Il procedimento di individuazione dei beni paesaggistici: il vincolo

di Francesco MAGNOSI

 

Sin dalla approvazione delle prime leggi che tendevano a proteggere il paesaggio, il provvedimento attraverso il quale si attuava la protezione veniva messo al centro di tutta l’azione rivolta alla sua tutela1, quale presupposto essenziale affinché potessero essere esercitate sul bene oggetto di considerazione paesaggistica le principali funzioni attribuite all’amministrazione. Tra l’altro, esse sono costituite dalla obbligatoria preventiva valutazione di ogni progetto di modifica dei beni vincolati, dalla facoltativa predisposizione, con riferimento alle vaste località sottoposte a protezione, di un piano territoriale paesistico «al fine di impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica», e dalla eventuale applicazione delle misure sanzionatorie in ipotesi di violazione della normativa di tutela2.

In assenza di un espresso provvedimento vincolativo potevano essere unicamente emanati atti di inibizione della prosecuzione dei lavori capaci di arrecare pregiudizio allo stato esteriore delle cose ed alle località meritevoli di tutela, ma non ancora sottoposte a vincolo. Questi rimedi, peraltro, apparivano privi della stabilità necessaria a raggiungere gli scopi prefissati, la cui efficacia era destinata a venire meno se entro tre mesi dall’emanazione del provvedimento di cautela la Commissione competente non avesse dichiarato l’interesse pubblico del bene oggetto di modifiche.

Nella legge 1497/1939, dunque, la previa emanazione di un provvedimento che dichiarasse il valore estetico del bene costituiva condicio sine qua non per l’esercizio di qualsiasi funzione pubblica di salvaguardia delle bellezze naturali3. Del resto, queste modalità di apposizione del vincolo non sono venute meno con le successive evoluzioni normative che hanno investito la materia, essendo esse state riprese tanto dal T.U. del 1999, quanto, seppure con degli aggiustamenti, dal Codice.

Il riconoscimento del valore paesaggistico di un determinato bene deve passare attraverso la dichiarazione che a quel bene, per le caratteristiche di cui è dotato, va conferito il «notevole interesse pubblico», poiché preesiste un interesse generale dei consociati affinché a quel bene venga riservata una disciplina particolare, dettata dall’ordinamento, in grado di assicurare al bene una tutela che può essere garantita solo con l’apposizione di uno speciale vincolo. Il vincolo si atteggia non solo come strumento di protezione del bene, ma costituisce anche il risultato delle operazioni rivolte alla valutazione ed alla individuazione delle caratteristiche di un bene preordinate al suo inserimento nel novero dei beni paesaggistici.

In sintesi, il vincolo è il dispositivo con cui si realizzano la tutela e la protezione del bene paesaggistico.

Naturalmente è la legge che definisce i criteri e le procedure attraverso cui deve avvenire l’individuazione dei beni paesaggistici.

L’articolo 1 della legge 1497/1939 individuava quattro tipologie di bellezze naturali da sottoporre a protezione, a mezzo di espresso provvedimento vincolativo, in ragione del loro notevole interesse pubblico. Le prime due hanno mantenuto la denominazione di bellezze individue mentre le ultime due erano definite bellezze d’insieme. Esse si distinguevano, oltre che per le loro caratteristiche intrinseche, anche per il procedimento di individuazione. Nell’esegesi proposta nel corso degli anni dalla giurisprudenza, è stato efficacemente affermato che «il vincolo di insieme non implica che ogni singolo elemento abbia i caratteri di bellezza naturale, dovendo una siffatta qualificazione discendere da caratteristiche di pregio intrinseche al bene stesso»4. E benvero, all’interno di una bellezza d’insieme possono insistere anche più bellezze individue, senonché, ai fini della loro elevazione a bellezza d’insieme deve emergere non tanto il loro pregio estetico particolare, quanto il fatto di contribuire a determinare l’aspetto esteriore dell’intero complesso.

Trattandosi di beni che possono essere sottoposti a tutela in modo del tutto indipendente, se ne è dedotta la conseguenza che «le due forme di tutela possono coincidere, nel senso che la tutela di un insieme non esclude la possibilità di imporre vincoli a singole cose, quali bellezze individue, con un regime più rigoroso in ordine alla loro modificabilità, dovendosene preservare il pregio intrinseco e non quello che nasce dalla loro reciproca relazione»5.

In ogni caso, con riguardo alle dette categorie di beni, la delimitazione dei confini della zona da sottoporre a vincolo paesaggistico costituisce tipica espressione di discrezionalità tecnica, non sindacabile in sede di giudizio di legittimità se non sotto il profilo dell’evidente arbitrarietà e illogicità della scelta operata6.

In base alla legge 1497/1939, le bellezze di insieme erano:

-le cose immobili aventi cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica; da questa definizione è stato coniato il concetto di «monumento naturale» che è stato poi trasposto nella normativa in materia di tutela della aree naturali protette;

-le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguano per la loro non comune bellezza. Il problema posto con riguardo al discrimine che andava tracciato rispetto alle ville, i parchi ed i giardini di interesse storico o artistico nominati dalla precedente legge 1089/1939 fu risolto attribuendo prevalenza ai valori della naturalità rispetto a quelli di rilievo storico o artistico che devono ricorrere ai fini dell’ascrizione del bene nella categoria in esame.

Fermo restando che deve comunque trattarsi di beni naturali caratterizzati dalla non comune bellezza. È evidente che la scelta rientra nell’ambito delle decisioni tecnico-discrezionali, che mal si prestano a scelte predeterminate;

-i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale. In questa categoria di beni si trova principalmente espressa la teoria che vede nelle bellezze naturali il frutto coordinato ed incessante dell’espressione spontanea della natura e dell’azione consapevole dell’uomo. Si noti che già emergeva come nell’analisi dei presupposti per l’assoggettamento di un complesso di beni a tutela entravano in gioco con funzione primaria, criteri ulteriori rispetto alla stima del mero valore estetico dei beni. In tale prospettiva si aprì alla tutela dei centri storici, o, in taluni altri casi di interi territori comunali, sotto lo specifico profilo del loro rilievo estetico-ambientale. Vero è, del resto, che anche in presenza di una seria compromissione della bellezza naturale ad opera di preesistenti opere, questo non deve impedire ed, anzi, maggiormente richiede che ulteriori realizzazioni non espongano ad ulteriore pregiudizio le aree protette7;

-le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze.

Questa ultima categoria di beni presa a suo tempo in considerazione dalla legge 1497/1939, e puntualmente riproposta dai compilatori del Codice, i quali hanno eliminato il solo riferimento ai «quadri naturali»8 ricomprendeva al suo interno due distinte ipotesi:

le bellezze panoramiche considerate come quadri naturali ed i punti di vista o di belvedere, che siano accessibili al pubblico, dai quali si possa godere lo spettacolo di quelle bellezze. È stato, peraltro, chiarito al riguardo9 che quando si individua un quadro naturale costituente bellezza panoramica, facendo riferimento a ben individuati aspetti morfologici, monumentali e culturali di un determinato contesto territoriale, tra loro armonicamente integrati, l’estensione del vincolo gravante su tale territorio non può essere giustificata in relazione ad aree che non presentino traccia dei caratteri indicati, dei quali l’amministrazione assume la tutela, e che già denotano una natura articolata e complessa, anche quanto ad estensione, dell’ambito sottoposto a vincolo, salvo il fatto, che trattandosi di una bellezza panoramica, l’area estranea alle caratteristiche di bellezza specificate, si ponga in un rapporto con queste ultime riconducibile alla visibilità, cioè alla percezione dell’insieme connessa ai punti di vista e al belvedere, ai quali, per completezza logica, fa riferimento la norma di cui all’articolo 1, n. 4 della legge 1497/1939.

Del resto, come ha rilevato la giurisprudenza amministrativa, l’imposizione del vincolo non è subordinata all’esistenza di punti di vista dei quali si possa godere la bellezza panoramica perché la legge tutela anche le cose che costituiscono in sé bellezza panoramica e il godimento estetico può ricavarsi anche stando all’interno del quadro naturale10.

È interessante notare che le previgenti norme in tema di vincolo prendevano sì in considerazione il loro pregio estetico, ma non mancavano di valutare anche altri elementi ai fini della loro tutela. Va posto in evidenza il criterio «scientifico», in riferimento alle singolarità geologiche; il criterio «storico-sociale», il quale interviene nella qualificazione dei complessi aventi valore estetico e tradizionale; il criterio della fruibilità pubblica, il quale agisce in rapporto alle bellezze panoramiche, da proteggere in quanto si possono godere da punti di vista o di belvedere accessibili al pubblico. Infine, oggetto di vincolo possono diventare anche tutti quei beni che hanno acquisito nel corso del tempo un particolare pregio grazie all’intervento dell’azione dell’uomo.

Per la sottoposizione a tutela delle “bellezze naturali” il Codice prevede una articolata procedura, radicalmente innovata rispetto a quella del regime previgente. La principale innovazione è consistita nell’abbandono del sistema dei due distinti elenchi, uno per le bellezze individue, l’altro per le bellezze d’insieme. Il T.U. del 1999, attesa la sua natura prettamente compilativa e pedissequa, propria dei testi unici, aveva recepito integralmente le statuizioni della legge 1497/1939. Tuttavia il sistema aveva prestato il fianco a notevoli problemi, soprattutto con riferimento alle modalità di composizione e convocazione delle commissioni provinciali che ciascuna Regione aveva l’obbligo di istituire. Spesso erano mancate poi le norme regionali che, ad integrazione delle corrispondenti disposizioni dettate a livello statale, dovevano precisare chi fossero i componenti della commissione di nomina regionale, quali fossero le modalità di funzionamento delle stesse ed in che modo e con quali limiti potessero e dovessero partecipare alle riunioni della commissione i rappresentanti degli enti locali.

Con il Codice e le sue successive integrazioni e modifiche si è tentato di superare questa apparente farraginosità delle procedure, nella direzione di una progressiva riaffermazione delle attribuzioni statali, attraverso il Ministero competente. Questo obiettivo si evince dalla relazione illustrativa al d. lgs. 63/2008, in cui le modifiche introdotte si rivolgono nella direzione di «riconoscere espressamente e disciplinare il potere dello Stato di proporre vincoli paesaggistici, indipendentemente dal concomitante esercizio della medesima attività da parte delle Regioni».

 

1 La prevalente giurisprudenza amministrativa ha accolto questa impostazione. In Cons. Stato, Sez. II, 20 maggio 1998, n. 549, si è testualmente affermato che «il piano paesistico è, rispetto al vincolo, in posizione di sottordinazione e, rispetto all’autorizzazione paesaggistica, in posizione di sopraordinazione».

2 Già l’articolo 16 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 utilizzava espressamente il termine «vincoli» per indicare il contenuto del provvedimento di sottoposizione a tutela delle «bellezze naturali». In questo contesto, il vincolo viene inteso nell’accezione di «limite al potere di destinazione del bene» da Alpa G., Proprietà (potere di destinazione e vincoli), in Compendio del nuovo diritto privato, Utet, Torino, 1985. In precedenza Sandulli A. M., in Natura giuridica ed effetti della imposizione dei vincoli paesistici, in Riv. trim. dir. pubb., 1961, aveva definito detti vincoli come «sistema ordinato di restrizioni di carattere impeditivo, in funzione conservativa di fatto o di diritto, imposto autoritativamente alla sfera di godimento e di disposizione di un bene».

3 Cfr. Immordino M., Tutela del paesaggio, in Digesto delle discipline pubblicistiche, X, Torino, 1995, la quale ha osservato che, con riferimento all’attività di pianificazione, univoca giurisprudenza riteneva che «i piani territoriali paesistici presuppongono l’esistenza del vincolo paesaggistico di cui alla legge 29 giugno 1939, n. 1497 sia che lo stesso sia stato imposto dalla Regione nell’esercizio delle funzioni delegate con l’articolo 82, comma 2, lett. a) del d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, sia che esso sia stato imposto dall’amministrazione statale nell’esercizio del potere di cui all’articolo 82, comma 5, del d.p.r. indicato nel testo introdotto dell’articolo 1 del d.l. 27 giugno 1985, n. 312; pertanto, «l’adozione del piano territoriale paesistico non comporta alcuna deroga all’obbligatorietà dei vincoli precedentemente imposti». Così, Cons. Stato, sez. VI, 30 marzo 1994, n. 450.

4 Così in TAR Liguria, sez. I, 17 novembre 2006.

5 Cfr. Palma G., I beni, Jovene, Napoli, 1971.

6 Ossia, secondo diffusa definizione, quella discrezionalità che non è puro arbitrio, ma l’applicazione di criteri di tecnica amministrativa, suggeriti dalla norma in base alle esigenze della P.A. In particolare, si è notato un atteggiamento rinunciatario da parte del giudice amministrativo quando si è trattato di pronunciarsi sulla legittimità di atti amministrativi considerati espressione di discrezionalità tecnica. Sul punto si veda Travi A., Sindacato debole e giudice deferente: una giustizia amministrativa?, in Giorn. dir. amm., n. 3/2006.

7 Cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 19 ottobre 2006, n. 10623.

8 Con l’eliminazione del riferimento ai quadri naturali operato con l’articolo 2, comma 1, lettera f) del d. lgs. 63/2008, il legislatore ha voluto elidere dall’ambito oggettivo di applicazione della norma il limite concernente la visione statica estetico-panoramica del bene, confermando altresì il definitivo sganciamento della odierna nozione giuridica di paesaggio dalla antica visione che faceva coincidere il paesaggio con le sole bellezze naturali, ed affermando che l’oggetto della tutela del paesaggio non è il concetto astratto di bellezza naturali, ma l’insieme delle cose, beni materiali, o le loro composizioni che presentano “valore paesaggistico”.

9 Cfr. Ciaglia G., La nuova disciplina del paesaggio. Tutela e valorizzazione dei beni paesaggistici dopo il d. lgs. 63/2008, in Giornale di diritto amministrativo, diretto da Sabino Cassese, n. 19/2009, cit.

10 Cfr. Cons. Stato 10 dicembre 2003, n. 8145, in cui si è affermato che «poiché la legge intende tutelare anche il godimento estetico del visitatore che si trova all’interno del quadro naturale, l’imposizione di vincolo di bellezza panoramica non è subordinato all’esistenza di punti di vista dai quali si possa godere il bene».