Cass. Sez. III n. 370 del 9 gennaio 2020 (Ud 1 ott 2019)
Pres. Di Nicola Est. Ramacci Ric. Mazza
Beni Ambientali.Opere interrate
In tema di tutela delle aree sottoposte a vincolo, ai fini della configurabilità del reato paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra elementi ambientali ed antropici che caratterizza il paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla disciplina di settore, con la conseguenza che anche interventi non esternamente visibili, quali quelli interrati, possono determinare una alterazione dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di valutazione in sede penale.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 6 marzo 2019 ha confermato la decisione con la quale, in data 12 aprile 2018, il Tribunale di Marsala aveva affermato la responsabilità penale di Umberto Giuseppe Achille MAZZA e Paola GIULOTTO per i reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 44 lett. c), 95 d.P.R. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004, per la realizzazione, in area sottoposta a vincolo paesaggistico ed alla disciplina per le costruzioni in zone sismiche, in assenza di permesso di costruire e di autorizzazione paesaggistica, nonché senza preventivo avviso scritto al competente ufficio tecnico regionale, un intervento edilizio consistente nell'esecuzione di opere così descritte nel capo di imputazione:
- un vano con all'interno un piano cottura, lavello, forno e barbecue, posto alle spalle del vano soggiorno-pranzo autorizzato, costituito da copertura in tavelle, fissi e travi di legno, occupante una superficie di mq 35 circa, avente altezza di m. 2,50 circa, porte aventi telaio in ferro e pannelli in vetro;
- un vano riposto interrato, completo e intonacato, accessibile dal vano sopra descritto, occupante una superficie di mq 10 circa, con copertura piana avente altezza di m. 2,20 circa;
- vano lavanderia, sempre interrato, completo e intonacato al civile, accessibile dal vano di cui al punto precedente, occupante una superficie di mq 11,2 con copertura piana avente altezza di m. 2,20 circa;
- altro manufatto interrato posto nella particella n. 852 del foglio di mappa 66, completo e intonacato al civile, destinato a magazzino, occupante una superficie mq 23,4 circa con copertura avente altezza di m. 2,40 circa.
I fatti sono stati accertati in Pantelleria il 29/4/2014
2. Il Tribunale assolveva inoltre gli imputati dal delitto di cui agli artt. 110, 633 cod. pen. perché il fatto non costituisce reato, dai reati di cui agli artt. 44, lett. c), 95 d.P.R. 380/2001 e 181 d.lgs. 42/2004, limitatamente alla realizzazione di ampi spazi pavimentati in pietra lavica e dal reato di cui all'art. 734 cod. pen. perché il fatto non sussiste, dichiarando altresì non doversi procedere in ordine al reato di cui all'art. 44, lett. c) d.P.R. 380/2001 con riferimento ad opere di demolizione di muri, asportazione di terreno vegetale e chiusura al transito di un viottolo pubblico mediante la realizzazione di un muro, per intervenuta prescrizione.
3. Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
4. Con un primo motivo di ricorso deducono la violazione di legge con riferimento alla infrazione delle norme paesaggistiche, osservando che l’oggetto giuridico da queste tutelato è l’incidenza sul paesaggio delle opere realizzate, la quale, se non sussistente come nel caso di specie, si traduce in una mera violazione formale del tutto irrilevante.
Osservano, a tale proposito, che per quanto riguarda la chiusura del piano cottura, tale opera sarebbe stata regolarmente autorizzata, mentre i successivi interventi non sarebbero stati soggetti ad autorizzazione, in quanto la chiusura non sarebbe idonea ad arrecare pregiudizio al paesaggio perché sottratta alla vista da un più alto muro preesistente che la nasconde totalmente.
La Corte territoriale, così come il giudice di primo grado, sarebbero pertanto incorsi in errore attribuendo una visibilità esterna al manufatto in contrasto con quanto risultante dalla documentazione fotografica in atti.
Altrettanto affermano con riferimento agli altri interventi, tutti interrati.
5. Con un secondo motivo di ricorso deducono la violazione di legge con riferimento ai suddetti vani interrati, affermando che gli stessi, per le loro caratteristiche costruttive, sarebbero soggetti alla disciplina di cui all'art. 22 d.P.R. 380/2001, che richiede la sola segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), anche in considerazione del fatto che la non computabilità degli stessi ai fini volumetrici e di peso insediativo sarebbe deducibile dall'art. 50 delle NTA del comune di Pantelleria.
Aggiungono che, con una memoria difensiva depositata in appello, la difesa aveva prodotto documenti che i giudici del merito non avrebbero considerato e, cioè, una istanza di riesame presentata all'amministrazione comunale e poi accolta, relativa a tali locali, dei quali era stato ammesso il mantenimento, riconoscendo che, per dimensioni e destinazione d'uso, essi esaurivano la loro funzione nel rapporto con l'edificio principale senza alcuna incidenza sui parametri urbanistici e sulle volumetrie e senza modifica della destinazione d'uso dell'edificio principale e alterazione della sagoma, rimanendo conseguentemente sottratti all’obbligo del preventivo permesso di costruire.
Assumono inoltre che, seppure l'articolo 10 del DPR 380/2001 non contempla un elenco chiuso di interventi soggetti a permesso di costruire, lasciando alle regioni la possibilità di individuarne altri, nel caso specifico non risulterebbe applicabile alcuna disposizione regionale operante in tal senso.
Rilevano, inoltre, che l’amministrazione comunale, a seguito dell'istanza di riesame, avrebbe rinunciato all'esecuzione dell'ordine di demolizione di due dei locali, mantenendone l'esecutività limitatamente ai restanti altri locali oggetto di provvedimenti impugnati davanti alla giurisdizione amministrativa (demolizione della vetrata e una controsoffittatura con tavolati in legno della veranda ed un magazzino interrato) e che, per tali interventi, sarebbe stata presentata una segnalazione certificata di inizio lavori per eliminare la vetrata e per regolarizzare il locale magazzino in locale tecnico adibito a cisterna.
Si tratterebbe, in definitiva, di varianti “minori” che non avrebbero determinato alcuna incidenza sui prospetti e sulla statica dell'immobile né aumenti di superficie utile o modifiche strutturali e, pertanto, soggette alla disciplina di cui all'art. 22 citato, la cui applicabilità sarebbe stata erroneamente esclusa dai giudici del merito.
6. Con un terzo motivo di ricorso rilevano che la natura delle opere così come precedentemente individuata determinerebbe, quale ulteriore conseguenza, l'applicazione del diverso regime sanzionatorio di cui all'art. 37 del d.P.R. 380/2001.
7. Con un quarto motivo di ricorso denunciano il vizio di motivazione in relazione al negato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, osservando che la Corte territoriale avrebbe valorizzato erroneamente la mancanza di alcun segno di resipiscenza, quale la pronta eliminazione del manufatto realizzato, senza considerare che avverso l'ordinanza di demolizione era stato proposto ricorso al TAR Sicilia, per cui era diritto costituzionalmente garantito degli imputati non prestare automatica acquiescenza ai provvedimenti contestati attraverso i rimedi giurisdizionali offerti dall'ordinamento.
La Corte territoriale non avrebbe inoltre considerato altri aspetti positivi, quali i pronti rimedi adottati non appena avuta notizia della denunciata invasione di fondi altrui e l'esito ulteriore della procedura amministrativa attivata presso l’amministrazione comunale, che evidenziano non tanto un agire per colpevole ostinazione, quanto, piuttosto, il corretto esercizio del diritto di difesa a fronte di provvedimenti ritenuti illegittimi.
Insistono, pertanto, per l'accoglimento dei ricorsi.
In data 25/9/2019 i ricorrenti hanno fatto pervenire in cancelleria alcuni documenti in copia chiedendone l’acquisizione agli atti del processo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
2. Va osservato, con riferimento al primo motivo di ricorso, che i ricorrenti contestano, in sostanza, in relazione al reato paesaggistico, la effettiva offensività delle opere realizzate sul presupposto che il bene giuridico tutelato sarebbe “il valore ‘visivo’, ossia l’incidenza sul paesaggio che non deve essere ‘visivamente’ compromesso dall’opera realizzata”, con la conseguenza che “se l’opera non è idonea ad arrecare alcun pregiudizio al bene tutelato, come tale definito, l’omessa presentazione dell’istanza si traduce in una mera violazione formale irrilevante ai fini della tutela sostanziale del bene tutelato dalla norma”.
Da ciò conseguirebbe, secondo la tesi difensiva, l’insussistenza delle violazioni contestate per non essere le opere realizzate visibili all’esterno, trattandosi, in un caso, di una chiusura mediante vetrata nascosta da un muro più alto e, negli altri, di manufatti completamente interrati.
3. Tale conclusione, che non può essere condivisa, rende necessario richiamare quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte circa l’ambito di operatività della disciplina paesaggistica in generale e con riferimento al principio di offensività, da ultimo esaminata (Sez. 3, n. 7343 del 4/2/2014, Lai, non massimata) con argomentazioni che pare opportuno richiamare.
4. Si è, invero, più volte ribadita (Sez. 3, n. 11048 del 18/2/2015, Murgia, Rv. 263289; Sez. 3, n. 6299 del 15/1/2013, Simeon, Rv. 254493. V. anche, da ultimo, Sez. 3, n. 4567 del 10/10/2017 (dep. 2018), Airo' Farulla, Rv. 273067) la natura di reato di pericolo della violazione paesaggistica.
In particolare, nelle richiamate decisioni si è ricordato come si fosse già precisato (Sez. 3, n. 28227 del 8/6/2011, Verona, Rv. 250971) che il reato contemplato dall’art. 181 d.lgs. 42\2004 è un reato formale e di pericolo che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull’originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione (si richiamava, a tale proposito, anche Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009 (dep.2010), Soverini, Rv. 245908 ed altre prec. conf.) e come sia di tutta evidenza, attesa la posizione di estremo rigore del legislatore in tema di tutela del paesaggio, che assume rilievo, ai fini delle configurabilità del reato contemplato dal menzionato articolo 181, ogni intervento astrattamente idoneo ad incidere, modificandolo, sull’originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico ed eseguito in assenza o in difformità della prescritta autorizzazione.
Si è pure ricordato che l’individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex pl. Sez. 3, n. 14461 del 7/2/2003, Carparelli, Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 6/2/2003, De Marzi, Rv. 224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/2/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641 del 30/1/2003, Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell’ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si giungeva pertanto ad affermare che il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consiste nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno restituendo ai luoghi l'originario assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/1/2013, Simeon, Rv. 254493, cit.).
Si è ribadito anche che la punibilità del reato in questione è esclusa solo nell'ipotesi di interventi di «minima entità», inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio, e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale (Sez. 3, n. 39049 del 20/3/2013, Bortini, Rv. 256426).
Tali principi sono stati affermati anche con riferimento all'ipotesi delittuosa disciplinata dal medesimo art. 181 d.lgs. 42\2004 (Sez. 3, n. 34764 del 21/6/2011, Fanciulli, Rv. 251244).
Questa Corte non ha inoltre mancato di prendere in esame, da ultimo nella decisione appena citata, l'incidenza del c.d. principio di offensività, già oggetto, in precedenza, di una compiuta analisi delle diverse posizioni dottrinarie e giurisprudenziali (Sez. 3, n. 2733 del 26/11/1999 (dep. 2000), P.M. in proc. Gajo, Rv. 215868; Sez. 3, n. 44161 del 23/10/2001, Zucchini, Rv. 220624) cui si rinviava, ricordando anche quanto osservato, in tema, dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 1997), secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo, presunto od astratto, è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. (sentenza n. 360 del 1995).
Veniva precisato, sempre in tale occasione (Sez. 3, n. 34764 del 21/6/2011, Fanciulli, Rv. 251244, cit.), che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (affermazione peraltro successivamente ribadita in Sez. 3, n. 13736 del 26/2/2013, Manzella, Rv. 254762 e precedentemente formulata in Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009 (dep. 2010), Soverini, Rv. 245908).
E' stato preso in considerazione anche il rilievo assunto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate, escludendone ogni efficacia.
Osservando, infatti, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/1/2005, Di Cesare, Rv. 231247)
Si era inoltre argomentato, in precedenza, che il riferimento al criterio di concreta offensività può essere accettato, nelle ipotesi in esame, soltanto in ambiti estremamente marginali riguardanti casi in cui l’assenza di pericolo di lesione del bene tutelato sia verificabile ictu oculi e, quindi, al di là di ogni ragionevole dubbio, con la conseguenza che non può ammettersi, per l'evidente incompatibilità con la rigorosa disciplina di settore, il riconoscimento della inoffensività, in concreto, di una nuova opera, che, indipendentemente dalle dimensioni, per il solo fatto di essere introdotta in un paesaggio rigorosamente tutelato nella sua integrità, ne determina inevitabilmente una modifica e, quindi, un «pericolo di alterazione», pericolo che, con riferimento alla sua sussistenza, al momento della consumazione dell’abuso, non può ritenersi vanificato da successiva autorizzazione in sanatoria.
Va rilevato come sia lo stesso tenore delle disposizioni che disciplinano la verifica della compatibilità paesaggistica a confermare l'esattezza di tali conclusioni, perché l'articolo 146, comma 4 d.lgs. 152\06 stabilisce che l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, anche se, con riferimento ai cosiddetti abusi minori, la valutazione di compatibilità paesaggistica effettuata ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, impedisce l’applicazione della sola sanzione penale, restando ferma, come disposto dall'art. 181, comma 1-ter d.lgs. 42\2004, l’applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall’articolo 167.
Tale ultima disposizione stabilisce, in particolare, al comma 5, che nel caso in cui venga accertata la compatibilità paesaggistica dell'intervento, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione, il cui ammontare è determinato previa perizia di stima.
Dunque la procedura di verifica postuma della compatibilità paesaggistica dell'intervento è limitata a casi del tutto marginali, riguardando le ipotesi di lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Essa inoltre non esclude, neppure in questi casi, caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del territorio vincolato, l'applicazione di sanzioni amministrative e, sopratutto, non consente di ritenere, per il solo fatto del riconoscimento di compatibilità paesaggistica, sempre in tali limitati casi, l'inoffensività della condotta posta in essere, atteso che, come si è appena detto, la determinazione delle somme da pagare tiene conto del «danno arrecato» mediante la trasgressione.
Date tali premesse si affermava che, riguardo agli abusi paesaggistici, quando il giudice abbia accertato, con logica ed adeguata motivazione, che l’intervento abbia posto in pericolo l’interesse protetto, il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene tutelato, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito.
Sulla base di tale principio si è pertanto ritenuta la sussistenza del reato anche con riferimento agli interventi “precari” o ad opere facilmente rimovibili (Sez. 3, n. 39429 del 12/6/2018, Scrocchi, Rv. 273903; Sez. 3, n. 15125 del 24/10/2017 (dep. 2018), P.M. in proc. Moretti, Rv. 272587) e, come si dirà appresso, agli immobili interrati.
5. Ciò considerato, deve osservarsi che il riferimento alla rilevanza “visiva” degli interventi in zona vincolata ai fini della configurabilità della violazione paesaggistica formulato in ricorso non può in alcun modo essere condiviso, perché non trova riscontro nella disciplina attualmente in vigore.
Invero, la giurisprudenza di questa Corte, sotto la vigenza della legge 431/1985 aveva, in due occasioni, rimaste tuttavia isolate e relative alla marginale ipotesi di interventi manutentivi (pavimentazione di un piano di calpestio in un caso e mutamento apportato su pareti prospettanti su cortili o aree interne agli edifici e chiuse su ogni lato), escluso la sussistenza del reato paesaggistico, ritenendo tali opere, nel primo caso, non suscettibili di “verticalizzarsi con occlusione ed offesa di visioni prospettiche e d'insieme” e, pertanto, non idonee a provocare alterazioni nel senso postulato dalla legge (Sez. 3, n. 2072 del 23/6/1994, Standinger, Rv. 198836) e, nel secondo, perché le opere eseguite non erano state ritenute capaci di mutare in modo rilevante o essenziale le caratteristiche originali dell’area vincolate e non riguardavano prospetti visibili sotto il profilo paesistico (Sez. 3, n. 660 del 24/4/1992, De Luca Di Roseto Tupputi Schinosa, Rv. 190780).
Si tratta, a ben vedere, di casi del tutto singolari, nei quali la decisione aveva evidentemente tenuto conto dell’accertamento in fatto operato dal giudice del merito e della elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria che, fino a quel momento, aveva considerato la nozione di paesaggio e l’ambito di tutela assicurato dalla legislazione allora vigente.
La particolarità delle vicende trattate, che esclude la possibilità di collocare tali sentenze in un unitario indirizzo interpretativo, è dimostrata anche dal fatto che, nello stesso periodo, pur nella completa assenza di specifiche indicazioni da parte del legislatore dell’epoca, altre decisioni anticipavano già una meno restrittiva nozione di paesaggio, osservando, ad esempio, che “il vincolo sui boschi è finalizzato non soltanto alla conservazione statica di un valore estetico - visivo, ma, sulla base di una più profonda evoluzione culturale e giuridica, alla protezione di un bene giuridico inteso come ecosistema, ossia ambiente biologico naturale, comprensivo di tutta la vita vegetale ed animale ed anche degli equilibri tipici di un habitat vivente, spesso vulnerabili anche per attività svolte nel sottosuolo, come trivellazioni, scavi, prelevamenti di materiali o di acqua” (Sez. 3, n. 3147 del 4/2/1993, P.M. in proc. De Lieto, Rv. 193638)
Una lettura delle disposizioni attualmente in vigore quale quella offerta dalle sentenze Standinger e De Luca sopra citate, non può dunque ritenersi applicabile neppure se riferita ad interventi minori quali quelli allora presi in esame, perché la nozione di paesaggio è mutata nel tempo ed è ora espressamente definita dall’art. 131 d.lgs. 42/2004 il quale, nel corso degli anni, ha subito una evoluzione la cui portata è stata già posta in rilevo dalla giurisprudenza amministrativa (v. TAR Lazio (Roma) Sez. 2 n. 3577 del 1/4/2014) con argomentazioni del tutto condivisibili.
6. Invero, l’art. 131, nella sua originaria formulazione, stabiliva al primo comma che “ai fini del presente codice per paesaggio si intende una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni” e, nel secondo, che “la tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”.
Con il d.lgs. 157/2006 veniva poi modificato il primo comma che risultava, conseguentemente, così formulato “ai fini del presente codice per paesaggio si intendono parti di territorio i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”.
In tale definizione già era percepibile una considerazione del paesaggio particolarmente ampia e non certamente limitata alla mera rilevanza estetica, stante il riferimento espresso all’origine dei caratteri distintivi del territorio ed alla salvaguardia che si intende assicurare ai valori espressi dal paesaggio come “manifestazioni identitarie percepibili”.
Si tratta di una definizione formulata tenendo conto, tra l’altro, anche dei contenuti della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000 e ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, la quale, nel definire regole comuni per la protezione, la pianificazione e la gestione dei paesaggi nel diritto internazionale, obbliga gli aderenti all’adeguamento delle proprie leggi alle direttive stabilite e, nell’art. 1, specifica che il termine paesaggio “designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”
Come osservato in dottrina, il legislatore è pervenuto ad una nozione di paesaggio quale sintesi del rapporto tra uomo e natura e le mutue interrelazioni, capace di caratterizzare parti del territorio.
L’ampia concezione della nozione di paesaggio accolta dal legislatore risulta evidente anche dalla definizione dei beni paesaggistici e dalla loro collocazione, nell’art. 2 del d.lgs. 42/2004, nella nozione di “patrimonio culturale”, ove sono definiti quali immobili ed aree “costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge” poi individuati secondo quanto stabilito dagli artt. 136 e seguenti.
La definizione di paesaggio di cui all’art. 131 citato ha subito poi radicali modifiche ad opera del d.lgs. 63/2008, risultando attualmente strutturato in maniera tale da evidenziare in maniera ancor più evidente l’ampia portata della definizione.
Stabilisce infatti il primo comma che “per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” e, nel secondo comma, che “il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
Ancora, nel quarto comma, si afferma che “la tutela del paesaggio, ai fini del presente Codice, è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime (...)” e, nel quinto comma, che “la valorizzazione del paesaggio concorre a promuovere lo sviluppo della cultura”.
Ciò ha portato la giurisprudenza amministrativa, come accennato in precedenza, ad osservare come “la individuazione dei beni paesaggistici non sia caratterizzata dalla attenzione alla rilevanza estetica dei beni limitata alla panoramica e all'aspetto, ma soprattutto tenda alla conservazione delle caratteristiche di un bene per i profili espressivi di "identità". Tale nozione rinvia ad un insieme di valori ed elementi di carattere storico, economico, sociale, antropologico (...)” (TAR Lazio (Roma) Sez. 2 n. 3577 del 1/4/2014, cit. Si veda anche, sulla nozione di paesaggio, Cons. di Stato, Sez. 6, n.4079 del 5/8/2013).
7. Le considerazioni svolte sul punto dai ricorrenti, dunque, sono del tutto destituite di fondamento e formulate apoditticamente, senza tenere in alcun conto l'inequivocabile contenuto della legge appena richiamato.
Il motivo di ricorso, inoltre, evidenzia la sua manifesta infondatezza anche per altre ragioni.
Invero, nel giudizio di merito risulta accertato in fatto (pag. 6 della sentenza di primo grado) che la realizzazione del vano cucina non risultava essere stato autorizzato e che con la chiusura dello stesso erano stati creati nuovi volumi per 40,63 metri cubi, operando una trasformazione la cui consistenza non avrebbe comunque potuto ritenersi indifferente ai fini paesaggistici.
Parimenti irrilevante risulta, inoltre, il fatto che gli altri vani realizzati fossero interrati, ciò non soltanto perché, per le ragioni anzidette, l’assenza di una visibilità esteriore non esclude la sussistenza della violazione paesaggistica, ma anche perché in più occasioni, come ricordato anche dai giudici del merito, questa Corte ha avuto modo di affermare, lo si è accennato in precedenza, la rilevanza penale, anche ai fini paesaggistici, di tale tipologia di interventi.
8. In particolare, richiamandone la natura di reato di pericolo, si è affermato che il reato di cui all’art. 181 d.lgs. 42/2004 si configura anche in caso di lavori senza titolo realizzati nel sottosuolo di zone vincolate, perché la citata norma vieta l'esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici e dovendosi ritenere realizzata anche in tali casi una modificazione, seppure non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio (Sez. 3, n. 5954 del 15/1/2015, Chiacchiaro, Rv. 264371).
Tale pronuncia si pone, peraltro, nel solco di precedenti decisioni che erano giunte alle medesime conclusioni, dando anche conto della ampia nozione di paesaggio di cui si è detto in precedenza (Sez. 3, n. 7292 del 16/1/2007, Armenise ed altro, Rv. 236080; Sez. 3, n. 11128 del 16/2/2006, Silvestri, Rv. 233675).
La rilevanza, ai fini paesaggistici, dei manufatti interrati è stata riconosciuta, inoltre, anche dalla giurisprudenza amministrativa (v. ad es. Cons. di Stato, Sez. 6 n. 3317 del 5/7/2017).
Si tratta, pure in questo caso, di considerazioni del tutto condivisibili che vanno qui ribadite, osservando, altresì, come la realizzazione di immobili interrati sia anche preceduta da attività che interessano la superficie e che possono produrre un’incidenza negativa ulteriore sull’assetto del paesaggio, come può desumersi dal fatto che tali interventi richiedono opere complementari quali sbancamenti, movimenti di terra, realizzazione di impianti ed altre attività che possono influire sul terreno, sulla vegetazione esistente ed altre componenti ambientali.
Occorre inoltre considerare che quanto in precedenza rilevato trova conferma anche nel contenuto del d.P.R. 3 febbraio 2017, n. 31 “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”, il quale nell’indicare, negli allegati A e B, rispettivamente, gli interventi ed opere in aree vincolate esclusi dall'autorizzazione paesaggistica e quelli soggetti a procedimento autorizzatorio semplificato, individua i primi con riferimenti espliciti ad aspetti non esclusivamente attinenti al profilo estetico e visivo.
Va peraltro osservato, per completezza, che i ricorrenti non hanno in alcun modo prospettato la riconducibilità degli interventi realizzati tra quelli contemplati dal citato d.P.R. 31/2017, presentando gli stessi, peraltro, caratteristiche, accertate dai giudici del merito, che paiono pacificamente collocarli al di fuori all’ambito applicativo della richiamata normativa.
9. Quanto sopra evidenziato consente pertanto di affermare che, in tema di tutela delle aree sottoposte a vincolo, ai fini della configurabilità del reato paesaggistico, non assume alcun rilievo l’assenza di una possibile incidenza sul bene sotto l’aspetto attinente al suo mero valore estetico, dovendosi invece tener conto del rilievo attribuito dal legislatore alla interazione tra elementi ambientali ed antropici che caratterizza il paesaggio nella più ampia accezione ricavabile dalla disciplina di settore, con la conseguenza che anche interventi non esternamente visibili, quali quelli interrati, possono determinare una alterazione dell’originario assetto dei luoghi suscettibile di valutazione in sede penale.
10. Anche la manifesta infondatezza del secondo motivo di ricorso risulta di macroscopica evidenza.
Occorre in primo luogo rilevare che i ricorrenti affermano che l’art. 10 del d.P.R. 380/2001 non costituisce un elenco chiuso potendo essere integrato da specifiche disposizioni regionali non rilevabili per gli interventi descritti nell’imputazione.
Occorre anche precisare, a tale proposito, che l’art. 10, lett. a) del d.P.R. 380\01 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall’art. 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti.
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al T.U.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato art. 3 e che pertanto, in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
Sono pertanto soggetti a permesso di costruire, sulla base di quanto disposto dal T.U., tutti gli interventi che, indipendentemente dalla realizzazione di volumi, incidono sul tessuto urbanistico del territorio, determinando una trasformazione in via permanente del suolo inedificato (cfr. Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016 (dep.2017), Palma, Rv. 268847; Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014 (dep.2015), Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 8064 del 2/12/2008 (dep. 2009), P.G. in proc. Dominelli e altro, Rv. 242741; Sez. 3, n. 6930 del 27/1/2004, Iaccarino, Rv. 227566; Sez. 3, n. 6920 del 21/01/2004, Perani, Rv. 227565; Sez. 3, n. 38055 del 30/9/2002, Raciti, Rv. 222849 ed altre prec. conf.).
Inoltre l’art. 3, lett. e1 del d.P.R. 380\01 indica i manufatti fuori terra ed interrati tra gli interventi di nuova costruzione (unitamente all’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma già in essere).
La giurisprudenza di questa Corte, pressoché unanime, ritiene quindi necessario il permesso di costruire per la realizzazione di immobili in tutto o in parte interrati, trattandosi di opere per le quali l'autorità comunale deve svolgere il suo controllo diretto ad assicurare sia l'ordinato sviluppo dell'aggregato urbano, sia il rispetto delle norme urbanistiche ed anche l'osservanza delle regole tecniche di costruzione prescritte dalla legge (cfr. Sez. 3, n. 24464 del 10/5/2007, Iacobone ed altro, Rv. 236885 ed altre prec. tutte conformi).
Tale tipologia di intervento deve essere dunque computata ai fini volumetrici, perché, come osservato in altra articolata decisione (Sez. 3, n. 11011 del 9/7/1999, Boccellari, Rv. 214273), detto calcolo deve essere effettuato, salvo che non viga un'espressa disposizione contraria, con riferimento all'opera in ogni suo elemento, ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati funzionalmente asserviti, poiché nel concetto di costruzione rientra ogni intervento edilizio che abbia rilevanza urbanistica, in quanto incide sull'assetto del territorio ed aumenta il c.d. carico urbanistico e tali sono pure i piani interrati cioè sottostanti al livello stradale.
11. Fatta tale premessa, occorre rilevare che le opere realizzate, diversamente da quanto osservato in ricorso, non rientrano in alcun modo nel novero di quelle contemplate dall’art. 22 del d.P.R. 380/2001, consistendo, come correttamente osservato dai giudici del merito, in interventi eseguiti dopo la comunicazione di fine lavori relativa ad interventi debitamente autorizzati, determinando la realizzazione, in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo, di nuovi volumi rispetto ai quali, altrettanto correttamente, la sentenza impugnata esclude la caratteristica di volumi tecnici o pertinenze, considerandone le caratteristiche costruttive e la destinazione.
Si tratta, come in sostanza evidenziato dalla Corte di appello, di interventi di ampliamento dell’edifico preesistente chiaramente finalizzati ad aumentarne la funzionalità attraverso la creazione di un vano cucina autonomo e di altri vani, quelli interrati, asseritamente destinati a lavanderia, ripostiglio ed autorimessa.
Tali interventi, peraltro, sono da considerare unitariamente, diversamente da quanto avvenuto in ricorso, collocandosi in un unico contesto finalizzato al menzionato ampliamento, ricordando, altresì, come questa Corte abbia ripetutamente affermato che il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell’attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull’assetto territoriale. L’opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147 del 19/4/2017, Tomasulo, Rv. 270256; Sez. 3, n. 16622 del 8/4/2015, Pmt in proc. Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/4/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/3/2010, Marrella, Rv. 247175; Sez. 3, n. 4048 del 6/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365).
Resta da osservare che la esigenza di una valutazione unitaria esclude anche ogni eventuale rilievo ai provvedimenti che si assumono emanati dall’amministrazione comunale e segnalati ai giudici del merito con una memoria difensiva ed ovviamente non valutabili in questa sede di legittimità, che i ricorrenti richiamano in ricorso (pag. 4 e 5) offrendone una descrizione che evidenzia, appunto, una trattazione separata riferita ad una parte degli interventi, a loro volta singolarmente considerati: si afferma che l’amministrazione comunale avrebbe “rinunciato all’ordine di demolizione” dei locali destinati a ripostiglio e lavanderia a seguito di “istanza di riesame” dei ricorrenti, mantenendo invece le proprie originarie determinazioni riguardo ai restanti locali, rispetto ai quali il relativo provvedimento è stato impugnato innanzi al giudice amministrativo e rispetto ai quali sarebbe stata comunque presentata una SCIA al fine di procedere alla demolizione della vetrata di chiusura del vano cucina e per “la regolarizzazione del locale adibito a magazzino (capo B n. 4) in locale tecnico adibito a cisterna (...)”.
Va inoltre aggiunto che i documenti prodotti con memoria del 25/9/2019 non possono avere ingresso in questa sede di legittimità né, tanto meno, essere valutati.
12. La natura delle opere, soggette a permesso di costruire e del tutto avulse da quelle rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 22 d.P.R. 380/2001 evidenzia poi la manifesta infondatezza anche del terzo motivo di ricorso, atteso che la procedura sanzionatoria di cui all’art. 37 del medesimo d.P.R. riguarda soltanto gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività.
13. Manifestamente infondato risulta, infine, anche il quarto motivo di ricorso.
Il diniego delle circostanze attenuanti generiche è stato giustificato dai giudici del merito con espresso riferimento alla notevole consistenza dei manufatti realizzati, alla gravità della condotta ed all’assenza di segni di resipiscenza, osservando, meramente per inciso, che gli imputati ben avrebbero potuto demolire spontaneamente le opere.
Si tratta, ad avviso del Collegio di una motivazione del tutto congrua e sufficiente, essendo pacifico che il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o risultanti dagli atti, ben potendo fare riferimento esclusivamente a quelli ritenuti decisivi o, comunque, rilevanti ai fini del diniego delle attenuanti generiche (v. Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Sermone, Rv. 249163 ; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244) con la conseguenza che la motivazione che appaia congrua e non contraddittoria non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, neppure quando difetti uno specifico apprezzamento per ciascuno dei reclamati elementi attenuanti invocati a favore dell’imputato (Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Caridi, Rv. 242419; Sez. 6, Sentenza n. 7707 del 4/12/2003 (dep. 2004), Anaclerio, Rv. 229768).
L’affermazione del tutto complementare ed esemplificativa sulla mancata demolizione è dunque ininfluente (peraltro, con decreto n. 648 del 15/5/2017 il giudice amministrativo aveva già dichiarato perento il ricorso avverso l’ordine di demolizione) così come la mancata disamina di altri aspetti ritenuti, evidentemente, recessivi rispetto a quelli valorizzati.
14. I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende
Così deciso in data 1/10/2019