Tribunale S.M. Capua Vetere Sez. II sent.del 6dicembre 2005
Pres.Toscano Est. Chiaromonte Imp.Di Rauso ed altri
Sulla configurabilità del "disastro ambientale" nello svoglimento di atività
di cava determinante la distruzione e lo stravolgimento di un’ampia zona di
territorio in assenza delle valutazioni previste di studi di impatto ambientale
e delle prescritte autorizzazioni e concessioni, asportando illegalmente ingenti
quantitativi di materiale inerte e causando modificazioni irrecuperabili del
territorio;
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Innanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - Sez. II Penale composto da:
Dott. LUISA TOSCANO Presidente
Dott. FRANCESCO CHIAROMONTE Giudice est.
Dott. ADOLFO DI ZENZO Giudice.
Alla pubblica udienza del 06/12/2005 ha pronunziato e pubblicato mediante
lettura del dispositivo la seguente
S E N T E N Z A
nei confronti di:
1) DI RAUSO Stefano, nato a S.Maria c.v. il 13.6.1940 , residente a Capua alla
Via Fuori Porta Roma, n. 36 . - - libero – già contumace –
2) DI RAUSO Michele, nato a S.Maria c.v. il 01.01.1974, residente a Capua alla
Via Fuori Porta Roma , n. 36. - - libero – già contumace -
IMPUTATI
Capo – A, B, F, G, Omissis – stralciati e definiti con Sent. N. 254/04.
C) del reato p.e.p. dagli artt. 110 734 CP, perché, nelle qualità indicate sub
A) adottando le condotte indicate ai capi precedenti, deturpavano le bellezze
naturali di un’ampia zona sottoposte a particolare vincolo e particolare
protezione dell’Autorità;
D) del reato p.e.p. dagli artt. 110 e 434 CP, perché del reato p. e p. dagli
artt. 110 e 434 CP, perché, nelle qualità indicate e adottando la condotta sub
A) cagionavano un disastro ambientale consistito nella distruzione e
stravolgimento di un’ampia zona di territorio del Comune di Castel di Sasso in
assenza delle valutazioni previste di studi di impatto ambientale e delle
prescritte autorizzazioni e concessioni, asportando illegalmente ingenti
quantitativi di materiale inerte, determinando lo stravolgimento irrecuperabile
del territorio;
E) del reato p. e p. dagli artt. 110 e 451 CP, perché, in concorso tra loro e
nelle quali indicate sub A) , omettevano di collocare apparecchi e strumenti e
comunque di effettuare interventi tendenti ad eliminare pericoli per i
lavoratori dipendenti.
In Castel di Sasso 14 luglio 1997. -
CONCLUSIONI
Il Pubblico Ministero richiedeva la condanna degli imputati Di Rauso Michele e
Di Rauso Stefano e , previa concessione delle attenuanti generiche al primo, la
condanna degli stessi rispettivamente alla pena di anni due e di anni tre di
reclusione.
Le parti civili costituite si associavano alle richieste del P.M. e rassegnavano
le loro conclusioni scritte.
Il difensore degli imputati chiedeva l’assoluzione di entrambi gli imputati
perchè il fatto non sussiste; in subordine assoluzione per Di Rauso Michele per
non avere commesso il fatto e per Di Rauso Stefano perchè il fatto non
costituisce reato; in ulteriore subordine declaratoria di n.d.p. per intervenuta
prescrizione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il GUP presso il Tribunale di SMCV emetteva in data 9.2.2004 decreto che dispone
il giudizio nei confronti degli odierni imputati per i reati indicati in
epigrafe.
All’udienza del 30.11.2004 veniva dichiarata aperta la istruttoria
dibattimentale e le parti avanzavano le loro richieste istruttorie che il
Tribunale ammetteva.
In tale data veniva altresì ascoltato il teste di accusa Perugini.
All’udienza del 8.2.2005 veniva quindi ascoltato il teste Russo ed acquisita la
documentazione fotografica effettuata da personale del corpo forestale dello
Stato.
All’udienza del 5.4.2005 veniva ascoltato il teste Antonucci.
All’udienza del 4.10.2005 veniva escusso il teste Di Dato e rigettata una
declaratoria di estinzione dei reati in contestazione, previa concessione delle
circostanze attenuanti generiche.
Veniva a tal fine allegata al verbale di udienza apposita ordinanza di rigetto.
Alla successiva udienza utile del 8.11.2005 veniva escusso il teste Di Fusco ed
il P.M. rinunciava alla escussione degli ulteriori testi della sua lista.
Le parti sollecitavano alcune richieste istruttorie ai sensi dell’art. 507
c.p.p. che il Tribunale rigettava con ordinanza dettata a verbale.
Veniva pertanto chiusa la istruttoria dibattimentale ed il processo veniva
rinviato per la discussione.
All’odierna udienza le parti, pertanto, rassegnavano le suindicate conclusioni.
Il Tribunale, dopo essersi ritirato in camera di consiglio decideva come da
dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Dagli atti acquisiti al fascicolo del dibattimento e dichiarati utilizzabili a
fini della decisione ritiene il Tribunale che gli imputati debbano essere
mandati assolti dal fatto loro ascritto al capo D e debba essere pronunciata
declaratoria di non doversi procedere per i restanti capi della rubrica C ed E,
essendo gli stessi estinti per intervenuta prescrizione.
Gli atti del presente processo dovranno infine essere trasmessi alla Procura
sede per l’ulteriore corso in ordine al reato di cui all’art.434 c.p. commesso
in data successiva a quella indicata in imputazione.
Premesse.
Al fine di comprendere le ragioni di tali conclusioni appare opportuno anzitutto
riepilogare le principali emergenze fattuali della istruttoria dibattimentale.
Occorrerà successivamente analizzare struttura e caratteristiche del reato in
contestazione e comprendere a quale astratta fattispecie le condotte in esame
possano essere riconducibili.
Sarà infine necessario stabilire se risulti raggiunta prova sufficiente (sotto
un profilo obiettivo e subiettivo) della sussistenza del fatto cosi’ come
specificamente indicato e descritto nel capo di imputazione.
Il fatto risultante dalla istruttoria dibattimentale.
Dall’esame dei numerosi testi escussi e dal complesso della documentazione
acquisita è risultato accertato che in località Querceto , nel comune di Castel
Sasso insisteva una cava per la estrazione degli inerti gestita dalla società
denominata Beton Meca s.r.l..
In particolare dalla documentazione in atti ( dalla relazione di Ctu acquisita
agli atti) è emerso che l’attività in oggetto traeva una originaria
legittimazione da un provvedimento assentivo risalente al febbraio del 1980; in
tale epoca, infatti risulta rilasciata una apposita autorizzazione alla
coltivazione della zona in esame e specificamente della particella 30/e.
Dalla consultazione della documentazione, riportata opportunamente in preciso
ordine cronologico dai CCTTUU nominati dal P.M., è altrettanto agevole ricavare
la “storia” amministrativa della cava in esame, che risulta avere avuto alterne
vicende anche e soprattutto in considerazione del succedersi delle specifiche
disposizioni normative susseguitesi nel tempo.
In particolare, una significativa variazione nella situazione amministrativa
della cava, risulta essersi verificata a seguito della entrata in vigore della
Legge Regionale Campania n.54/85 che, come noto, ridisegnò in modo rilevante lo
specifico quadro di riferimento normativo modificando l’ormai vetusta disciplina
del DPR 128/1959.
Orbene, dalla documentazione richiamata per relationem dalla CTU, si ricava che
la Beton Meca, nel luglio del 1986, in ottemperanza all’art.36 della citata
legge Regionale, presentava istanza per la prosecuzione della attività di
coltivazione.
A prescindere dalla legittimità della procedura seguita, quello che appare
rilevante evidenziare in questa sede è che nell’anno 1988 furono emanati atti
amministrativi funzionali ad evitare (almeno formalmente) la prosecuzione
dell’attività estrattiva.
In particolare nel Gennaio del 1988 la Comunità Montana di Monte Maggiore emanò
provvedimento di diniego alla richiesta di autorizzazione al proseguimento della
coltivazione.
Analogamente, qualche mese piu’ tardi, il Ministero della agricoltura e foreste
diffidò la ditta esercente a non proseguire nella attività.
Sempre dalla relazione dei CTU sembra ricavarsi che avverso tali provvedimenti
la Beton Meca presentò ricorso al TAR, ottenendo (pare) un provvedimento
incidentale di sospensione dell’atto impugnato.
In pratica dopo tale iniziativa, nella relazione di CTU non risultano indicati
ulteriori atti e documenti da cui sia possibile ricavare con certezza se e fino
a che periodo nella cava in esame proseguì o meno concretamente l’attività
estrattiva.
Invero, dopo un significativo salto temporale di circa cinque anni, risultano
acquisiti e descritti soltanto documenti da cui ricavare un tentativo di
adeguamento della situazione amministrativa della Beton Meca alle ulteriori
modifiche normative regionali intervenute con la legge n.17/95, senza che da
tali documenti sia possibile desumere in modo significativo se l’attività
estrattiva fosse nel frattempo proseguita e, soprattutto, con quali modalità e
caratteristiche, questo fosse eventualmente avvenuto.
Non risulta utile a dimostrare la prosecuzione dell’attività di estrazione
neanche una analisi della documentazione relativa all’utilizzazione di esplosivi
da parte della Beton Meca: invero anche tale documentazione risulta ferma al
dicembre del 1990.
Non resta infine che evidenziare come la indubbia imprecisione del progetto
allegato all’istanza di rinnovo presentata nell’anno 1986 per quanto concerne
“le fasi temporali dello sfruttamento, le modalità di coltivazione (...) nonchè
di ogni altro elemento necessario ad individuare le dimensioni e le
caratteristiche delle attività estrattive” non consente di ricavare neanche
indirettamente da tale documentazione quale potesse essere stato nel corso degli
anni lo sfruttamento della cava in esame.
Su queste premesse deve essere evidenziato come, nel corso del processo, la
reale condizione della cava risulta esclusivamente descritta dai testi escussi a
dibattimento che, a vario titolo e riprese effettuarono accessi e sopralluoghi
nel sito in esame.
Deve essere preliminarmente rimarcato, però, che –senza tema di smentite- tutti
gli accertamenti descritti dai testi escussi risultano iniziare nell’anno 1999 e
seguenti, allorquando la Procura della repubblica diede incarico ad ufficiali di
PG e consulenti di svolgere sulla cava opportune investigazioni.
In particolare è risultato che, dopo essere stati nominati, i CCTTUU Russo,
Caruocciolo e Di Dato, in una con personale del corpo forestale dello Stato,
effettuarono un sopralluogo presso la Beton Meca il 13 settembre del 1999.
Analogamente, risulta che nel medesimo periodo furono effettuati degli
accertamenti dall’ispettore Perugini che, escusso a dibattimento, ha riferito
che la cava ebbe un lungo periodo di inattività e che lui non ricordava di avere
effettuato accertamenti antecedenti al 1999.
A prescindere da questi rilievi, comunque, appare utile evidenziare i risultati
del sopralluogo effettuato dai consulenti i cui esiti risultano ampiamente
descritti nella relazione acquisita agli atti, nonchè nelle deposizioni
dibattimentali degli stessi ed infine, sia pure genericamente, nei rilievi
fotografici parimenti acquisiti.
Orbene dal complesso delle prove succitate, francamente non smentite da analoghe
prove contrarie e/o da convincenti argomentazioni difensive, è emerso con
chiarezza che all’epoca dei sopralluoghi effettuati la cava risultava con
recenti lavorazioni e che erano stati realizzati dei fronti di cava a strapiombo
per una altezza anche di 30-40 metri ed a volte con angoli superiori ai 90
gradi, nel senso che la parete di coltivazione, anzichè essere verticale
risultava in alcune occasioni addirittura rientrante.
Su queste premesse vale la pena anzitutto ricordare che le varie leggi
succedutesi nel tempo escludevano ed escludono che l’attività estrattiva (e non
solo quella di successivo recupero) potesse essere effettuata con tali modalità
essendo sempre pacificamente richiesto che i fronti di escavazione non dovessero
essere a strapiombo (cfr. art.119 dpr 128/1959).
In secondo luogo, ed ancora piu’ significativamente, appare evidente che la
realizzazione di fronti di cava siffatti dovesse e potesse creare un serio e
concreto pericolo di crollo e/o di rovina del costone in tale maniera
“lavorato”.
Tale particolare risulta convincentemente ribadito dalla deposizione dei testi
escussi che hanno tutti unanimemente confermato il dato in esame, peraltro
supportato da evidenti cognizioni logiche e di senso comune.
Giova al riguardo ricordare la deposizione del teste Russo che, pur ammettendo
di non avere effettuato verifiche sulla stabilità dei versanti, ha chiarito che,
in base alle sue cognizioni geologiche, il tipo di escavazione praticata poteva
creare potenzialmente il pericolo di cedimento del fronte.
Un ulteriore circostanza fattuale -altrettanto meritoria di attenzione- riguarda
la questione della esatta ubicazione della cava.
In particolare nel corso della istruttoria dibattimentale si è molto insistito
circa la circostanza che nella zona a monte della cava fosse presente un area
boschiva vincolata a norma della legge Galasso.
Tale elemento risulta certamente desumibile dalla relazione di CTU acquisita
agli atti e dalla deposizione dei testi escussi che, concordemente, hanno inteso
fornire al riguardo un ulteriore particolare:
In chiaro dispregio della originaria autorizzazione e della normativa di settore
e nonostante le elevate altezze del fronte, non erano state realizzate adeguate
strutture e recinzioni che potessero essere utili a circoscrivere i luoghi e ad
impedire occasionali avvicinamenti ai pendii, con possibili quanto accidentali
cadute.
Infine dalla chiara deposizione del teste Di Fusco è stato definitivamente
chiarito un ulteriore e significativo particolare:
La cava, pur trovandosi in aperta campagna era posizionata nei pressi di alcune
case coloniche e, soprattutto, era ( ed è ) sovrapposta ad una strada
provinciale di collegamento tra i comuni viciniori che dista circa 150-180 metri
dalla base dello scavo.
Per tutto quanto sopra esposto, volendo tentare un riassunto esemplificativo del
complesso delle prove raccolte a dibattimento, possono dirsi acclarate le
seguenti, significative, circostanze:
• L’attività di estrazione dei materiali dalla cava in esame cominciò nei primi
anni ’80;
• Non è stato possibile acquisire precise informazioni circa il se ed il quando
tale attività di estrazione fosse stata sospesa, nè tantomeno, su quali fossero
stati i volumi e le modalità di estrazione nel corso degli anni;
• Dalla documentazione amministrativa indicata nella relazione di CTU risulta
che la cava era legittimata ad operare sino alla metà dell’anno 1988;
• Nel settembre del 1999 furono accertate escavazioni recenti ed una attività
estrattiva del tutto irregolare con la realizzazione di fronti verticali
(vietati) e per altezze assolutamente non consentite;
• Appare ragionevole pensare che tale attività estrattiva potesse avere creato
un potenziale pericolo di cedimento del costone;
• La particolare ubicazione della cava e le suindicate modalità di lavorazione
costituivano un potenziale rischio per la incolumità di occasionali
frequentatori delle zone limitrofe (area boschiva sovrapposta, strada
provinciale sottoposta etc.).
Fatte tali doverose premesse fattuali, appare necessario, come accennato,
analizzare la struttura e le caratteristiche del reato contestato.
Ciò al fine di valutarne la compatibilità con i fatti accertati e, piu’ in
generale, per dipanare le varie questioni in diritto sollevate dalle parti (tra
tutte la asserita prescrizione delle condotte contestate).
Il reato di cui all’art.434 c.p. Struttura e caratteristiche.
La sostanziale mancanza di rilevanti e sedimentati precedenti di giurisprudenza
in ordine al reato de quo (almeno per quanto concerne la specifica materia in
esame) impone di valutare la fattispecie incriminatrice alla luce dei principi
generali del diritto penale sostanziale, da cui – ovviamente- saranno desumibili
importanti conseguenze fattuali ed interpretative.
a. Il reato di pericolo del primo comma dell’articolo.
Il primo comma della norma in esame recita testualmente:
“Chiunque, fuori dai casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto
diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero
un altro disastro è punito, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica
incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni”.
Si tratta, come si vede, di una tipica ipotesi in cui il legislatore, attesa la
delicatezza del bene interesse tutelato (fattispecie inserita strutturalmente
nel titolo VI del libro II del codice –delitti contro la pubblica incolumità),
ha inteso anticipare la soglia della punibilità ad un momento antecedente al
verificarsi di qualsivoglia evento dannoso (crollo o altro disastro), giungendo
a sanzionare la semplice condotta diretta a cagionare tale evento (reato di
pericolo).
Più in generale appare indubitabile che la previsione in esame abbia il
dichiarato scopo di costituire una sorta di norma di chiusura in grado di
sanzionare ogni comportamento non direttamente ricompreso nelle precedenti
fattispecie del medesimo libro del codice.
Giova ricordare infatti che l’articolo contiene una cd. clausola di
sussidiarietà (fuori dei casi preveduti negli articoli precedenti), ed una
dicitura volutamente generica ed onnicomprensiva del potenziale evento cui è
collegata la azione sanzionata (crollo di costruzioni o altro disastro) .
Ovviamente, come accade in questi casi, al fine di non arretrare eccessivamente
il limite del penalmente rilevante, il legislatore ha inteso condizionare la
punibilità della condotta ad un ulteriore requisito: che dal fatto derivi un
pericolo per la pubblica incolumità.
Si tratta evidentemente di un requisito che unanimemente dottrina e
giurisprudenza qualificano come condizione obiettiva di punibilità della
fattispecie, con la conseguenza che questa rileva obiettivamente risultando del
tutto indifferente che l’agente abbia o non abbia voluto l’insorgenza del
pericolo (art.44 c.p.).
b. Il capoverso della norma come autonoma fattispecie di reato.
Nel corso del dibattimento le parti hanno molto insistito circa le esatte
caratteristiche della fattispecie in contestazione ed in particolare riguardo
l’assunto secondo cui il capoverso della norma in esame costituirebbe una
ipotesi di reato circostanziato aggravato rispetto alla previsione di cui al
primo comma.
Nel corso del processo, infatti, accusa e difesa hanno concordemente avanzato
una richiesta di prescrizione del reato ( il primo comma dell’art. 434 c.p.
prevede una pena edittale massima di cinque anni il cui termine prescrizionale
doveva considerarsi decorso previa concessione delle circostanze attenuanti
generiche).
Come accennato, il Tribunale – con apposita ordinanza allegata al verbale di
udienza- non ha ritenuto di condividere tale impostazione, ipotizzando, di
converso, che la previsione del capoverso dell’art. 434 c.p. costituisse una
autonoma fattispecie di reato e non una circostanza aggravante del primo comma
dello stesso articolo.
Al fine di comprendere le ragioni di tali conclusioni sembra utile riportare il
testo della norma in esame che recita semplicemente:
“La pena è della reclusione da tre a dodici anni se il crollo o il disastro
avviene”.
Orbene, a prescindere dalla laconicità della disposizione, appare evidente che
tale formulazione, oltre a prevedere una pena edittale diversa (e più grave)
rispetto all’ipotesi del primo comma, modifica integralmente la struttura base
del reato per il quale diventa rilevante e necessaria la verificazione di un
evento e non la semplice determinazione di un pericolo, , con tutte le
importanti conseguenze in tema di momento consumativo e prescrizione del reato.
Infatti, a prescindere dalla pluralità di condotte poste in essere dall’agente
(anche in tempi diversi), appare chiaro ed innegabile che ciò che rileverà ai
fini della datazione del delitto è l’istantaneo evento disastroso concretamente
verificatosi.
Orbene ciò , in linea con una ampia e condivisibile dottrina, consente anzitutto
di escludere che l’accadimento descritto dalla norma possa essere considerato
come una semplice circostanza aggravante.
Invero, appare del tutto convincente l’assunto secondo cui debba parlarsi di
evento ( e non di circostanza aggravante) “nelle ipotesi in cui il fatto tipico
di articoli nella progressione dal pericolo al danno (...); tale ultimo
risultato non può non incidere sulla struttura della figura criminosa semplice:
esso ne trasforma il contenuto di pericolo in quello di danno, per cui è
coerente configurarlo come evento (dannoso) tipico del nuovo fatto criminoso,
nel quale l’evento di pericolo resta logicamente assorbito” (cfr. Crespi Stella
Zuccalà, comm. al codice penale Libro I cap.II, VIII)
Peraltro, bisogna anche aggiungere che la già richiamata clausola di
sussidiarietà induce inevitabilmente a ritenere che l’evento disastroso non deve
essere voluto dall’agente che altrimenti risponderebbe dei diversi è piu’ gravi
delitti di tentata strage et similia.
In linea con tali rilievi sembra pertanto che la previsione del capoverso
dell’art. 434 c.p. possa e debba essere inclusa più correttamente nel normotipo
dei cd. delitti aggravati dall’evento.
Da una tale impostazione deriva una importante, logica conseguenza:
La condotta dell’agente deve essere tenuta ben distinta dall’evento in quanto
tale che, per evitare tautologie ed impossibilità di distinzione tra le
fattispecie in esame, dovrà necessariamente essere un accadimento naturalistico,
in qualche modo verificatosi anche per contingenze eterodeterminate, e comunque
esterno ed ulteriore rispetto alla azione.
Riassumendo, a rischio di sembrare ripetitivi, sulla base dei principi generali
su enunciati deve ritenersi che:
• L’art. 434 primo comma c.p. integra un reato a cd. condotta anticipata, la cui
punibilità risulta condizionata dalla configurabilità di un pericolo per la
pubblica incolumità.
• Il capoverso dell’art. 434 c.p. non può essere considerato come una semplice
circostanza aggravante del primo comma della medesima norma, con la conseguente
impraticabilità di qualsiasi giudizio di bilanciamento con eventuali attenuanti.
• Le fattispecie in esame sono da considerarsi in progressione criminosa.
• L’evento di “crollo o altro disastro” deve necessariamente non essere voluto e
quindi deve concretizzarsi in un accadimento ulteriore e diverso, ben distinto
dall’agire dell’agente.
La esatta inquadrabilità normativa delle condotte contestate.
a. inconfigurabilità del reato di cui all’art. 434 capoverso c.p.
Secondo l’originaria impostazione accusatoria è stato sostenuto che l’avvenuta
deturpazione della montagna interessata dalle illecite escavazioni della Beton
Meca costituisse un “disastro ambientale”.
Orbene, dalla lettura della contestazione sembra ricavarsi che, nella
prospettazione del Pubblico Ministero, il “disastro ambientale” provocato da una
irrazionale ed illecita coltivazione di una cava (purchè interessante un fronte
di notevoli dimensioni) possa essere incluso nell’ampio novero degli “altri
disastri” descritti nella fattispecie in esame, con la conseguenza che, nel caso
di specie, sarebbe stato perpetrato il grave reato contemplato dall’art. 434,
secondo comma c.p.
Una tale impostazione, per quanto suggestiva, non può essere condivisa.
Per comprendere le ragioni di tali conclusioni appare opportuno fornire la
giusta definizione della nozione di “altri disastri”.
Al fine di attribuire l’esatto significato al termine in esame sembra utile e
risolutivo riportare in parte qua le testuali parole della Relazione
Ministeriale sul progetto del codice penale: “la disposizione dell’art. 440 (ora
434), nella parte che riguarda altri disastri, ha carattere integrativo: essa,
cioè è destinata a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme
varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme di questo titolo concernente la
tutela della pubblica incolumità. ( in Manzini, Trattato di diritto penale
Italiano tomo VI, p.321 n.7).
Come si vede, pertanto, la chiara ed inequivoca intenzione del legislatore del
1930 fu quella di utilizzare tale dicitura proprio come una vera e propria norma
di chiusura.
Ciò anzitutto consente certamente di affermare che il termine in esame risulta
del tutto svincolato dalla necessaria verificazione di un crollo, inteso nella
accezione tradizionale del termine (secondo la tesi piu’ restrittiva altro
disastro=crollo di entità diverse dalle costruzioni).
Paradossalmente, però, proprio l’ampiezza di tale accezione impone di applicare
rigidi criteri interpretativi che consentano di fornire una definizione del
reato che risulti in linea con la sua struttura, collocazione codicistica e
limiti edittali.
Orbene, proprio per tali ragioni, ribadendo quanto suindicato, deve ritenersi
che la nozione in parola evochi necessariamente il verificarsi di un accadimento
naturalistico esterno che risulti solo mediatamente in relazione con la condotta
posta in essere dall’agente.
Probabilmente condividendo tale impostazione si è giunti da affermare che
sussista il reato in parola nell’ipotesi in cui si cagioni un disastro
automobilistico (Cass. 8 giugno 1954 n. 753), o teleferico o di ascensore (Rel
Min. Cit. La caduta di un ascensore privato può, in determinate circostanze, per
il numero delle persone lese o esposte al pericolo, essere considerata un
disastro, pur non rientrando nelle ipotesi specifiche previste nelle
disposizioni di questo titolo), o, ancora, si cagioni la invasione di zone
abitate con lava vulcanica etc.
Come si vede, quindi, anche i sostenitori della tesi piu’ estensiva finiscono
con il collegare la sussistenza del reato ad ogni possibile accadimento purchè
abbia capacità devastanti, si aggiunga naturalisticamente alla azione ed abbia
-in qualche maniera- possibilità di nocumento progressive ed ingravescenti
rispetto alla condotta medesima.
Seguendo tale impostazione è agevole concludere come, nel caso in esame, non sia
possibile ritenere che la vasta ed irrazionale escavazione di una montagna a
fini di sfruttamento estrattivo, possa di per sè sola costituire il reato di cui
all’art. 434 secondo comma c.p.p..
Al fine di ritenere integrata tale fattispecie, infatti, occorrerebbe che la
illecita escavazione abbia avuto delle ulteriori quanto non auspicate
conseguenze (ad esempio il crollo del fronte di scavo, la esondazione irregolare
di acque dai terreni sovrastanti et similia)
Giova ribadire che, solo con tale interpretazione sarà possibile salvaguardare
la struttura e caratteristiche del reato in esame e renderla compatibile con i
principi generali del diritto penale sostanziale.
Basti pensare che, per tutto quanto sopra detto, sotto un profilo subiettivo,
solo tale interpretazione consente di tenere ben distinti i diversi
atteggiamenti volontaristici richiesti dalla norma rispetto alla condotta
(necessariamente dolosa e quindi voluta) ed il disastro (evento aggravatore
necessariamente non voluto).
Di converso, qualora si volesse ritenere che la diffusa escavazione della
montagna costituisca in sè il disastro (verificato), i diversi requisiti
subiettivi finirebbero col confondersi rendendo praticamente impossibile anche
la distinzione con altre e piu’ gravi fattispecie di reato.
b. Residuale configurabilità del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p.
Ovviamente una volta escluso che il fatto contestato possa anche solo
astrattamente integrare gli estremi del reato di danno di cui al capoverso
dell’art. 434 , ciò certamente non esclude che possa ritenersi integrato il
reato di pericolo di cui al primo comma della medesima norma atteso che , come
detto, le due fattispecie devono essere considerate in rapporto di progressione
criminosa.
In altre parole si tratta di stabilire se la escavazione e del tutto irregolare
(con le modalità suindicate) di un esteso fronte di cava possa essere
considerata una azione diretta a cagionare un crollo e/o un “altro disastro” di
cui alla fattispecie in esame.
E’ appena il caso di aggiungere che, perchè ciò sia possibile, è necessario che
risulti contemporaneamente realizzata la condizione obiettiva di punibilità
prevista dal 434 primo comma c.p.; in altre parole occorre verificare che la
attività posta in essere abbia creato un serio “pericolo per la pubblica
incolumità”.
Orbene si ritiene che tali condizioni certamente sussistano nel caso di specie.
Anzitutto, infatti, per tutto quanto sopra detto, è stato dimostrato che
l’attività posta in essere abbia concretamente creato le condizioni per un
potenziale pericolo di crollo del fronte di cava. Giova ricordare che tanto
risulta dalla analisi fattuale delle modalità di estrazione (fronti con altezze
di oltre trenta metri e con pareti con andamento rientrante –addirittura oltre
la verticale-).
In questo senso, pertanto, sembra configurabile la fattispecie dell’art. 434
c.p. nella sua accezione piu’ classica e meno problematica.
A ben riflettere, però, nel caso in esame deve ritenersi che la norma risulti
analogamente violata sotto un profilo piu’ generale ed onnicomprensivo:
Giova ricordare, infatti, che l’istruttoria dibattimentale ha ampiamente
dimostrato come la illecita attività di escavazione, per le sue caratteristiche
ed estensione, fosse giunta a creare una vera e propria alterazione
geomorfologica dell’area, cagionando un danno ambientale non altrimenti
recuperabile se non provocando ulteriori e significative aggressioni del fronte
montagnoso.
Orbene, deve ritenersi che tali definitive ed estese attività di deturpazione,
avendo innegabili effetti incidenti sulle caratteristiche naturali della zona
(quali ad esempio i ritmi morfoevolutivi, la circolazione delle acque, la
stabilità dei versanti, l’equilibrio idrodinamico dei corsi di acqua sotteranei
etc.) hanno il sicuro effetto di alterare i delicati (e dinamici) equilibri
naturali e possono certamente e ragionevolmente essere ricomprese nel novero di
condotte idonee a provocare un qualsivoglia “altro disastro” contemplato dalla
fattispecie in esame (delle caratteristiche generali ed onnicomprensive della
nozione si è già ampiamente parlato).
Non resta che ribadire che nel caso di specie sussiste ampiamente la prova che
tale pericolo abbia potenzialità lesive estese nei confronti della pubblica
incolumità.
Come ampiamente chiarito, infatti, la particolare zonizzazione della cava (area
boschiva sovrapposta, strada provinciale sottoposta etc.). rendeva e rende
ampiamente probabile che il possibile verificarsi di un qualunque disastro
naturale costituisca un potenziale rischio per la incolumità di occasionali
(quanto necessitati) frequentatori delle zone limitrofe.
In altre parole e riassumendo deve ritenersi che la causazione di un danno
ambientale ( o se si preferisce di un disastro -secondo l’accezione proposta dal
P.M.-) del genere di quello in contestazione, seppur non consente di ritenere
verificata la fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 434 c.p.,
costituisce una innegabile premessa logica e fattuale per prefigurare la
verificazione di un disastro che si potrebbe definire naturale, purchè questo
abbia potenzialità lesive estese in danno della pubblica incolumità (disastro
ambientale + pericolo per la pubblica incolumità = pericolo di disastro naturale
= art.434 primo comma c.p.).
La datazione delle condotte in contestazione.
Una volta stabilito come le condotte in contestazione siano inquadrabili
esclusivamente nell’ambito del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p.
risulta inevitabile stabilire con certezza la esatta datazione di queste.
Appare innegabile, infatti, che mentre per la fattispecie di cui al capoverso
della medesima norma occorra indicare in contestazione la sola data di
verificazione dell’evento (disastroso), la diversa struttura del reato in esame
imponga di contenere nella imputazione la esatta temporalizzazione delle
condotte (da cui dipende anche la data di consumazione del reato).
Su queste premesse e richiamandosi a quanto sopra già ampiamente chiarito, deve
ribadirsi che non risulta raggiunta alcuna prova dibattimentale che le condotte
contestate siano state poste in essere anteriormente alla data indicata nella
imputazione (14 luglio 1997); ciò sotto il duplice profilo che non risulta
acclarata la esatta datazione della cessazione dell’attività estrattiva in epoca
anteriore alla data contestata e, soprattutto, che non risulta in alcun modo
dimostrato che l’attività di coltivazione posta in essere sino a quella data
avesse effettivamente prodotto le deturpazioni utili ad integrare la fattispecie
di reato.
Di converso si è già ampiamente chiarito come, a seguito della istruttoria
dibattimentale, sia evidentemente emerso che una nuova ed ulteriore attività di
estrazione (con le perniciose conseguenze suddescritte) sia stata posta in
essere in epoca anteriore e prossima alle verifiche effettuate dai CTU e dalla
PG (come detto risalenti al piu’ tardi all’estate del 1999).
Conclusioni.
Alla luce delle suesposte considerazioni deve pertanto concludersi che, per
quanto concerne i rigorosi limiti temporali della contestazione formulata fino
al luglio 1997 ( da cui il Tribunale deve necessariamente essere vincolato),
entrambi gli imputati debbano essere mandati assolti perchè il fatto non
sussiste.
Ciò evidentemente rende inutili ulteriori argomentazioni circa la diversa
posizione subiettiva dei due imputati.
Per mero dovere di completezza deve comunque essere rimarcato che al Di Rauso
Stefano, diversamente dal padre Michele (gravato da specifici precedenti
penali), un eventuale giudizio di responsabilità avrebbe imposto la concessione
delle circostanze attenuanti generiche ( con conseguente prescrizione del reato
di cui al 434 primo comma c.p. purchè temporalmente circoscritto al luglio
1997).
Per quanto concerne, invece, i fatti accertati nel dibattimento (verificati
nell’anno 1999) e rimasti fuori dalla contestazione iniziale ( che il P.M. non
ha inteso integrare) gli atti devono essere trasmessi alla Procura sede,
configurandosi gli estremi del reato di cui all’art. 434 primo comma c.p.p..
Sulla base delle risultanze dibattimentali tali condotte risultano accertate in
data 13 settembre 1999 (epoca in cui fu effettuato il sopralluogo dai CTU
nominati).
Non resta che aggiungere che per i reati di cui capi C ed E deve essere
pacificamente pronunciata sentenza di non doversi procedere trattandosi di
fattispecie per le quali risultano ampiamente decorsi i relativi termini
prescrizionali.
Attesa la evidente complessità e specialità delle condotte in contestazione è
stato necessario derogare agli ordinari termini per il deposito della
motivazione, fissandoli in giorni 45, ai sensi dell’art. 544, terzo comma c.p.p.
PQM
Letto l’art.530, secondo comma, c.p.p. assolve Di Rauso Michele e Di Rauso
Stefano dal reato loro ascritto al capo D) perchè il fatto non sussiste.
Letto l’art. 531 c.p., dichiara non doversi procedere nei confronti di Di Rauso
Michele e Di Rauso Stefano in ordine ai reati loro ascritti ai capi C ed E
essendo estinti per intervenuta prescrizione.
Ordina trasmettersi gli atti al P.M. per il reato di cui all’art. 434, primo
comma, c.p., accertato il 13 settembre 1999.
Letto l’art.544, terzo comma, c.p.p., indica il termine di giorni quarantacinque
per il deposito della motivazione della sentenza.
SMCV 6 dicembre 2005
Ambiente in genere. Disatro ambientale ed attività di cava
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