Cass. Sez. III n. 37508 del 18 ottobre 2011 (Ud. 28 set. 2011)
Pres. De Maio Est. Ramacci Ric. Putignano
Alimenti. Olio d'oliva ed etichettatura
Integra il reato di tentativo di frode in commercio la condotta dell’imprenditore che detiene per la vendita confezioni di olio extravergine di oliva proveniente da altra azienda con etichettatura attestante la produzione ed il confezionamento presso il proprio stabilimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sez. III Penale
Composta dagli lll.mi Sigg.:
Dott. Claudia SQUASSONI
Dott. Mario GENTILE
Dott. Renato GRILLO
Dott. Silvio AMORESANO
Dott. Luca RAMACCI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
su ricorso proposto da
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PUTIGNANO COSIMO N. IL 03/03/1946
avverso la sentenza n. 1.625/2008 CORTE APPELLO di LECCE, del 28/06/2010
visti gli atti, la sentenza e il ricorso
udita in PUBBLICA UDIENZA
del 28/09/2011 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LUCA RAMACCI ,-¬
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 28 giugno 2010, la Corte d'Appello di Lecce riformava parzialmente, ordinando la non menzione della condanna nel certificato penale, la sentenza in data 13 marzo 2008 con la quale il Tribunale di Brindisi – Sezione Distaccata di Ostuni condannava PUTIGNANO Cosimo per il reato di cui agli articoli 56 e 515 C.P.
Lo stesso era accusato di avere, quale presidente dell’oleificio sociale “Coopir De Laurentis”, detenuto per la vendita 401 lattine di olio recanti l’etichetta “Prodotto e confezionato dal Coopir De Laurentis…Ostuni olio extra vergine” ma contenenti olio acquistato dalla cooperativa “L’agricola montalbanese” la quale, come risultante dalla documentazione contabile, aveva venduto alla prima 21.640 Kg del proprio prodotto.
Avverso tale pronuncia il predetto proponeva ricorso per cassazione.
Con un primo motivo di ricorso deduceva la violazione degli articoli 56 e 515 C.P. ed il vizio di motivazione, rilevando che, consumandosi il reato di frode in commercio soltanto al momento della consegna materiale della merce all’acquirente, anche per la configurabilità del tentativo era necessaria la esistenza, quantomeno, di un rapporto di contrattazione destinata alla vendita, circostanza non verificatasi nella fattispecie in quanto le confezioni di olio risultavano, all’atto del controllo, conservate in un magazzino.
Aggiungeva che non vi era prova alcuna dell’effettiva miscelazione dell’olio prodotto con quello acquistato da altra azienda, non essendo stata effettuata dalla polizia giudiziaria operante alcuna verifica in tal senso.
Precisava, poi, che difettava anche la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato poiché, oltre a non essere stato dimostrato che fosse stato proprio lui a disporre la etichettatura in contestazione, mancava anche la prova di un suo comportamento connotato da dolo o colpa.
Con un secondo motivo di ricorso deduceva la violazione dell’articolo 192 C.P.P. ed il vizio di motivazione. Osservava, a tale proposito, la irrilevanza del contenuto della documentazione contabile che non consentiva di dimostrare l’effettiva miscelazione dell’olio con altro di diversa provenienza, nonché delle dichiarazioni rese in udienza dibattimentale che manifestavano elusivamente un’intenzione nella realtà mai concretatasi.
Rilevava, inoltre, che la indicazione sull’etichetta di informazioni sul luogo di produzione ed imbottigliamento non erano in alcun modo determinanti per l’acquisto del prodotto, tanto che tali indicazioni non erano ritenute essenziali neppure dal legislatore comunitario, come poteva desumersi dal tenore del Reg. CE 1019\2002, articolo 4, disciplinante la commercializzazione dell’olio di oliva.
Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Come è noto, l’articolo 515 C.P. si riferisce alla condotta di colui che, nell’esercizio di un'attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita.
Come sostenuto dal ricorrente, la consumazione del reato coincide con la consegna materiale della merce all’acquirente ma, per la configurabilità del tentativo, non è affatto necessaria, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la sussistenza di una qualche forma di contrattazione finalizzata alla vendita.
Invero, come si è già avuto modo di affermare, non è richiesta l'effettiva messa in vendita del prodotto, poiché per la configurabilità del tentativo di frode in commercio è sufficiente l'accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quelle dichiarate o pattuite (Sez. III n. 41758, 25 novembre 2010; Sez. III n. 6885, 18 febbraio 2009; Sez. III n. 23099, 14 giugno 2007; Sez. III n. 42920, 29 novembre 2001).
Configura, inoltre, il tentativo, anche la mera detenzione in magazzino di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, trattandosi di dato pacificamente indicativo della successiva immissione nella rete distributiva di tali prodotti (Sez. III n. 3479, 26 gennaio 2009; Sez. III n. 1454, 16 gennaio 2009; Sez. III n. 36056, 8 settembre 2004) e ciò anche nel caso in cui la merce sia detenuta da un commerciante all’ingrosso, dovendosi pacificamente riconoscere, in considerazione delle condotte tipizzate, che la disposizione in esame tuteli tanto i consumatori quanto gli stessi commercianti (Sez. III 26056\04 cit.).
Sebbene, dunque, nel provvedimento impugnato non sia perfettamente chiaro se il prodotto fosse destinato alla vendita all’ingrosso o al minuto, sussistevano comunque i presupposti per ritenere configurato il delitto contestato.
Il ricorrente afferma, tuttavia, che la condotta posta in essere non sarebbe comunque riconducibile alla fattispecie delineata dall’articolo 515 C.P. in considerazione del fatto che l’indicazione riportata sull’etichetta non riguardava informazioni essenziali delle quali, comunque, nemmeno la rigorosa normativa comunitaria impone l’inserimento sulle etichette delle confezioni di olio di oliva. Aggiunge, poi, che il prodotto consisteva comunque in olio extra vergine di oliva prodotto con le stesse tecnologie estrattive da altra azienda situata a breve distanza.
Occorre rilevare, a tale proposito, che la provenienza e l’origine del prodotto non sono dati irrilevanti ai fini della configurabilità del reato in esame, tanto che il legislatore ha espressamente indicato tali caratteristiche tra quelle elencate nell’articolo 515 C.P.
Si tratta, al contrario, di dati certamente significativi ai fini del corretto esercizio delle attività commerciali e che, in alcuni casi, come avviene ad esempio con alcuni prodotti alimentari mediante l’attribuzione dei c.d. marchi di qualità, contribuiscono in modo determinante alla corretta identificazione di un prodotto proprio in ragione, tra l’altro, dell’origine e della provenienza.
E’ inoltre di tutta evidenza l’affidamento che il consumatore può rivolgere all’indicazione del luogo di produzione e confezionamento di un prodotto e come tale indicazione possa, in definitiva, condizionarne la scelta, specie nei casi in cui, come avviene per l’olio, le diverse modalità di estrazione e la provenienza delle olive possono incedere in modo determinante sulla qualità del prodotto finale.
Tale assunto trova peraltro riscontro nella normativa di settore che contiene precise indicazioni in tal senso.
Occorre precisare che il richiamo effettuato dal ricorrente al Regolamento CE del 13 giugno 2002 n. 1019 relativo alle norme di commercializzazione dell'olio d'oliva è corretto ma incompleto.
A prescindere dal fatto che lo stesso, rispetto al testo riportato in ricorso, ha subìto diverse modifiche (l’ultima delle quali ad opera del Reg. CE 596 del 7 luglio 2010) deve infatti rilevarsi che esso, come chiaramente indicato nelle premesse, fornisce norme specifiche in materia di etichettatura, complementari a quelle previste dalla direttiva 2000/13/CE del 20 marzo 2000 e succ. mod., concernente l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari e la relativa pubblicità che non escludono, comunque, il riferimento alle disposizioni generali in materia di etichettatura degli alimenti, quali il D.Lv. 27 gennaio 1992, n. 109 “Attuazione delle direttive n. 89/395/CEE e n. 89/396/CEE concernenti l'etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari” oltre ad altre disposizioni nazionali, anche di attuazione della normativa comunitaria, che disciplinano specifici settori (ad es. gli alimenti “biologici”).
Nell’articolo 3 del predetto decreto legislativo figurano, tra le indicazioni che devono essere obbligatoriamente presenti sulle etichette dei prodotti alimentari, il nome o la ragione sociale o il marchio depositato e la sede o del fabbricante o del confezionatore o di un venditore stabilito nella Comunità economica europea, la sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento, mentre l’indicazione del luogo di origine o di provenienza, pure indicato nel medesimo articolo, per gli oli di oliva è regolata dal menzionato articolo 4 Reg. CE 1019\02 che disciplina la designazione dell’origine, intesa come la zona geografica nella quale le olive sono state raccolte e in cui è situato il frantoio nel quale è stato estratto l'olio.
L’articolo 2 del D.Lv. 109\92 specifica, in modo inequivocabile, che l'etichettatura, così come la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari, non devono indurre in errore l'acquirente sulle caratteristiche del prodotto e precisamente sulla natura, sulla identità, sulla qualità, sulla composizione, sulla quantità, sulla durabilità, sul luogo di origine o di provenienza, sul modo di ottenimento o di fabbricazione del prodotto stesso.
Si tratta, dunque, di informazioni che la menzionata normativa mantiene tra loro distinte, cosicché l’indicazione “Prodotto e confezionato dal Coopir De Laurentis…Ostuni olio extra vergine”, utilizzata nella fattispecie, assume un significato inequivocabile che può essere interpretato dal consumatore esclusivamente nel senso che tanto la estrazione dell’olio dalle olive quanto l’imbottigliamento del prodotto finito avvenga all’interno dello stabilimento indicato, venendo così indotto in errore.
Non assume peraltro alcun rilievo la obbligatorietà o meno dell’indicazione riportata che, una volta apposta sulla confezione, non può comunque contenere indicazioni fuorvianti sull’origine o provenienza della cosa.
Può così in definitiva affermarsi che integra il reato di tentativo di frode in commercio la condotta dell’imprenditore che detiene per la vendita confezioni di olio extravergine di oliva proveniente da altra azienda con etichettatura attestante la produzione ed il confezionamento presso il proprio stabilimento
Ne consegue che la sentenza impugnata deve ritenersi, sul punto, del tutto immune da censure.
A conclusioni analoghe deve pervenirsi anche per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso.
Correttamente i giudici del gravame hanno considerato pienamente provata la penale responsabilità del ricorrente sulla base degli accertamenti espletati dalla polizia giudiziaria e dalla inequivocabile conferma rinvenibile nelle dichiarazioni rese dallo stesso ricorrente nel corso del dibattimento, ove ammetteva che l’olio acquistato veniva poi miscelato con quello prodotto e poi etichettato con le modalità accertate in sede di indagini.
Tali elementi sono stati correttamente ed opportunamente valorizzati dalla Corte territoriale nella decisione impugnata che supera indenne, anche sul punto, il vaglio di legittimità.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma il 28 settembre 2011
Il Consigliere Estensore Il Presidente
(Dott. Luca RAMACCI) (Dott. Guido DE MAIO)