., atteso che la scultura è stata rinvenuta da un motopeschereccio italiano ed è stata sbarcata sul lido di Fano e del principio sancito anche dalle norme di diritto internazionale, secondo il quale le navi e gli aeromobili privati sono soggetti alla legge penale dello Stato di bandiera quando sono in o sull'alto mare o in un territorio in cui non si esercita alcuna sovranità. Lo stesso principio è stabilito anche nell'articolo 4 del codice della navigazione, con la previsione che in alto mare, le navi battenti bandiera italiana sono a tutti gli effetti equiparate al territorio dello Stato;
d) la sussistenza di un diritto di proprietà dello Stato Italiano sul bene, quale diretta conseguenza dell'applicabilità della legge italiana.
Alla stregua della normativa sopra richiamata nel provvedimento del 12.06.2009 si perveniva alla conclusione " che in caso di rinvenimento in alto mare di relitti marini di pregio storico ed artistico da parte di una nave battente bandiera italiana, come avvenuto nel caso di specie, si applica la legge italiana ed in particolare, le norme nazionali in materia di beni culturali.
Dall'accertamento positivo dell'applicabilità della legge italiana discende la sussistenza di un diritto di proprietà dello Stato Italiano sul bene in oggetto, quale diretta conseguenza dell'applicazione della legge dello Stato di bandiera..."
Evidenziava ancora questo giudice che "come è stato accertato nel decreto di archiviazione la scultura in contestazione è un bene archeologico rinvenuto da cittadini italiani a bordo di un peschereccio italiano, introdotto nel porto di Fano ed approdato sul lido della stessa località. Tali circostanze, indipendentemente dalle questioni del rinvenimento del bene in acque non territoriali e della sua introduzione a Fano senza il rilascio dell'autorizzazione ex art. 42 L. 1089/1939 comporta la sua cd. "nazionalizzazione" intesa come l'acquisizione di un diritto di proprietà dello Stato sul bene..."
Così accertata la giurisdizione penale di questa A.G., diventa necessario verificare il regime giuridico che disciplina la circolazione del bene sotto il profilo civilistico, punto di partenza per stabilire, se il bene sia stato esportato o meno illegalmente dall'Italia, per il fatto stesso di essere entrato nello Stato Italiano dopo essere stato trovato in acque presumibilmente internazionali.
Al riguardo, occorre innanzitutto far riferimento all'articolo 51 L. 31 maggio 1995 nr.218, che costituisce la norma di collegamento di diritto internazionale privato.
Tale disposizione stabilisce "che il possesso, la proprietà e gli altri diritti reali sui beni mobili ed immobili sono regolati dalla legge dello Stato in cui i beni si trovano. La stessa legge ne regola l'acquisto o la perdita.."
In questo procedimento, il luogo rilevante ai fini dell'individuazione del regime giuridico applicabile non può che essere il territorio italiano, dove il bene si trovava al momento del suo trasferimento all'estero, presupposto da cui non si può prescindere, proprio perché si deve giudicare, seppur in via incidentale (in relazione alla particolare tipologia di accertamento riservato all'odierna fase processuale), se la scultura sia stata illegittimamente esportata dal territorio dello Stato Italiano.
La legge di riferimento anche sotto il profilo civilistico è dunque quella italiana, anche se la scultura attualmente si trova all'estero.
Del resto, l'applicabilità della normativa italiana che regola la circolazione dei beni culturali ed, in particolare, delle cose di interesse storico ed archeologico è stata affermata concordemente dalle parti processuali e sviluppata con approfondite argomentazioni dai difensori del Paul Getty Museum,( cfr. memoria a firma dell'Avv. Prof. E. R. deposita agli atti in data 9 gennaio 2010).
Infatti, nelle articolate memorie depositate in data 9 gennaio 2009, poi sviluppate ed approfondite nel corso della discussione , i difensori del Paul Getty Museum hanno in sintesi sostenuto che:
1) la statua non può essere considerata res extra commercium. In particolare, sulla base delle disposizioni di cui agli articoli 822 e 826 del codice civile e degli articoli 53,54, 91,92 quarto comma del Codice dei beni culturali e del paesaggio i difensori sostenevano che: " Già dal combinato esame delle predette disposizioni normative, si può pervenire alla conclusione in virtù della quale un bene mobile archeologico non può essere considerato sottoposto ad un regime di inalienabilità assoluta, in quanto - a meno che esso non faccia parte di raccolte di musei, delle pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche- non è un bene demaniale. Tale prima importante constatazione permette di sostenere, in termini ancora più semplici, che i beni mobili archeologici (ma lo stesso principio deve valere per l'intera categoria dei beni mobili culturali) non si possono ritenere tout court extra commercium. Siffatti beni, infatti, se non fanno parte "delle raccolte di musei, delle pinacoteche, degli archivi e delle biblioteche, devono essere ricondotti nell'ambito del patrimonio indisponibile dello Stato e degli Enti pubblici.... Ed essi in quanto tali... non possono essere caratterizzati da una incommerciabilità assoluta, come invece accade per i beni demaniali di cui all'articolo 822. seconda comma cc. ..."
2) Anche nel caso di un bene mobile archeologico possono pertanto, da un lato, ricorrere fattispecie di acquisto " a non domino"( come avvenuto nella vicenda del c.d. Getty bronze), dall'altro, di usucapione ordinaria "le situazioni possessorie, soprattutto, se protratte ininterrottamente per tutto l'arco temporale contemplato dall'articolo 1161 secondo comma c.c., potrebbero avere un rilievo decisivo al fine della attribuzione ex lege della piena proprietà al possessore, che non versasse in una condizione di buona fede e non sia diventato tale in base al titolo astrattamente idoneo a trasferirla. In una parola, i beni mobili archeologici non appartenenti al demanio possono certamente venire usucapiti in via ordinaria"
3) il Museo Getty per effetto del possesso continuato del bene dal momento del suo acquisto (avvenuto nel novembre 1977) fino ad oggi, ne è divenuto il legittimo proprietario, in presenza di tutti gli elementi costitutivi di cui all'articolo 1153 c.c., ovvero, un titolo idoneo, la consegna materiale del bene e uno stato di buona fede soggettiva, peraltro, da presumersi, salvo prova contrario da offrire da parte del dominus.
Ciò posto, nell'esaminare le complesse problematiche giuridiche sottese alla vicenda in esame, appare opportuno delineare nelle linee essenziali, il quadro normativo che nel nostro ordinamento disciplina il regime di circolazione dei bene culturali ed, in particolare, di quelli di interesse storico ed archeologico, categoria in cui rientra certamente la statua denominata " Atleta Vittorioso" e ciò , anche e soprattutto in considerazione delle allegazioni difensive.
La prima fondamentale legge di riferimento in materia di beni culturali ed in particolare di beni archeologici, è sicuramente la legge nr. 1089 del 1939, anche se già una prima tutela per tale categoria di beni si rinviene nella legge 12 giugno 1902 nr.185 che ne stabiliva la inalienabilità considerandoli beni indisponibili e nella legge nr. 364/1909 che prevedeva per i reperti archeologici solo un regime di proprietà pubblica.
La legge nr. 1089 del 1939, pur senza procedere a qualificare il genus beni culturali, ne consentiva l'alienazione previa autorizzazione ministeriale, ai sensi degli articoli 23- 24 "secondo una disciplina analoga a quella dei beni pubblici rientranti nel patrimonio indisponibile". Infatti la legge nr. 1089 del 1939 stabiliva negli articoli 23 e 24 che sia le cose mobili, che quelle immobili, quando appartengono allo Stato, alle province o ai comuni, sono inalienabili, ma che il ministro della pubblica istruzione sentito il Consiglio superiore delle antichità e belle arti, può autorizzarne l'alienazione, purchè non derivi danno alla loro conservazione e non ne sia menomato il pubblico godimento. Per la legge speciale quindi, le cose di interesse storico ed archeologico erano disciplinate secondo un regime che si ispirava al criterio della semplice indisponibilità, quello cioè che il codice civile adotta nei riguardi dei beni che fanno parte del patrimonio indisponibile, i quali per la loro particolare condizione giuridica, non possono essere sottratti alla loro destinazione se non nei modi previsti dalle leggi che li riguardano ( regime poi ribadito nell'articolo 828 del c.c.).
L'articolo 35 della stessa legge, subordinava l'esportazione del bene culturale archeologico al rilascio di un attestato di libera circolazione, c.d." licenza di esportazione", mentre l'articolo 66 della legge 1939/1089, prevedeva la confisca delle cose di interesse storico- archeologico esportate abusivamente, cioè in assenza dell'attestato di libera circolazione.
Con l'entrata in vigore del codice civile , il legislatore ha inserito tra i beni appartenenti al demanio pubblico, agli articolo 822-824 c.c. anche i beni immobili riconosciuti d'interesse storico - archeologico e artistico a norma delle leggi in materia; le raccolte dei musei, delle pinacoteche, delle biblioteche e infine gli altri beni assoggettati al regime proprio del demanio pubblico. Nel successivo articolo 823 c.c. viene stabilito un regime di inalienabilità assoluta dei beni facenti parte del demanio pubblico.
Con la previsione di un divieto assoluto di alienazione per i beni elencati nell'articolo 822 c.c. è stato inserito "un primo elemento di antinomia nella materia", atteso che è stato previsto un regime giuridico diverso da quello introdotto dalla legge speciale del 1939.
Il contrasto è stato risolto dalla giurisprudenza nel senso della abrogazione della norma anteriore per effetto di quella successiva incompatibile con la prima, con conseguente superamento della disciplina stabilita dagli articoli 23 e 24 della L. nr.1089/1939, a favore di un regime di inalienabilità assoluta ed inusucapibilità ex articolo 823 c.c.
Con riferimento al bene in contestazione, tuttavia, il codice civile non ha introdotto nessuna sostanziale innovazione, atteso che con la previsione dell'articolo 826 c.c., le cose di interesse storico ed archeologico sono state inserite nel patrimonio indisponibile dello Stato, regime che comporta come conseguenza una limitazione soltanto relativa alla facoltà di alienare, ai sensi dall'articolo 828 c.c.
Ne deriva, che l'alienazione che abbia per effetto il mutamento della destinazione del bene o,che comunque, sia avvenuta in violazione delle leggi che lo riguardano, deve ritenersi viziata con conseguente annullabilità del negozio giuridico.
La successiva legge nr 127 del 1997 all'articolo 12 3° comma ripristinava una disciplina unitaria rendendo applicabili alle alienazioni dei beni di interesse storico ed artistico effettuate dallo Stato dai Comuni e dalla Province, " le disposizioni di cui all'articolo 24 e seguenti della legge 1 giugno 1939, nr. 1089"
Due anni dopo, il D.L.gs. nr 490 del 29 ottobre 1999 ristabiliva il principio della inalienabilità assoluta dei beni culturali di cui all'articolo 822 c.c., appartenenti agli enti pubblici territoriali, assoggettandoli al regime proprio del demanio pubblico.
In questo contesto normativo caratterizzato da continui ripensamenti, è intervenuto il D.lgs. 22 gennaio 2004 nr 42, recante il " Il Codice dei beni culturali e del paesaggio", che ha organizzato e ricondotto ad unità il sistema, con diverse innovazioni, ma sempre nel senso di una sostanziale continuità con la legge 1089 e il T.U. del 1999.
Il codice Urbani all'articolo 54 distingue tra le tipologie dei beni culturali, quelli assolutamente inalienabili previsti dall'articolo 54 e le restanti species di beni culturali, per i quali è confermato un regime di inalienabilità relativa, essendo la circolazione degli stessi sottoposta ad un sistema di controllo preventivo di tipo autorizzativo.
Con la disciplina prevista nell'articolo 54, il legislatore ha distinto tre ipotesi " con una graduazione correlata alla diversa intensità della funzione culturale attribuita a ciascuna tipologia di bene: 1) beni per i quali, coerentemente alla natura demaniale, vige il divieto assoluto di alienazione ( art. 54 commi 1 e 2, ad eccezione della lettera a); 2) beni per i quali è previsto il divieto di alienabilità, a condizione che il procedimento di verifica dell'interesse culturale dia esito positivo (art. 54, comma 2 lettera a) ; 3) i restanti beni demaniali soggetti ad un divieto di alienazione relativo, perché collegato ad una autorizzazione ministeriale, la quale rappresenta anche un provvedimento implicito di sdemanializzazione".
In sostanza, secondo la previsione dell'articolo 54, i beni elencati dai commi 1 e 2 (ad eccezione della lettera a del secondo comma) sono quelli dotati di forte valenza culturale per i quali la tutela è massima e si concretizza in una permanente sottrazione a qualsivoglia regime circolatorio.
Il reperto che viene nel caso di specie in rilievo può essere annoverato entro la fattispecie di cui all'art. 54, 2° comma, lett. a, che si riferisce alle "cose immobili e mobili appartenenti ai soggetti indicati dall'art. 10, comma 1" (ossia Stato, Regioni, altri enti pubblici territoriali, ogni altro ente ed istituto pubblico, persone giuridiche private senza fine di lucro) "che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica previsto dall'art. 12" (la norma è stata modificata dal D.Lgs. 24 marzo 2006, n. 156 con cui è stato eliminato il riferimento al procedimento di sdemanializzazione che "poteva provocare problemi di coordinamento delle disposizioni").
È stato previsto anche in tal caso un divieto assoluto di alienazione: si tratta del "secondo livello di protezione (che) ha natura sostanzialmente cautelare in quanto è destinato fondamentalmente ad evitare che alcuni beni presuntivamente interessanti (in quanto ultracinquantennali ed opera di autore non più vivente) possano essere indiscriminatamente alienati. Per questi opera una sorta di presunzione di interesse pubblico, che può essere superata solo a seguito di uno specifico procedimento amministrativo di valutazione della rilevanza culturale degli stessi".
Il divieto assoluto di alienazione di cui all'articolo 54 2° comma, lett. è strettamente correlato e trova conferma nell'art. 65 dello stesso codice, che in materia di circolazione in ambito internazionale, vieta "l'uscita definitiva dal territorio della Repubblica dei beni culturali mobili indicati nell'art. 10, commi 1, 2 e 3. È vietata altresì l'uscita: a) delle cose mobili appartenenti ai soggetti indicati all'art. 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, fino a quando non sia effettuata la verifica prevista dall'art. 12".
4. L'acquisto di beni mobili culturali in violazione dei divieti di legge. Regime della invalidità dell'alienazione.
Il reperto è attualmente detenuto dal Paul Getty Trust che lo ha acquistato, come già detto, nel 1977.
È necessario quindi verificare la natura e la rilevanza giuridica nel nostro ordinamento della relazione materiale tra il bene ed il soggetto che ne ha la disponibilità, tenuto conto delle circostanze di fatto e delle modalità dell'acquisto, come delineate al paragrafo 2, dopodichè, si dovrà accertare se tale dominio possa essere sussunto nel concetto di appartenenza a cui fa riferimento tanto il 3° comma dell'art. 174 D.Lgs. n. 42/2004, quanto il 2° comma nr.2 dell'art. 240 c.p.
Le due norme appaiono, entrambe, astrattamente rilevanti in quanto la prima impone la confisca dei beni culturali illecitamente esportati, salvo che appartengano a persona estranea al reato; mentre la seconda (2° comma, n. 2) impone la confisca delle cose la cui alienazione costituisce reato, qualora la circolazione non possa avvenire neppure mediante autorizzazione amministrativa, anche se appartenenti a terzi di buona fede.
In tale prospettiva, appare opportuno considerare innanzitutto la normativa in vigore al momento in cui si è perfezionata la alienazione in favore del Paul Getty Trust.
Si è già evidenziato come, per i beni mobili di interesse storico, artistico ed archeologico, sino all'entrata in vigore del codice Urbani vigesse un regime di inalienabilità, salva autorizzazione ministeriale.
L'art. 61 imponeva la "nullità di pieno diritto" per "le alienazioni, convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalla presente legge o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da essa prescritte". L'art. 35, a sua volta, vietava la esportazione delle cose indicate all'art. 1 qualora ne fosse derivato danno per il patrimonio storico e culturale nazionale.
In relazione al divieto posto dall'art. 61, ed in particolare alla sanzione della nullità "di pieno diritto" ivi prevista, la giurisprudenza di legittimità ha sostenuto trattarsi di nullità relativa, stabilita nell'esclusivo interesse dello Stato il quale, soltanto, sarebbe legittimato a farla valere (il vizio non sarebbe quindi rilevabile non solo dai privati contraenti ma, neppure, dal giudice ex officio).
In questo contesto, la giurisprudenza di legittimità, seppur seguendo in alcuni casi percorsi logico argomentativi differenti, è sempre pervenuta alla conclusione di negare che il terzo, il quale in buona fede avesse acquistato beni mobili culturali in violazione dei divieti stabiliti dalla legge n. 1089/1939 ne fosse divenuto proprietario, con conseguente ritenuta inoperatività , non solo del disposto di cui all'art. 1153 c.c. (acquisto a non domino in base a titolo astrattamente idoneo da parte dell'acquirente di buona fede a seguito di traditio), ma anche, delle disposizioni di cui all'art. 1161 c.c. (usucapione abbreviata decennale dei beni mobili da parte del possessore di buona fede ovvero ventennale in caso di mala fede, qualora manchi un titolo anche solo astrattamente idoneo).
Con riferimento alla problematica dell'acquisto " a non domino", la Suprema Corte, pur prendendo le mosse dalla ritenuta relatività della nullità del negozio traslativo, come tale opponibile soltanto alle parti originarie e non al terzo acquirente di buona fede, ha negato l'applicabilità alla successiva alienazione dell'art. 1153 c.c. in forza dell'art. 32, legge n. 1089/1939.
Tale norma oltre a regolare l'esercizio del diritto di prelazione da parte dello Stato vieta espressamente all'alienante di effettuare la consegna del bene: "il rispetto di tale specifico divieto impedisce l'applicabilità nella specie della regola generale per il trasferimento della proprietà dei beni mobili posta dall'art. 1153 c.c., secondo cui l'immissione nel possesso mediante consegna della cosa "vale titolo" (sana, cioè, l'inefficacia del titolo a produrre il trasferimento della proprietà, inefficacia dovuta al fatto che, pur essendo idoneo alla causa sua tipica a provocarlo, proviene "a non domino"). Deve, infatti, ritenersi che la consegna della cosa..., cui l'art. 1153 c.c. si riferisce per produrre gli effetti ivi stabiliti, debba essere non vietata dalla legge per motivi di ordine superiore all'interesse privato alla certezza del commercio mobiliare che la predetta norma vuole assicurare" (Cass. civ., Sez. I, 7 aprile 1992, n. 4260, in Giur. It., 1994, I, 1248).
Ancora più incisiva, seppur fondata su argomentazioni diverse la recentissima sentenza Cass. pen., Sez. I, 27 gennaio 2009 (ud. 4 dicembre 2008), n. 3712, la quale ha statuito che "l'art. 61 della legge" n. 1089/1939 "dichiara nulli di pieno diritto "le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere aventi ad oggetto beni vincolati" con ciò ponendo un divieto assoluto non solo di alienazione ma anche di consegna dei beni del patrimonio artistico, appartenenti in Italia in gran parte ad enti morali cui si riferisce la sezione prima del capo terzo della legge citata, al di fuori delle procedure previste dalla legge con riguardo alla denuncia imposta affinché lo Stato possa esercitare il diritto di prelazione ed al divieto di consegna nel termine previsto per l'esercizio di tale diritto, con conseguente nullità assoluta non solo della prima "alienazione" ma anche di quelle successive, indipendentemente dalla buona fede dell'acquirente. Orbene la limitazione del divieto previsto dalla legge soltanto agli atti di compravendita, proposta dal ricorrente, cozza, prima ancora che con la ratio, con la stessa lettera della legge che dichiara la nullità di pieno diritto di tutti gli atti giuridici in genere attraverso cui si trasferisce la proprietà, con conseguente inapplicabilità della regola generale di cui all'art. 1153 c.c. tutte le volte in cui il primo acquisto sia avvenuto in violazione delle procedure di legge. Ne consegue che l'acquirente finale del bene appartenente al patrimonio artistico dello Stato...non può invocare la buona fede ovvero la esistenza di un primo acquisto a titolo originario (quale l'acquisto all'asta del bene) poiché tutti gli atti giuridici di acquisto di tali beni sono nulli, se non sono state esperite le procedure di legge, come espressamente disposto dalla norma citata, che...ha voluto evitare, con espressioni addirittura enfatiche, l'aggiramento del divieto legislativo attraverso atti giuridici di qualsiasi tipo che consentissero al terzo di invocare la propria buona fede qualora, al momento dell'acquisto, non si fosse accertato della esistenza della previa autorizzazione ministeriale alla alienazione".
Con riferimento al secondo profilo relativo all'usucapione, il Giudice di legittimità ha sostenuto la impossibilità di un possesso valido ai fini dell'usucapione dei beni di cui all'art. 826 c.c.( cfr. Cass. civ., 10 febbraio 2006).
Il caso sottoposto alla valutazione della Suprema Corte riguardava reperti archeologici, già sequestrati in sede penale (il relativo procedimento, promosso in relazione alle ipotesi di reato di furto archeologico e ricettazione si era precedentemente concluso con una sentenza di assoluzione, attesa la impossibilità di accertare esattamente l'epoca del rinvenimento) e quindi sottoposti a sequestro giudiziario, in relazione ai quali il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali aveva promosso azione di accertamento della proprietà pubblica. Il detentore, convenuto in giudizio, eccepiva, tra l'altro, l'intervenuta usucapione dei reperti. La Corte concludeva per l'infondatezza del motivo di ricorso in quanto "l'appartenenza dei beni al patrimonio indisponibile dello Stato, che si estrinseca nell'impossibilità di sottrarli all'uso cui sono destinati, ne impedisce la maturazione del possesso ad usucapionem (Cass. 01/07/2004, n. 12023, rv. 573981): i beni culturali sono destinati alla pubblica fruizione...e l'ordinamento non ne consente, se non in casi eccezionali e a determinate condizioni, la proprietà privata a scopo di collezionismo, che corrisponde ad un uso privato esclusivo (Cass. 28/08/2002, n. 12608, rv. 557167- Cass. 2995/2006)"
In conclusione, quindi, la prospettiva teorica da cui muove la Suprema Corte nel sostenere la inapplicabilità dell'art. 1153 c.c. e, ulteriormente, dell'art. 1161 c.c. non appare sempre coincidente, in quanto condizionata dall'esegesi della portata del divieto di cui all'art. 61, legge n. 1089/1939.
Il punto fondamentale è costituito dalla "idoneità del titolo".
Invero, secondo la dottrina tradizionale, titolo idoneo (seppur solo astrattamente, non essendo il venditore proprietario) ex art. 1153 c.c. è anche quello "caducabile" (ossia annullabile, risolubile, rescindibile o comunque affetto da vizio sanabile mediante conferma, ratifica o convalida); ne rimarrebbero pertanto esclusi soltanto gli atti giuridici nulli e quelli carenti di efficacia iniziale (contratti sottoposti a condizione sospensiva). Ciò spiega le ragioni che hanno indotto la giurisprudenza di legittimità chiamata a pronunciarsi circa l'operatività dell'art. 1153 c.c., nel caso di acquisto di bene culturale da parte di soggetto di buona fede, in alcuni casi, a negare la sussistenza di un titolo astrattamente idoneo (stabilisce infatti il principio di nullità assoluta la citata Cass. pen., 1372/2009) ed, in altri, muovendo dal presupposto della ritenuta nullità relativa degli atti compiuti in violazione dell'art. 61 (con conseguente sussistenza, in caso di successiva rivendita, di un titolo astrattamente idoneo), a sostenere l'impossibilità di configurare una legittima traditio.
Con riguardo alla norma di cui all'art. 1161 c.c. in tema di usucapione (abbreviata) decennale o ventennale, a seconda della buona o mala fede dell'accipiens, atteso che la disposizione in esame non richiede né titolo (astrattamente) idoneo né consegna, la Suprema Corte ha negato in radice la possibilità di usucapire i beni di cui all'art. 826 c.c.
Passando ad esaminare la disciplina dettata dal codice Urbani, si è già evidenziato che l'art. 54, 2° comma, lett. a, pone un divieto di alienazione assoluta dei beni culturali sino alla conclusione del procedimento di verifica di cui all'art. 12, divieto non superabile neppure tramite autorizzazione ministeriale. Tale totale indisponibilità è confermata dal successivo art. 56, che nel riprodurre in sostanza la disposizione dettata dall'art. 55 per i beni immobili, richiede l'atto di autorizzazione per "l'alienazione dei beni culturali appartenenti allo Stato, alle regioni ed agli altri enti pubblici territoriali e diversi da quelli indicati negli articoli 54, commi 1 e 2, e 55, comma 1": per tali categorie di beni viene dunque confermato il regime di inalienabilità assoluta che si traduce nella non commerciabilità degli stessi.
In ogni caso, sia che si faccia riferimento alla nullità "di pieno diritto" prevista dall'articolo 61 L. nr 1089/1939 nelle due interpretazioni della nullità assoluta o relativa degli atti di alienazione compiuti in violazione delle disposizione della stessa norma, sia che si ritengano applicabili gli articoli 54 e 55 del Codice Urbani, si deve necessariamente pervenire alla stessa conclusione: l'attuale detentore del reperto non ne ha acquistato, in base alla disciplina privatistica italiana, la proprietà secondo quanto disposto dagli artt. 51 e seg. legge n. 218/1995.
È stato infatti accertato che tutti gli atti di alienazione della scultura ed il suo trasferimento all'estero sono avvenuti clandestinamente, in assenza dei prescritti titoli autorizzativi e della licenza di esportazione da parte delle competenti Autorità italiane, in violazione delle disposizioni della legge nr.1089 /1939 allora in vigore, ma anche delle disposizioni dell'attuale Codice Urbani, che come si è già evidenziato si pone in rapporto di continuità normativa con la precedente legislazione (in particolare articoli 54 55, 65, 174 del Codice).
Le considerazioni esposte non consentono pertanto di condividere le allegazioni difensive circa la legittimità del titolo di acquisto del bene, in quanto la tesi difensiva risolve la questione essenzialmente sulla base della disciplina generale del codice civile.
Quello che invece rileva in questa sede è la commercializzazione di un bene inalienabile effettuata in violazione delle particolari disposizioni di tutela dettate dalla legislazione speciale, perché si verte in tema di effetti penali del reato di esportazione clandestina.
Incidenter tantum va dunque affermata la sussistenza del reato di esportazione clandestina , nonchè, degli altri reati contestati in rubrica, perchè all'epoca dell'acquisto del bronzo da parte del The J. Paul Getty Trust non vi era alcun atto valido per il commercio del bene.
Ne deriva, che la proprietà del bronzo era ed è rimasta ex lege allo Stato Italiano.
5. L'applicabilità della confisca con riferimento alla disposizioni di cui all'articolo 174 D.Lgs. nr.42/2004 e dell'articolo 240 c.p.
Affermata la illegittimità dell'esportazione di un bene extra commercium dello Stato Italiano e la sussistenza del reato di cui all'articolo 66 L. nr. 1089/1939, occorre verificare se sia possibile la confisca del bene.
È opportuno tuttavia fare una breve premessa, correlata alle conseguenze del riconoscimento della proprietà originaria dello Stato Italiano sul bene, in base alle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti. Al riguardo infatti, la Corte Suprema con la sentenza n. 1321 del 10 giugno 1974 (Foro it., 1975, II, 237) ha affermato: "La confisca - che si pone come strumento di acquisto a titolo originario ed in favore dello Stato delle cose che ne sono oggetto - non può essere disposta su cose di interesse storico, il cui rinvenimento ne abbia già comportato l'acquisto in favore dello Stato. In tale evenienza, infatti, vi sarebbe incompatibilità logica e giuridica tra i due titoli, non potendosi acquistare la proprietà della cosa già propria..". Tale principio ribadito anche recentemente dal Giudice di legittimità ( cfr. Cass. Pen. Sez. II 16 ottobre 1978 in Foro It., 1979, II , 576 e, più recentemente, da Cass. Pen. Sez. III sent. nr. 23295 del 28.04.2004, imp. Paleologo) appare pienamente condivisibile quando il bene illegittimamente acquistato da un privato , da un ente o da persona giuridica, si trovi già nel territorio nazionale, potendo in tal caso lo Stato ottenere la restituzione del bene anche facendo ricorso ai suoi poteri di autarchia ed autotutela.
Si deve tuttavia rilevare che, quando i beni si trovano all'estero, in territorio non soggetto alla sovranità dello Stato Italiano, il diritto di proprietà a titolo originario (derivante dalla natura di bene di interesse archeologico, che ne comporta l'assegnazione al patrimonio indisponibile dello Stato) risulta in concreto attuabile solo attraverso gli strumenti di cooperazione internazionale, che tuttavia spesso presuppongono un formale provvedimento di confisca, che, qualora concesso, verrà poi inviato all'Autorità richiesta per un formale riconoscimento.
Si evidenzia infatti che proprio la previsione di un particolare meccanismo costituito da strumenti di natura civilistica e di diritto internazionale fondati su accordi specifici di assistenza e collaborazione tra Stati, conferma la necessità, nel caso di detenzione all'estero del bene, di un preventivo provvedimento ablativo che lo Stato richiedente potrà far valere al fine di promuoverne l'azione di restituzione avanti al Tribunale del luogo in cui si trova il bene sottratto o illecitamente esportato. Tale particolare tipo di azione per i beni illecitamente esportati che si trovino in uno Stato membro dell'Unione, è disciplinata dagli articoli 75 e segg. del Codice Urbani, mentre, se il bene è stato rubato o illecitamente esportato in uno Stato che non fa parte dell'Unione, l'articolo 87 del Codice Urbani rinvia alle disposizioni delle Convenzione UNIDROIT del 24 giugno 1995.
Nel caso di specie, il bene illecitamente esportato non si trova in uno Stato membro dell'Unione Europea e non appare neppure applicabile la Convenzione UNIDROIT richiamata dall'articolo 87, in quanto non risulta che gli Stati Uniti abbiano mai ratificato il suddetto atto internazionale, di guisa che il provvedimento ablativo diventa titolo necessario per consentire allo Stato di rientrare in possesso del bene, atteso che lo Stato italiano non può autonomamente riconoscersi un titolo originario di proprietà, quando non è in grado di affermare la propria signoria sul bene, proprio perché si trova all'estero.
Si deve ancora rilevare che secondo il costante orientamento della Suprema Corte, il provvedimento ablativo può prescindere da un previo provvedimento di sequestro, in quanto la confisca : " non presuppone necessariamente il sequestro, né deve immancabilmente essere preceduta da detto provvedimento cautelare, ogni volta che i beni sono altrimenti individuabili" ( cfr. Cass. 29.1.2008 nr 6383).
Ciò posto, occorre esaminare la sussistenza in concreto dei presupposti per l'applicabilità della confisca.
Si è già detto che nel caso di specie appaiono astrattamente rilevanti sia le disposizioni di cui al terzo comma dell'articolo 174 D.Lgs. nr.42/2004 , sia quella ex articolo 240 , 2° comma nr 2. c.p, in quanto la prima norma impone la confisca dei beni culturali illecitamente esportati, salvo che appartengano a persona estranea al reato, mentre la seconda (2° comma, n. 2) impone la confisca delle cose la cui alienazione costituisce reato, qualora la circolazione non possa avvenire neppure mediante autorizzazione amministrativa, anche se appartenente a terzi di buona fede.
Ritiene il giudicante che il bene in oggetto sia innanzitutto assoggettabile a confisca obbligatoria, così come disciplinata dal comma 2 nr. 2 dell'articolo 240 c.p. e ciò per due sostanziali ordini di motivi : il primo relativo all'individuazione della legge applicabile al provvedimento di confisca, il secondo attinente all'individuazione dell'ambito di applicazione della confisca di cui al 3° comma dell'articolo 174 Dlgs nr 42/2004 ed ai suoi rapporti con la peculiare ipotesi di confisca obbligatoria di cui all'articolo 240 comma 2. nr. 2 c.p.
Con riferimento al primo profilo, si rileva che al momento dell'esportazione e dell'acquisto del bronzo da parte del The J. Paul Getty Trust era in vigore la nr.1089/1939, che prevedeva per i beni mobili di interesse storico ed archeologico, come si è già detto, un regime di inalienabilità relativa, proprio perché l'alienazione dei beni poteva essere consentita mediante autorizzazione amministrativa.
Si deve comunque ribadire, per le ragioni già esposte nel paragrafo precedente, che nei casi di alienazione del bene in violazione della normativa vincolistica del 1939, non poteva configurarsi né un acquisito del possesso, né tantomeno un acquisto della proprietà , nè si poteva sostenere che il bene " appartenesse" al terzo, anche se di buona fede.
Nel caso di specie tuttavia, ad avviso del giudicante, deve necessariamente applicarsi la disciplina prevista dal codice Urbani, attualmente in vigore, perchè trattandosi di confisca, non si può prescindere dalle disposizioni generali di cui all'articolo 200 c.p.
Se infatti, da un lato, la Suprema Corte ( cfr. Cass. pen., Sez. I, 30 novembre 1994, in Cass. Pen., 1996, 2548) ha statuito che "ai fini della applicazione della confisca il giudice deve tenere conto dei requisiti di illiceità posseduti dalle cose al momento in cui fu commesso il reato"; tuttavia, posto che la condotta di illecita esportazione costituiva reato sotto la vigenza della legge del 1939, così come a tenore del codice Urbani, deve necessariamente applicarsi la regola dettata dall'art. 200 c.p., secondo cui la legge regolatrice è quella del tempo in cui la misura di sicurezza deve essere applicata.
Tale conclusione trova conferma nell'orientamento giurisprudenziale dominante, secondo il quale le misure di sicurezza possono applicarsi anche se non previste dalla legge in vigore al momento della commissione del fatto o essere disciplinate diversamente quanto a tipo, qualità e durata (riguardando il principio di irretroattività della legge penale solo le norme incriminatici e non le misure di sicurezza).
Si può pertanto ritenere, sulla base del principio sancito all'art. 54, D.Lgs. n. 42/2004, che il bene in questione sia sottoposto ad un regime di inalienabilità assoluta (sino alla conclusione del procedimento di verifica ex art. 12).
Del resto, come già evidenziato, proprio il raffronto con il successivo art. 56 ("è altresì soggetta ad autorizzazione da parte del Ministero: a) l'alienazione dei beni culturali appartenenti allo Stato, alle Regioni ed agli altri enti pubblici territoriali, e diversi da quelli indicati negli articoli 54, commi 1 e 2, e 55, comma 1") che - per i beni dallo stesso elencati - pone un vincolo di inalienabilità relativa, a consentire di configurare in termini di assolutezza il divieto di cessione ex art. 54.
Non sembra neppure atteggiarsi quale elemento contrario insuperabile, la circostanza che la presunzione di interesse pubblico posta dall'art. 54, 2° comma, lett. a, venga meno nel caso di esito negativo del procedimento di cui all'art. 12.
In effetti, fino a quando non intervenga la "sdemanializzazione", le cose indicate dall'art. 54 dovranno essere sussunte nella categoria a cui si riferisce l'art. 240, 2° comma, n. 2, c.p. mentre quelle di cui all'art. 56 andranno ricomprese nella previsione dell'ultimo comma della norma di cui alla parte generale del codice penale.
Si deve considerare , inoltre, che l'art. 65 pone un divieto generale ed insuperabile all'uscita definitiva del reperto dal territorio dello Stato Italiano: l'alienazione (all'estero) non può mai essere consentita (neppure mediante autorizzazione amministrativa).
Pertanto, trattandosi di un bene di interesse storico ed archeologico appartenente allo Stato Italiano, la cui circolazione è vietata in modo assoluto, si verte in una ipotesi di confisca obbligatoria, ai sensi dell'articolo 240 comma 2. c.p.
Si potrebbe tuttavia obiettare a tale interpretazione, che quella prevista dal codice penale costituisce un'ipotesi generale di confisca, a cui si può ricorrere soltanto allorché non sia derogata da norme speciali. In tale ottica, l'articolo 174 Codice Urbani stabilendo al comma 3° che la confisca obbligatoria incondizionata prevista nei commi precedenti, non si applica se si tratta di cose appartenenti a terzi estranei al reato, si porrebbe come norma speciale successiva, che introduce una deroga ad una disposizione generale, in conformità all'indirizzo giurisprudenziale della Corte Costituzionale, con cui si tende a tutelare l'affidamento dei terzi incolpevoli ( cfr. in tal senso Cass. Pen. Sez. III 12 febbraio 2003 nr. 22038, in relazione alla previsione di cui all'articolo 127 ultimo comma D.Lgs nr 490/1999).
La validità di tale assunto può tuttavia essere posta in discussione, laddove si consideri l'ambito oggettivo della fattispecie di cui all'articolo 174 del Codice dei Beni Culturali.
Invero, la fattispecie in commento oltre a sanzionare la condotta commissiva di chi trasferisce all'estero un bene culturale senza attestato di libera circolazione o licenza di esportazione, punisce al secondo comma anche la condotta omissiva di chi non fa rientrare nel termine stabilito il bene, per il quale sia stata autorizzata l'uscita o l'esportazione temporanea. Tale seconda ipotesi criminosa, dunque, non si riferisce a beni la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato, visto che l'uscita o l'esportazione temporanea sono state preventivamente autorizzate. In altre parole, ci si trova in presenza di beni la cui confisca, in assenza della norma speciale, sarebbe prevista solo in caso di sentenza di condanna ed in via facoltativa dal 1 comma dell'articolo 240 c.p.
Si potrebbe quindi sostenere che la ratio della confisca prevista dal 3° comma dell'articolo 174 non sia quella di introdurre il principio della tutela del terzo in buona fede, bensì, quella di prevedere un'ipotesi di confisca obbligatoria, non prevista dall'articolo 240 comma 1 c.p.
In questo senso, l'articolo 174, in linea con una tendenza manifestata dal legislatore negli ultimi anni, amplierebbe la portata della confisca dell'articolo 240 c.p., con particolare riferimento all'ipotesi di cui al primo comma, disponendone l'applicabilità anche in assenza di sentenza di condanna e con l'unico limite soggettivo dell'appartenenza al terzo in buona fede.
Invero, non tutti i beni i beni culturali oggetto della condotta descritta all'articolo 174 risultano in quanto tali sussumibili nell'ipotesi del 2° comma nr 2 dell'articolo 240 c.p., rientrando invece in quella del primo comma di tale articolo, atteso che nella previsione della norma speciale sono compresi anche beni che non possiedono quelle caratteristiche intrinseche di criminosità o di inalienabilità assoluta indicate nel comma 2 nr. 2 dell'articolo 240 c.p.
Alla luce di tale esegesi, la deroga della legge speciale costituita dall'elemento ulteriore della obbligatorietà della confisca verrebbe in considerazione solo con riferimento al 1 comma dell'articolo 240 c.p., perdurando l'operatività della confisca di cui all'articolo 240 comma 2. nr. 2 c.p.p., quale ipotesi autonoma e specifica.
Si potrebbe poi porre un ulteriore ostacolo all'applicazione nella fattispecie in esame dell'articolo 174 D.lgs nr.42/2004, correlato all'ambito di operatività della misura ablativa prevista da tale disposizione. Si è infatti ritenuto in dottrina e giurisprudenza che trattasi di reato di pericolo, finalizzato ad impedire la perdita del bene tutelato, che si configura quando vengano fatti uscire dal territorio nazionale beni per i quali non sia stato ottenuto il prescritto titolo autorizzativo, a prescindere dal fatto che quest'ultimo potesse essere in concreto rilasciato.
Il reato si consuma al momento dell'uscita del bene dal territorio nazionale e, laddove il trasferimento all'estero non avvenga, appare configurabile l'ipotesi del tentativo, qualora ne ricorrano i presupposti.
Sulla base di tale struttura della norma, la dottrina ha ritenuto unanimemente ( non constano precedenti giurisprudenziali sul punto) che la confisca obbligatoria prevista al 3° comma possa essere disposta o quando il bene si trovi ancora nel territorio nazionale, non essendo ancora stata portata a termine l'esportazione illecita ( cosa che fa ritenere punibile, ex art. 56 anche il tentativo),ovvero, quando il bene vi sia rientrato. La confisca di cui all'articolo 174 non risulterebbe pertanto applicabile quando il bene si trova all'estero.
In ogni caso , qualora non appaiono condivisibili le considerazioni appena esposte e si ritenga, secondo l'orientamento dominante della dottrina e della giurisprudenza di legittimità, che la norma di cui all'articolo 174 D.Lgs si ponga in rapporto di specialità anche con il 2° comma nr.2 dell'articolo 240 c.p., in quanto presenta tutti gli elementi costitutivi delle norma generale, più un quid pluris costituito dal limite soggettivo della buona fede del terzo che, in deroga alla regola generale, viene previsto dall'articolo 174 anche quando si tratti di opere la cui uscita ed esportazione sia assolutamente vietata, si ritiene comunque applicabile in via alternativa al bronzo dell'Atleta Vittorioso, anche la confisca prevista dalla legge speciale, per le ragioni di seguito esposte.
6. La confisca prevista dall'articolo 174 D.Lgs nr. 42/2004 e la nozione di appartenenza a terzo estraneo al reato.
Passando ad esaminare le problematiche della confisca prevista dall'articolo 174 del Codice Urbani,va innanzitutto ricordato che si tratta di una disposizione che riproduce il contenuto del previgente articolo 66, legge nr. 1089/1939, così come modificato per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 14 gennaio 1987 nr. 4003, con la quale ne era stata dichiarata la incostituzionalità nella parte in cui prevedeva la confisca di opere tutelate ai sensi della legge nr. 1089/1939, oggetto di esportazione abusiva, anche quando fossero risultate di proprietà di un terzo, che non fosse autore del reato e non ne avesse tratto in alcun modo profitto.
Infatti sia la legge nr. 1089/1939 che quella precedente nr.364/1909 disponevano la confisca del bene culturale illecitamente esportato anche ed indipendentemente dalla sua appartenenza a terzo in buona fede. Il nuovo regime approntato con la legge nr.88/1988 ha modificato tale previsione recependo il dettato costituzionale a tutela dell'affidamento del terzo incolpevole, riprodotto poi nel testo dell'attuale articolo 174 D.Lgs. nr 42/2004.
Nel cercare di delineare il concetto di appartenenza a persona estranea al reato, occorre dunque partire da alcuni aspetti importanti indicati nella decisione di incostituzionalità.
Nella sentenza nr. 2 del 14 gennaio 1987, la Corte Costituzionale riprendendo le pronunce di incostituzionalità già emesse in precedenza in relazione ad analoghe tematiche, precisamente, la sentenza nr. 229 del 1974 e la sentenza nr. 259 del 1976, precisava che seppur le precedenti decisioni prendevano in esame specifici profili di illegittimità, riferiti all'articolo 66 L nr. 1089/1939, ma anche all'articolo 116 L. 1424 del 1940 ( ora art. 301, primo comma, D.P.R. nr 43/1973), tuttavia, avevano stabilito un principio di ordine generale, quello appunto, della tutela del terzo estraneo al reato : "Peraltro ha portata generale il rilievo contenuto in quelle pronunce, che il proprietario della cosa sottoposta a confisca obbligatoria estraneo al reato, finisce col subire, in base alla disposto dell'articolo 116 primo comma della legge nr.142 del 1940 (ora art. 301, primo comma, D.P.R. nr. 43/1973), le conseguenze patrimoniali di un illecito penale commesso da altri (sentenza nr. 229 del 1974) cosicché la normativa in questione, in palese contrasto con l'articolo 27 Cost. contiene al riguardo la previsione di una responsabilità oggettiva, prescindendo dalla valutazione dell'elemento psicologico nella condotta del soggetto, comminando la confisca senza tener conto della appartenenza della cosa ( sentenza nr. 259 del 1976). Traendo le necessarie conseguenze da tali considerazioni deve affermarsi in via generale che, se possono esservi cose il cui possesso può configurare un'illiceità obiettiva in senso assoluto, la quale prescinde dal rapporto col soggetto che ne dispone e legittimamente devono essere confiscate presso chiunque le detenga (art. 240 c.p.), in ogni altro caso l'art. 27 primo comma, Cost. non può consentire che si proceda a confisca di cose pertinenti al reato, ove chi ne sia proprietario nel momento in cui la confisca debba essere disposta non sia l'autore del reato o non ne abbia tratto in alcun modo profitto".
Sulla base dei principi affermati dalla Corte Costituzionale si possono trarre due significative conseguenze:
a) innanzitutto, nel dichiarare la parziale incostituzionalità dell'articolo 66, la Corte ha inteso riferirsi alla confisca delle sole cose pertinenti al reato. Si vuole in sostanza dire, che nell'adeguare la disciplina dell'ablazione delle opere d'arte oggetto di esportazione abusiva prevista dalla legge del 1939 alla disciplina dettata dall'articolo 240 3° comma c.p. che prevede appunto il limite dell'appartenenza del bene a terzo estraneo al reato, il Giudice delle leggi non ha voluto porre il limite della buona fede del terzo a cui appartenga il bene, nella ipotesi di confisca di cose assolutamente vietate.
b) Il secondo aspetto di rilievo è costituito dal richiamo al principio della personalità della responsabilità penale di cui all'articolo 27 della Costituzione.
In relazione a tale norma costituzionale, la dottrina e la giurisprudenza più recenti, nel delineare e chiarire il concetto di terzo estraneo al reato, hanno affermato che il principio sancito dall'articolo 27 Cost. si riferisce alla responsabilità penale e consiste nell'applicabilità della sanzione criminale tipica, la pena, alla persona che ha commesso il reato, stigmatizzandolo così rispetto ad ogni altro illecito.
Diversamente, la confisca "consegue ad un giudizio di pericolosità che afferisce alla cosa corpo del reato, più che alla persona del reo. E ciò spiega il motivo per cui può essere disposta in taluni casi in cui la pericolosità è massima ( art. 240 comma 2 ° nr. 2 c.p.) anche a danno della persona estranea al reato". Analogamente, anche la Cassazione, nel ritenere legittima la confisca di terreni oggetto del reato di lottizzazione abusiva ha affermato che " trattasi di principio che si riferisce alla responsabilità penale, mentre la confisca prevista dal citato D.P.R. ( 6 giugno 2001 nr. 380) prescinde da una sentenza di condanna ed ha natura amministrativa....." ( cfr. Cass. Pen. Sez. III 27 gennaio 2005 nr 10037).
Sempre con riferimento alla nozione di terzo in buona fede si è osservato in giurisprudenza che non può ritenersi tale, ovviamente, non solo il concorrente, quand'anche non sia intervenuto nel processo, ma anche chi vi abbia partecipato con attività altrimenti connessa, ancorché non punibile, o chi vi abbia avuto un qualsiasi collegamento, o ne abbia tratto illecito profitto.
Si può dunque affermare che dottrina e giurisprudenza sono pervenute ad una interpretazione restrittiva del concetto di estraneità al reato di cui al 3° comma dell'articolo 174, derivante dalla sua natura di norma speciale. In virtù della modifica introdotta dalla legge speciale appare infatti necessario garantire e bilanciare, da un lato, la necessaria tutela del terzo in buona fede, che non abbia alcun collegamento con il reato, neppure a causa di atti negligenti, dall'altro, l'esigenza di tutela del patrimonio culturale italiano ( art. 9 della Costituzione).
Estremamente significativa al riguardo appare la nota sentenza Pludwinski ( Cass. Pen. Sez III 12 febbraio 2003, nr. 22038) , nella quale il giudice di legittimità ha affrontato il problema dell'interpretazione della espressione " appartenente a terzo estraneo al reato", quale limite alla confisca prevista dall'articolo 127, D.Lgs nr.490/1999 ( ora articolo 178 Codice Urbani). In particolare la Corte ha affermato che " la norma contemplata dall'ultimo comma dell'art. 127..., proprio perché speciale deve essere oggetto di stretta interpretazione, sicchè la locuzione " cose appartenenti a persone estranee al reato" va intesa nel senso che il soggetto non abbia tratto in alcun modo profitto dal reato sia in via diretta sia indiretta e non abbia alcun collegamento in qualsiasi modo con la fattispecie illecita, giacchè il concetto di estraneità al reato non va inteso con riferimento al processo penale e neppure alla punibilità........
Al termine dell'iter argomentativo la Corte affermava : In conclusione...( la) disposizione si configura quale norma speciale rispetto a quella generale di cui all'articolo 240, secondo comma, nr 2, giacchè in conformità con un "trend" giurisprudenziale della Corte Costituzionale, prevede l'impossibilità di applicare la confisca, qualora la cosa appartenga a terzi estranei al reato, sicchè detta locuzione deve essere interpretata in senso restrittivo, includendo tra i soggetti collegati al reato quelli che in via indiretta o diretta abbiano tratto un qualche profitto dall'illecito penale senza necessità che sia stato instaurato nei loro confronti un procedimento penale, mentre l'appartenenza della cosa, che può riguardare non solo il diritto di proprietà, ma anche quelli di garanzia e di godimento, deve essere limitata con riferimento alla tutela dei principi di affidamento e della circolazione giuridica dei beni mobili e, quindi dell'acquirente in buona fede. Infine , le cose oggetto di confisca non possono essere ritenute appartenenti all'erede, in quanto sulle stesse non esiste un diritto "iure ereditario", non tanto perchè con la confisca è venuto meno il diritto del dante causa... ma perché nelle opera d'arte falsificate la frode è strutturata nell'opera, sicchè questa non è commerciabile e, quindi, non è mai entrata nell'asse ereditario"
Alla luce delle motivazioni illustrate dalla Corte di Cassazione si può quindi affermare che:
La previsione dell'articolo 127, ultimo comma, D.Lgs nr 490/199 ( ora art. 178 D.Lgs nr. 42 /2004 ) a cui può essere equiparata quella dell'articolo 174 Codice Urbani, stante l'identità della ratio delle due norme, costituisce norma speciale, che fa eccezione alla regola generale di cui all'articolo 240 comma 2 nr.2 c.p. e ne impedisce l'operatività.
Trattandosi di previsione eccezionale, il concetto di " terzi estranei al reato" deve essere interpretato in senso restrittivo e valorizzando non tanto il dato soggettivo della buona fede, quanto piuttosto quello dell'aver tratto o meno, in via diretta o mediata, un qualche profitto dall'illecito penale.
La buona fede rileva con riferimento al diverso concetto di appartenenza ( diritto di proprietà, diritti reali di godimento e di garanzia). In sostanza, per affermare l'appartenenza è necessario che l'acquisto si avvenuto in buona fede. Infatti, trattandosi di beni mobili, la buona fede è requisito necessario per il perfezionarsi dell'acquisto a non domino.
Pertanto, se si tratta di bene extra commercium detto acquisto, qualora sia avvenuto in violazione della specifica normativa di tutela, non potrà mai dirsi perfezionato, nonostante ed indipendentemente dalla buona fede del terzo. Si è già evidenziato infatti ( cfr. paragrafo 4 ) che la giurisprudenza di legittimità è sempre pervenuta al risultato di negare che il terzo, il quale in buona fede abbia acquistato beni culturali in violazione dei divieti posti dalla legge nr. 1089 del 1939, ne sia divenuto proprietario, non risultando applicabili in tale ipotesi né l'articolo 1153 c.c, né l'articolo 1161 c.c.
Ebbene, dalle considerazioni svolte, può trarsi la conclusione che i beni assolutamente non commerciabili non possono mai ritenersi appartenenti a terzo estraneo al reato e ciò, indipendentemente dalla buona fede del terzo, per carenza del requisito dell'appartenenza.
In ogni caso e volendo esaminare nel merito, sulla base degli elementi sottoposti alla valutazione di questo giudice, se il J.Paul Getty Museum possa considerarsi acquirente in buona fede ed, in quanto tale, estraneo al reato nel senso appena precisato, va subito evidenziato come, secondo l'opinione costante della giurisprudenza di legittimità, per l'accertamento del requisito dell'estraneità al reato, si verifichi una inversione dell'onere della prova rispetto a quanto avviene in ambito civile, laddove ai sensi articolo 1147 c.c., la buona fede si presume.
Ne deriva, che è il detentore del bene a dover dare la prova e del suo titolo e della sua condotta che deve essere immune da ogni negligenza, proprio perché la normativa violata è posta a tutela di un bene extra-commercium e costituzionalmente protetto.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha in particolare affermato" perché taluno possa qualificarsi persona estranea al reato .... ha l'onere di dimostrare di non aver mantenuto una condotta colposa, costituita dalla mancanza di diligenza nel controllo sull'operato del soggetto che ha materialmente e illecitamente compiuto il fatto costituente reato" ( cfr. Cass. Sez. I sent. nr.1927 del 9.12.2004)
Alla stregua dei principi affermati dal Giudice di legittimità, ritiene il giudicante che le allegazioni della difesa del J.P. Getty Museum non riescano a fornire detta prova.
In sintesi, a sostegno della buona fede del Museo e della legittimità del suo diritto di proprietà sul bene la difesa evidenziava i seguenti elementi:
1) I pareri legali degli Avvocati di H. ed A., che affermavano la sussistenza e la legittimità del diritto di proprietà dei venditori e l'assenza di qualsiasi rivendicazione da parte dello Stato italiano di proprietà del bene.
2) Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di Cassazione e dalla Corte di Appello di Roma, secondo la quali non era possibile stabilire la provenienza del bene dalle acque territoriali italiane.
3) Il provvedimento di dissequestro emesso nei confronti di H. dall'A.G. tedesca con esplicita licenza di disporre liberamente della cosa.
4) Lo stato di ignoranza all'epoca dell'acquisizione dell'oggetto da parte di tutti i membri del Board of Trustees del J. P. Getty Museum di azioni da parte delle Autorità italiane volte a recuperare l'oggetto.
5) La garanzia fornita da H. circa la veridicità dei documenti trasmessi al Museo e la legittimità della proprietà del bene in capo alla società alienante, indicata sub art. 7 dell'atto di vendita. Tale garanzia, a dire della difesa, rendeva superflua l'eventuale acquisizione-analisi del documento di acquisto originale della scultura da parte della Etablissment DC/ A. S.A, che non era in possesso del Museo, perché mai trasmesso da H./A..
6) Al momento dell'acquisto nessuno dei membri del Board of Trustees del J. P. Getty Museum nutriva dubbi di sorta sulla liceità dello stesso, anche in considerazione della circostanza che i venditori del bene, ovvero, le persone fisiche che gestivano la società Etablissment DC/ A. S.A, per cui H. agiva quale agente, erano persone di tutto riguardo e pienamente affidabili, cosa che avrebbe avuto un non marginale effetto circa la ritenuta superfluità di ulteriori accertamenti da parte del Museo.
Ad avviso del giudicante, le circostanze addotte dalla difesa non appaiono convincenti ed idonee a dimostrare la buona fede del Museo, nel senso sopra precisato, per la presenza di un dato oggettivo insuperabile: la mancanza del titolo originario di proprietà del bronzo da parte dei suoi dante causa, precisamente, la società Etablissment DC/A. S.A per conto della quale agiva H., che lo aveva acquistato dai venditori italiani.
Come si è già evidenziato nella ricostruzione in fatto, i legali di H. e del Consorzio A., gli Avvocati G. M. e V. G. dello studio G. inviavano all'Avvocato S. T. P. (legale del Getty Museum) un parere in data 4 ottobre 1972 " sulla questione del bronzo greco". (cfr. allegato 10 alle produzioni difensive del 21.12.2009). Affermavano i legali che la statua era stata acquistata da un loro cliente (Establissement pour la Diffusione et la Connaissence des Ouvres d'Art "D.C") in Brasile da un gruppo di venditori italiani, ai sensi di un contratto stipulato in data 9 giugno 1971. Tale circostanza confermava le dichiarazioni rese da D. C. che aveva riferito alla polizia inglese che il bronzo era stato acquistato da una succursale dell'A. la"Establissement D.C." con sede a Vaduz nel Leinchtenstein.
Tale contratto non è stato mai trasmesso, dai venditori H./A. al Getty Museum né risulta che i legali e comunque i consulenti del Trust abbiano mai compiuto alcun accertamento al riguardo. Non solo non esiste il contratto di acquisto del bene da parte dei venditori, ma non c'è nessun altro documento relativo alla transazione, che ne attesti la provenienza legittima dal Brasile, ammesso che l'acquisto dai venditori italiani si sia ivi sia perfezionato, (visto che le indagini compiute al riguardo dai Carabinieri hanno dato esito negativo) dall'Italia o da qualsiasi altro Stato.
Non si tratta , contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, di una circostanza di poco momento facilmente superabile attraverso la dichiarazioni di veridicità dei documenti trasmessi da parte di H. , nonché, dalla notorietà e presunta affidabilità delle persone fisiche che facevano parte della società venditrice, perchè è solo esaminando l'atto di acquisto dei suoi venditori e tutti i documenti inerenti la prima transazione, che il Museum avrebbe potuto accertare la regolarità della provenienza della statua.
Invece, il The J. Paul Getty Trust ha acquistato un'opera d'arte di inestimabile valore, senza compiere alcuna seria ed obiettiva verifica circa la legittimità e liceità della sua provenienza, accontentandosi semplicemente di alcuni pareri redatti non da un soggetto terzo, bensì, dagli stessi legali dei venditori, chiaramente portatori di un preciso interesse economico alla conclusione dell'affare, senza compiere a mezzo dei propri esperti alcuna indagine diretta ed ufficiale presso le Autorità italiane.
Trattasi di un comportamento viziato, quantomeno, da gravissima negligenza, atteso che i membri del Trust come, del resto, prima di loro, il signor J.P. G. Senior, erano perfettamente consapevoli, non solo, che il reperto era stato rinvenuto da pescatori italiani ed era stato introdotto nel territorio italiano, ma anche che i loro dante causa avevano acquistato il bene direttamente " dai venditori italiani imputati di ricettazione" come evidenziato dallo stesso Avv. G. nella lettera del 4.10.1972.
L'acquisizione delle sentenze di assoluzione dei B. e del N. non possono certo sostituire la mancanza del titolo di acquisto da parte di H./A. e non appaiono rilevanti per ritenere l'attuale detentore acquirente in buona fede, atteso che come si è già avuto occasione di precisare anche nell'ordinanza del 12.06.2009, tali decisioni riguardavano condotte illecite completamente diverse, in particolare, il reato di ricettazione, in relazione al furto di opere d'arte dello stato, ex art. 67 L. mr.1089/1939.
La pronuncia della Corte d'Appello di Roma in data 8.11.1970 era stata determinata dall'incertezza probatoria circa l'esistenza del reato presupposto, a sua volta derivante dal difetto di prova della provenienza della statua dal territorio nazionale, non essendo stato chiarito in quali acque la scultura era stata rinvenuta. La Cassazione , in sede di rinvio, aveva rilevato anche il difetto di prova circa la natura di bene di interesse storico ed archeologico dell'opera, che non era stata esaminata da alcuno, dato che all'epoca non era stata acquisita neppure una sua fotografia.
Le condotte di cui si discute oggi ai fini della confisca, muovono da presupposti di fatto e di diritto completamente diversi, in quanto riguardano le modalità di trasferimento del bene dall'Italia all'estero , la sua esportazione clandestina e gli effetti penali del reato di esportazione clandestina.
Tale diversità di reati e di presupposti era del resto ben nota ai legali di H./A. che, pur rassicurando i futuri acquirenti circa l'assenza di azioni e di qualsiasi interesse da parte dell'Autorità Italiana, si ponevano comunque il problema, di eventuali rivendicazioni da parte dello Stato Italiano, indipendentemente dalla sentenza di assoluzione, qualora fosse stata accertata l'identità tra il bronzo in questione e quello rinvenuto in Italia ( identità del tutto certa ed attualmente non contestata dal Museo), ma sostenevano che tale prova era pressochè impossibile e che di conseguenza il Getty Museum non aveva alcun motivo di preoccuparsi, perché la sentenza era passata in giudicato ed i loro clienti (H. e A.) avevano acquistato il bene in modo legittimo ed in buona fede dopo l'assoluzione dei venditori.
Non solo, lo stesso J. P. G. S. che era a conoscenza delle sentenze di assoluzione nei processi italiani a carico dei dante causa di H./ A., non le aveva ritenute sufficienti ai fini della prova della legalità dell'acquisto, tanto è vero, come già si evidenziato nella ricostruzione in fatto, ( cfr. par. 2) che nel corso delle trattative intercorse con H. per l'acquisto del bronzo insieme al Metropolitan Museum, aveva richiesto espressamente il titolo originario di proprietà di H., nonchè, di accertare l'esistenza di un diritto di proprietà dello Stato italiano sul bene, le modalità di uscita del bene dall'Italia e l'esistenza o meno della giurisdizione dello Stato Italiano.
Per lo svolgimento di tali accertamenti H. aveva incaricato l'Avv H. B. che doveva affrontare tali questioni non solo contattando i legali di H./A., ma rivolgendosi direttamente alle competenti Autorità Italiane.
Le dichiarazioni di H. al riguardo trovano obiettiva conferma nel documento relativo alla proposta di acquisto del 19.06.1973 a firma V. B., ( allegato al Dossier Lisippo) dal quale emergono il ruolo di intermediazione di E. B. che garantiva l'autenticità e l'identità della statua con quella da lui stesso vista a Gubbio e le perplessità circa eventuali diritti che lo Stato Italiano avrebbe potuto vantare sul bene . Estremamente significativa risulta anche la lettera inviata dallo stesso G. a H. il 31 agosto 1972 (allegato 7 produzione del 21.12.2009), in cui veniva richiesta all'antiquario tedesco copia degli atti del processo italiano e tutti i particolari della causa. Nella nota per l'archivio a firma N. B., Fiduciario e Tesoriere del Museum, (allegato 8 alla produzione del 21 dicembre) si legge : " Il sig. G. ha affermato che, subordinatamente all'ottenimento del titolo di proprietà incontestabile e supponendo di riuscire ad ottenerlo, di gradimento dell'Avv. S. P., (legale del Museum), raccomanderebbe ai fiduciari l'acquisto della statua".
Ebbene, nessuna delle ulteriori verifiche richieste dal J. P. G. Senior è stata effettuata dal Trust, che ha concluso l'acquisto con H. sulla base della stessa documentazione che era già stata ritenuta insufficiente dal fondatore del Museum, senza interpellare in alcun modo le autorità italiane e basandosi unicamente ancora una volta sulle rassicurazioni dell'Avv. G., che nella lettera datata 1.10.1973 faceva riferimento a "canali riservati" ed a rassicurazioni ottenute "tramite i buoni uffici di un comune amico" espressioni chiaramente riferite a contatti "informali" e tali da suscitare qualche perplessità sotto il profilo della trasparenza e correttezza.
Occorre inoltre evidenziare che se il processo per il reato di ricettazione a carico dei venditori italiani si era concluso con la loro assoluzione,tuttavia, all'epoca dell'acquisto era ancora pendente avanti al Pretore di Gubbio il processo per il reato di esportazione clandestina, circostanza anche questa ben conosciuta dal J.P.Getty Museum, come dimostra la corrispondenza intercorsa con i legali di H.. Come già si è detto, nell'ambito di tale procedimento il Pretore aveva inviato diverse richieste di assistenza alla Germania, alla Gran Bretagna ed anche agli Stati Uniti per chiarire le circostanze dell'uscita della statua dall'Italia ed acquisire la documentazione inerente il suo acquisto da parte del Museo. Le rogatorie inviate negli Stati Uniti ed a Monaco di Baviera, con la richiesta di specifici accertamenti circa la legalità della proprietà del bene da parte di H., non venivano evase, per mancanza dei requisiti di legge quella statunitense e perché il reato non prevedeva l'estradizione, la rogatoria tedesca. In questo contesto, il provvedimento di dissequestro e l'archiviazione del Procuratore distrettuale di Monaco di Baviera nel procedimento a carico di H. non possono assumere rilevanza per dimostrare la legittimità dell'acquisto del bene da parte del Museo, visto che l'A.G. tedesca non ha dato corso alle indagini richieste dal giudice di Gubbio, né risulta siano state fatte indagini specifiche sulla provenienza della statua e sulle modalità del suo acquisto da parte di H..
Anche le argomentazioni circa l'inerzia dello Stato Italiano non appaiono condivisibili. Si evidenzia infatti che la statua è rimasta in situazione di clandestinità per oltre sei anni e che l'interessamento e la richiesta di notizie da parte dell'autorità italiana dopo aver appreso dell'esistenza del bronzo e del suo acquisto da parte del G., risalgono al 19.12.1977 con la rogatoria internazionale richiesta dal Pretore di Gubbio, per poi proseguire con altre richieste di rogatoria da parte della stessa A.G., richieste di accertamenti e notizie da parte dei Carabinieri del T.P.C., fino alla prima richiesta formale di restituzione del bene a firma del Direttore Generale del Ministero beni Culturali in data 14.3.89 e le ulteriori trattative menzionate anche dall'Avv. Generale tra il Ministero dei beni Culturali e la Direzione del Getty Museum attestate dalla corrispondenza in atti.
La verità è che il Getty Museum avrebbe potuto ricevere informazioni certe circa il titolo di acquisto e la legalità dell'operazione, con due semplici richieste rivolte rispettivamente ai venditori H.- A.,con riferimento al titolo di acquisto ed alle Autorità italiane, per verificare l'esistenza di autorizzazioni per il trasferimento del bene all'estero e di eventuali diritti sull'opera da parte dello Stato.
Al contrario, il museo ha preferito seguire una strada sicuramente meno obiettiva ed affidabile, rivolgendosi soltanto ai legali dei propri venditori, portatori dello specifico interesse speculativo dei loro clienti, non curandosi peraltro neppure di rispettare le precise direttive dello stesso J.P. G. senior.
Trattasi di un comportamento che oltre a sollevare molte perplessità, induce a ritenere che tali richieste non siano mai state effettuate dal Museo proprio nella consapevolezza del loro esito negativo. Infatti non poteva esistere alcun titolo originario di acquisto e nessuna autorizzazione, perché l'opera era stata esportata clandestinamente dall'Italia e venduta illegalmente dai B. ad H./ A..
Del resto, è proprio la diversità del comportamento tenuto dal Getty Museum rispetto a quello di J.P. G. senior, che smentisce la buona fede del Trust. Infatti il The J. Paul Getty Trust superando con disinvoltura e superficialità le problematiche sulla provenienza legale del bene prospettate con correttezza e trasparenza dal fondatore del Museo ha acquistato il bronzo, nonostante la consapevolezza dei rischi derivanti da un acquisto illegale.
In ogni caso, anche a voler ammettere che il Consiglio dei Fiduciari del Getty Museum abbia fatto affidamento sulle asserzioni di legalità della transazione fatte da H. e dai suoi legali, è comunque ravvisabile nella condotta del Getty Museum una grave negligenza, avendo omesso di eseguire qualsiasi tipo di controllo circa l'esistenza e la legittimità del titolo di acquisto dei suoi dante causa, tanto più ove si consideri che il Museo è un soggetto particolarmente competente e qualificato, tenuto quindi ad assolvere un onere di diligenza più attento e rigoroso rispetto a quello che si potrebbe pretendere da un soggetto non qualificato.
Alla stregua delle considerazioni esposte, deve ritenersi accertata l'esistenza di un preciso collegamento tra il reato di esportazione clandestina e l'attuale detentore del bene oggetto del reato, di guisa che il The J. Paul Getty Trust non può considerarsi acquirente in buona fede e terzo estraneo ai sensi del 3° comma dell'articolo 174 del Codice Urbani.
La richiesta di confisca del bronzo avanzata dal P.M. deve pertanto essere accolta, attesa anche la sussistenza dei presupposti per la sua applicazione richiesti dalla legge speciale.
Il provvedimento ablativo appare infatti lo strumento di tutela necessario per consentire allo Stato Italiano di riacquistare la disponibilità del bene illecitamente sottratto al suo patrimonio indisponibile ed illegittimamente detenuto dal J.P. Getty Museum.
P.Q.M.
PQM
Visti gli articoli 240 c.p., 666, 667, 676 c.p.p., 174 D.Lgs nr. 42/2004;
Ordina la confisca della statua denominata " L'Atleta Vittorioso" attribuita allo scultore greco Lisippo attualmente detenuta dal J. PAUL GETTY MUSEUM ovunque essa si trovi.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di rito, per la comunicazione e notificazione del provvedimento a S. W. C. legale rappresentante del The J. Paul Getty Trust elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore di fiducia Avv. Prof. A. G., ai suoi difensori di fiducia Avv. Prof. A. G. del Foro di Roma e Avv. Prof. E. R. del Foro di Milano, all'Avv. M. F. per l'Avvocatura Generale dello Stato, all'Avv. T. T. del Foro di Pesaro ed al Prof. A. B. per l'Associazione Le Cento Città" elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv. T..
Dispone la comunicazione e la trasmissione di copia conforme del provvedimento al Pubblico Ministero in sede, per quanto di competenza.
Pesaro lì 10.02.2010
Il Giudice Dott.ssa Lorena Mussoni