Corte Costituzionale sent. 66 del 23 marzo 2012
Oggetto: Paesaggio - Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Veneto - Deroga al regime della autorizzazione paesaggistica - Zone territoriali omogenee escluse dalla tutela paesaggistica ex lege - Previsione che siano escluse anche quelle aree che alla data del 6 settembre 1985, risultino comprese in zone urbanizzate con le caratteristiche insediative e funzionali delle zone A e B, previa verifica della corrispondenza ai parametri quantitativi di cui all'art. 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, ovvero, alla medesima data, le aree a destinazione pubblica, quali strade, piazze ed aree a verde, purché incluse nel territorio urbanizzato individuato ai sensi dell'art. 142, comma 2, del codice dell'ambiente - Lamentata introduzione di ulteriori deroghe ai vincoli paesaggistici ex lege, in contrasto con il regime vincolistico del codice dell'ambiente.
Dispositivo: illegittimità costituzionale
SENTENZA N. 66 ANNO 2012 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge della Regione Veneto 26 maggio 2011, n. 10 (Modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio” in materia di paesaggio), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 20 luglio 2011, depositato in cancelleria il 20 luglio 2011, ed iscritto al n. 72 del registro ricorsi 2011. Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2012 il Giudice relatore Paolo Grossi; uditi l’avvocato dello Stato Angelo Venturini per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Bruno Barel e Luigi Manzi per la Regione Veneto. Ritenuto in fatto 1.— Con atto depositato il 20 luglio 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha proposto ricorso in via principale per la declaratoria di illegittimità costituzionale – in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione – dell’articolo 12 della legge della Regione Veneto 26 maggio 2011, n. 10, recante «Modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio” in materia di paesaggio», nella parte in cui aggiunge l’art. 45-decies alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio). Il ricorrente sottolinea come, nella giurisprudenza di questa Corte, le nozioni di tutela dell’ambiente e di tutela del paesaggio hanno finito per subire una sostanziale assimilazione semantica, che avrebbe dato vita ad una sorta di «osmosi giuridica». La “materia” della tutela dell’“ambiente/paesaggio” investirebbe, così, beni di carattere primario, la cui cura sarebbe affidata in via esclusiva alla potestà legislativa dello Stato, senza che questa possa essere scalfita dal legislatore regionale nell’esercizio di proprie competenze in materie quali il governo del territorio. Detta disciplina risulterebbe prevista, anzitutto, nel decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), del quale vengono rammentate le principali disposizioni in tema di beni paesaggistici. In questo contesto si collocherebbe la norma oggetto di impugnativa, la quale – nell’introdurre, come descritto, l’art. 45-decies nella legge regionale n. 11 del 2004 – prevede, in sintesi, che nei Comuni della Regione Veneto che, alla data del 6 settembre 1985, risultano dotati di strumenti urbanistici generali contenenti denominazioni di zone territoriali omogenee non coincidenti con quelle indicate nel decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), sono assimilate alle aree escluse dalla tutela ai sensi dell’art. 142, comma 2, del codice dei beni culturali quelle aree che, alla data suddetta, presentano determinate caratteristiche. Più in particolare, il punto di frizione tra le normative viene individuato nel fatto che, mentre la lettera a) del comma 2 dell’art. 142 del codice dei beni culturali escluderebbe, con eccezione «di stretta interpretazione», dal regime dei vincoli, di cui al comma 1, quelle aree «delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B», la disposizione regionale impugnata escluderebbe, invece, (al comma 1, lettera a), previa verifica, anche quelle aree «comprese in zone urbanizzate con le caratteristiche insediative e funzionali delle zone A e B». Altrettanto sarebbe a dirsi anche della ipotesi di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 della disposizione censurata, che, con riferimento alle «aree a destinazione pubblica, quali strade, piazze ed aree a verde», introdurrebbe ipotesi derogatorie non contemplate dall’art. 142 del codice dei beni culturali, solo tralaticiamente richiamato. Ne deriverebbe, secondo il ricorrente, il contrasto dell’intero art. 12 denunciato – ivi compresi i commi 2 e 3, per intima connessione con le precedenti norme – con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., perché invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela ambientale e del paesaggio, come puntualizzato dalla giurisprudenza costituzionale evocata. La norma impugnata consentirebbe, infatti, che, «in aree sottoposte a tutela paesaggistica, siano indiscriminatamente realizzati o mantenuti interventi che prescindono dalla necessaria autorizzazione paesistica ex art. 142 del codice dei beni culturali, in tal modo incidendo su materia riservata alla competenza esclusiva statale ex art. 117 secondo comma lettera s)». Introducendo, in particolare, una deroga alla normativa statale, la disposizione censurata consentirebbe «una urbanizzazione non consona alla disciplina statale paesaggistica»: nel permettere, infatti, «la costruzione o il mantenimento di opere nelle aree interessate», non si osserverebbe la disciplina statale che richiede «in via obbligatoria, sussistendo il vincolo paesaggistico, la necessaria autorizzazione da rilasciarsi entro i limiti prefissati dal legislatore nazionale». Autorizzazione che – conclude il ricorrente – costituisce momento indefettibile per la effettiva tutela delle aree sottoposte a vincolo, con la conseguenza che «non può competere alla Regione adottare norme che, in buona sostanza, eliminando il vincolo paesaggistico, vanifichino lo strumento autorizzatorio e consentano una urbanizzazione in violazione degli uniformi standards di protezione validi su tutto il territorio nazionale». 2.— Costituendosi in giudizio, la Regione Veneto ha concluso per una declaratoria di infondatezza della questione sollevata. Dopo aver sottolineato come la legislazione regionale sia stata sempre attenta a tutelare i valori dell’ambiente e del paesaggio, nello spirito delineato dall’art. 9 Cost., la Regione ha osservato come la legge regionale n. 10 del 2011 sia stata emanata proprio per dare attuazione all’art. 117, terzo comma, Cost. ed al codice dei beni culturali e del paesaggio; in tale cornice dovrebbe, dunque, essere interpretata la disposizione oggetto di censura. La normativa statale avrebbe esteso, fin dal decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, il controllo dello Stato sui beni paesaggistici procedendo alla individuazione di quelli rientranti nelle categorie generali meritevoli di tutela; al tempo stesso, avrebbe escluso determinate aree, da sottrarre a quelle categorie astratte, secondo una linea chiara nei suoi intendimenti: «generalizzare la tutela a tutte le aree non ancora urbanizzate aventi le particolari localizzazioni indicate». Non vi sarebbe dunque – come lamentato dal Governo – una regola generale alla quale si giustappone una eccezione di stretta interpretazione, ma soltanto una regola generale che «individua il proprio oggetto in parte con una definizione in positivo (localizzazione delle aree), in parte con una definizione in negativo (purché non ancora urbanizzate)». Per identificare le aree già urbanizzate, la normativa statale distinguerebbe a seconda che il Comune disponga o meno di uno strumento urbanistico: ove ne fosse privo, si farebbe «riferimento alla nozione di centro abitato perimetrato, che sostanzialmente circoscrive il tessuto edilizio esistente e continuo»; ove, invece, ne fosse dotato, si escluderebbero dal vincolo le zone A e B (rispettivamente corrispondenti, secondo la disciplina dettata dal ricordato decreto ministeriale n. 1444 del 1968, al “centro storico” ed al “tessuto edilizio consolidato”). Nella Regione Veneto, peraltro, nel 1985 molti Comuni dotati di PRG non identificavano centri storici e tessuto edilizio consolidato come zone formalmente denominate “A” e “B”, ma attraverso locuzioni variegate. A differenza di quanto accaduto in passato (quando nessuno aveva espresso dubbi sulla identificazione delle aree soggette a vincolo paesaggistico), solo di recente organi statali avrebbero espresso l’orientamento secondo cui si potrebbe tenere conto delle indicazioni dei PRG solo se questi, alla data di riferimento (1985), abbiano utilizzato formalmente l’espressione “zona A” o “zona B”: in mancanza di tale indicazione, anche le aree urbanizzate del centro e della città consolidata dovrebbero ritenersi assoggettate a vincolo paesaggistico generalizzato. Cosicché, «paradossalmente, se il Comune fosse stato privo di PRG, l’intero centro abitato sarebbe stato escluso dal vincolo; col PRG, tutto il centro abitato sarebbe soggetto a vincolo, nel caso di omesso uso della terminologia formale “zona A” e “zona B”». Ne deriverebbe un’«estensione amplissima del territorio vincolato, fino a comprendere qualunque tipo di intervento edilizio anche minore su edifici del tessuto urbano consolidato» e, «dal punto di vista del cittadino», un «trattamento diseguale di situazioni uguali (zone urbanizzate oggettivamente omogenee, non sottoposte a vincolo solo se descritte nel PRG con le parole “zona A” e “zona B”) e [un] trattamento uguale di situazioni diseguali (vincolo imposto sia su aree libere che su aree urbanizzate ed edificate totalmente solo perché non etichettate dai PRG come zona “A” o “B”)». In presenza, dunque, di «una situazione lesiva dell’affidamento riposto dai cittadini su un assetto normativo consolidatosi per 25 anni», la Regione avrebbe introdotto la previsione censurata, che si limiterebbe a istituire un procedimento attraverso il quale verificare se le zone non formalmente denominate, nei PRG in essere nel 1985, come “zona A” e “zona B” «soddisfacessero comunque tutti i criteri indicati dal d.m. n. 1444 del 1968 come atti a caratterizzare le zone classificabili come A e B»: la disposizione avrebbe, dunque, «natura ricognitiva e tecnica», destinata soltanto «a supplire alla omessa indicazione delle lettere A e B da parte dei pianificatori del tempo» o a «colmare un gap meramente terminologico». L’assimilazione verrebbe «estesa alle aree pubbliche che costituiscono parte integrante delle zone meritevoli di essere anche formalmente definite A e B», giacché «se il vincolo paesaggistico generalizzato non ha ragion d’essere sulla città consolidata», «non l’ha neppure sulle strade e piazze e parcheggi che si trovano entro le ridette zone a formarne parte integrante e inscindibile», a prescindere dal simbolo letterale con cui tali zone sono state indicate nei PRG. 3.— In prossimità dell’udienza, il ricorrente ha depositato una memoria con la quale, nell’insistere nella propria richiesta, ha contrastato l’argomento secondo cui, con la disposizione impugnata, «la Regione si sarebbe limitata ad una interpretazione sostanziale e non formale dell’art. 142 del Codice dei beni culturali»: una «interpretazione autentica» di quest’ultima disposizione dovrebbe, infatti, essere «rimessa allo Stato», risultando eccedente «una norma regionale che interpreta una norma statale individuandone l’ambito di applicazione sulla base di un’auto-affermata ipotesi ermeneutica». D’altra parte, la prevista «equiparazione tra aree omogenee» — con «ulteriore indebita estensione del giudizio di equiparazione anche agli spazi pubblici ricompresi» nel territorio urbanizzato, e «ciò malgrado le aree siano state denominate correttamente con riferimento al d.m. 2 aprile 1968 (aree F)» – escluderebbe «radicalmente a livello amministrativo la partecipazione delle amministrazioni statali competenti in materia», «relegando la tutela statale ad una tutela meramente giudiziaria» e mirando «sostanzialmente a restringere l’ambito applicativo delle misure di tutela introdotte dalla legge “Galasso”». Considerato in diritto 1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto ricorso in via principale, con il quale ha chiesto dichiararsi, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge della Regione Veneto 26 maggio 2011, n. 10 (Modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio” in materia di paesaggio), nella parte in cui aggiunge l’art. 45-decies alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio). Osserva, al riguardo, il ricorrente che la norma oggetto di impugnativa, in violazione del parametro costituzionale che assegna alla legislazione esclusiva dello Stato la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, introduce deroghe al regime vincolistico previsto dalla legislazione dello Stato in materia di aree qualificate di interesse paesaggistico. In particolare, la disposizione censurata prevede che nei Comuni della Regione Veneto che, alla data del 6 settembre 1985, risultassero dotati di strumenti urbanistici generali contenenti denominazioni di zone territoriali omogenee non coincidenti con quelle indicate nel decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), sono assimilate alle aree escluse dalla tutela, ai sensi dell’art. 142, comma 2, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), quelle aree che, alla data suddetta del 6 settembre 1985, sono «a) comprese in zone urbanizzate con le caratteristiche insediative e funzionali delle zone A e B, previa verifica della loro corrispondenza ai parametri quantitativi di cui all’art. 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444; b) a destinazione pubblica, quali strade, piazze, ed aree a verde, purché incluse nel territorio urbanizzato individuato ai sensi dell’art. 142, comma 2, del Codice [dei beni culturali e del paesaggio] e ai sensi della lettera a)». La disciplina statale, dettata dall’art. 142, comma 2, del citato d.lgs. n. 42 del 2004, stabilisce, invece – per quanto qui rileva –, che i vincoli di cui al comma 1 dello stesso articolo non si applicano alle aree che, alla data del 6 settembre 1985, «erano delimitate negli strumenti urbanistici, ai sensi del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, come zone territoriali omogenee A e B». Da ciò deriverebbe, secondo il ricorrente, un illegittimo ampliamento dell’ambito di applicazione della deroga al regime vincolistico, risultando escluse dal vincolo paesaggistico ex lege anche aree identificabili con «denominazioni di zone territoriali omogenee non coincidenti con quelle indicate nel decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444», purché comprese, come già precisato, in zone urbanizzate con le caratteristiche insediative e funzionali delle zone A e B. 2.— La questione è fondata. 3.— Questa Corte ha avuto modo di affermare come la stessa qualificazione di «norma di grande riforma economico-sociale» – che già designava il sistema vincolistico in materia di paesaggio introdotto dalla cosiddetta “legge Galasso” – dovesse essere mantenuta in riferimento, proprio, all’art. 142 del d.lgs. n. 42 del 2004, la cui elencazione delle aree vincolate per legge rappresentava nella sostanza un continuum rispetto alla precedente disciplina (sentenza n. 164 del 2009). Per altro verso, a sottolineare l’assoluta centralità di tale disciplina – ed il risalto che, sul piano costituzionale, ad essa deve essere effettivamente riconosciuto –, sta anche l’osservazione per la quale, attraverso le disposizioni dettate dal codice dei beni culturali e del paesaggio, proprio laddove hanno reintrodotto la tipologia dei beni paesaggistici e ne hanno operato la relativa ricognizione, si è inteso dare «attuazione al disposto del (citato) articolo 9 della Costituzione, poiché la prima disciplina che esige il principio fondamentale della tutela del paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali» (sentenza n. 367 del 2007). Ci si muove, dunque, nell’ambito di una rigorosa tipizzazione di tassative ipotesi vincolistiche, alla quale corrisponde una altrettanto dettagliata previsione di casi, ugualmente nominati e tassativi, di deroga. Ebbene, nel caso di specie, la normativa regionale impugnata opera una modifica sostanziale del regime delle esclusioni dalla tutela prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio, attraverso una “assimilazione” fra aree individuate dalla legislazione statale come sottratte al regime vincolistico e aree che, pur con denominazioni diverse rispetto a quelle indicate nel decreto ministeriale n. 1444 del 1968, presenterebbero, rispetto alle prime, caratteristiche similari, sia pure per relationem. Si tratta, dunque, di una operazione normativa da ritenersi in sé non consentita, in quanto direttamente incidente su materia riservata alla legislazione statale, rispetto alla quale la legislazione regionale può solo fungere da strumento di ampliamento del livello della tutela del bene protetto e non – all’inverso, come nel caso qui in esame – quale espediente dichiaratamente volto ad introdurre una restrizione dell’ambito della tutela, attraverso l’incremento della tipologia delle aree cui il regime vincolistico non si applica. Non è, infatti, senza significato rammentare, sul punto, come questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale proprio dell’art. 40 della legge urbanistica della Regione Veneto (legge n. 11 del 2004) – ora, tra l’altro, modificato dalla disposizione oggetto di impugnativa – ne abbia escluso il contrasto con la normativa statale in tema di tutela dei beni culturali in quanto, appunto, funzionale alla tutela non già sostitutiva di quella statale, bensì aggiuntiva, nella disciplina del governo del territorio (sentenza n. 232 del 2005). D’altra parte, anche ove si ritenesse di annettere, come la difesa della Regione sembra prospettare, una portata restrittiva al concetto di “assimilazione” utilizzato dalla disposizione denunciata, resterebbe il fatto che un simile procedimento, ancorché apparentemente ricognitivo, e tuttavia ampliativo, della deroga (trattandosi di identificare “ora per allora” le caratteristiche di omogeneità fra le aree), potrebbe essere previsto e disciplinato soltanto da una legge statale, avuto riguardo, fra l’altro, alla esigenza di attribuire ad una siffatta previsione una portata generale e uniforme, valida, cioè, per tutto il territorio nazionale. Né può tacersi come, attraverso la previsione normativa oggetto di censura, la Regione Veneto sia giunta a prevedere una sostanziale “delegificazione” della materia, risultando in concreto demandata all’autorità amministrativa l’individuazione dei territori che presentavano, alla data del 6 settembre 1985, caratteristiche analoghe a quelle inserite nelle zone “A” e “B” degli strumenti urbanistici generali. Sicché, mentre in riferimento ad alcune aree la deroga al vincolo risulta “cristallizzata” dalla legislazione statale, con efficacia erga omnes e con un vincolo di intangibilità che scaturisce dalla legge, in riferimento ad altre aree, secondo la norma censurata, la deroga finirebbe per essere direttamente determinata dall’amministrazione locale, senza che – per di più – lo Stato risulti in alcun modo chiamato a partecipare al relativo procedimento. La disposizione impugnata deve pertanto essere dichiarata costituzionalmente illegittima, in quanto contrastante con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge della Regione Veneto 26 maggio 2011, n. 10 (Modifiche alla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio” in materia di paesaggio). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 marzo 2012. F.to: Alfonso QUARANTA, Presidente Paolo GROSSI, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2012. Il Direttore della Cancelleria F.to: MELATTI