Cass. Sez. III n. 28693 del 9 giugno 2017 (Ud 23 feb 2017)
Presidente: Savani Estensore: Renoldi Imputato: Crocco
Rifiuti. Residui della lavorazione del marmo

Nel caso dei residui della lavorazione del marmo va affermata la natura di rifiuto . Tale qualificazione può essere superata soltanto qualora l'interessato fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione del regime giuridico più favorevole relativo al "sottoprodotto"

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del Tribunale di Benevento in data 1/02/2016, Pasquale Antonio Crocco fu condannato alla pena di 6.000,00 Euro di ammenda in quanto riconosciuto colpevole del reato previsto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a) e comma 2 per avere, quale proprietario di un fondo sito in località Battitelle e quale titolare di un'impresa per la lavorazione del marmo, depositato in modo incontrollato, in mancanza della prescritta autorizzazione, su un'area di circa 40 mq, i seguenti rifiuti non pericolosi: "pezzi di marmo di diversa pezzatura, granito, pietre varie, frammisti a qualche barattolo in metallo e pezzi di plastica, un cuscino abrasivo per la levigatura, pezzi di vetro e stracci, per un quantitativo di circa 7 metri cubi; nonchè cumuli di scarti di demolizione frammisti a terreno e vegetazione spontanea per un volume di circa 10 metri cubi"; fatti accertati in Cusano Mutri il 15/04/2013.

2. Avverso la predetta sentenza, lo stesso Crocco ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore fiduciario, deducendo cinque distinti motivi di censura, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Con il primo di essi, il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), la violazione di legge nonchè la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione all'art. 438 c.p.p., comma 5 e art. 468 c.p.p., comma 4.

Sotto un primo profilo, si deduce che il Tribunale abbia rigettato l'istanza di giudizio abbreviato condizionato, presentata in sede di opposizione a decreto penale, sul presupposto che la richiesta sia stata ritenuta non compatibile con le modalità di svolgimento del rito richiesto, in quanto l'attività istruttoria sarebbe stata "sostitutiva" della prova raggiunta in sede di indagini e non "integrativa" della stessa. In tal modo, però, sarebbe rimasto violato l'art. 438, comma 5, atteso che l'audizione dei testi indicati sarebbe stata, invece, necessaria ai fini "di un'equa decisione" e non potendo essa intendersi come "sostitutiva" in quanto non rivolta a determinare "uno stravolgimento di elementi già acquisiti e vagliati in sede di indagini". Nè avrebbe potuto affermarsi che l'assunzione di quattro testimonianze fosse incompatibile con le finalità di economia processuale proprie del rito abbreviato, dal momento che, come precisato dal Giudice delle leggi, "qualunque atto istruttorio necessario è più economico quando assunto nel contesto del rito abbreviato" (così Corte cost., n. 115 del 9/05/2001).

Sotto altro profilo, si sostiene che la lesione del diritto alla prova dell'imputato sarebbe proseguita in sede di giudizio ordinario, ove il giudice di prime cure, stante l'assenza della difesa tecnica all'udienza di apertura del dibattimento e di formulazione delle richieste istruttorie, si sarebbe in seguito rifiutato di ammettere l'escussione a prova contraria dei testi dell'imputato, così violando l'art. 468 c.p.c., comma 4, che secondo l'interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità attribuirebbe sempre all'imputato il diritto all'ammissione delle prove che tendono a negare i fatti di cui è chiamato a rispondere. Peraltro, il rigetto da parte del primo giudice sarebbe intervenuto senza alcuna motivazione, ovvero sulla base del mero riferimento all'avvenuto superamento della fase di ammissione delle prove.

2.2. Con il secondo motivo, l'imputato si duole, ai sensi dell'art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b), dell'inosservanza e dell'erronea erronea applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 183 e 256. Ciò in quanto, difettando l'intenzione di disfarsi del materiale di risulta, esso non avrebbe potuto essere qualificato come "rifiuto", quanto piuttosto come "sottoprodotto", trattandosi di prodotti scaturenti "in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa", "destinati ad un ulteriore impiego o al consumo" e, pertanto, non rientranti nella parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006, disciplinante la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti inquinati. In particolare, ai sensi dell'art. 183, si tratterebbe di "sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare" di "sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa, direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo".

Per lo stesso motivo, il deposito dei materiali in esame non integrerebbe un'ipotesi di smaltimento ai sensi dell'art. 183, mancando l'intenzione di sottrarre definitivamente gli stessi dal circuito economico e/o di raccolta.

2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), la nullità della sentenza per violazione dell'art. 125 c.p.p., comma 3, a causa di una motivazione del tutto assente ovvero illogica e contraddittoria, in specie con riferimento alla confutazione delle tesi difensive, essendosi il giudice limitato ad affermare che la responsabilità dell'imputato risultasse "comprovata dalla documentazione versata in atti e dall'escussione dei testi in sede dibattimentale" e, dunque, sulla base del solo dato relativo alla proprietà del terreno su cui erano stati rinvenuti i materiali e sulla compatibilità degli stessi con l'attività d'impresa di cui Crocco è titolare.

2.4. Con il quarto motivo, Crocco lamenta, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), la violazione dell'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione al principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio.

Nella specie, il Giudice di prime cure, si sarebbe limitato "ad una sommaria e laconica esposizione dei fatti", senza riferire alcunchè circa le ragioni giuridiche poste a fondamento della propria decisione e circa il superamento degli argomenti espressi dalla difesa; e ciò in violazione dell'art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) che pone, tra i requisiti della sentenza, "la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata".

2.5. Con il quinto motivo, viene censurato, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), il sostanziale difetto di motivazione in relazione all'art. 133 c.p. in materia di congruità della pena e in relazione all'art. 62-bis c.p. con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.

La pena sarebbe stata determinata in misura eccessiva, discostandosi in misura significativa e senza alcuna motivazione dal minimo edittale, con conseguente violazione degli artt. 132 e 133 c.p..

Inoltre, la sentenza non avrebbe concesso le attenuanti generiche, pur senza escluderle espressamente, benchè ne ricorressero i presupposti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato.

2. Muovendo dal primo motivo di impugnazione, il ricorrente deduce, sostanzialmente, due distinti profili di doglianza: l'erroneo rigetto della richiesta di ammissione al rito abbreviato e l'illegittimo rigetto dell'istanza di ammissione della prova contraria.

2.1. Quanto alla prima questione deve osservarsi che in caso di opposizione a decreto penale di condanna, l'art. 461 c.p.p., comma 3 consente all'imputato di formulare richiesta di giudizio abbreviato, al quale, secondo la previsione dell'art. 464, comma 1 codice di rito si applicano una serie di disposizioni dettate per tale rito speciale, tra le quali vi è anche l'art. 438 c.p.p., comma 5. Pertanto, anche in sede di opposizione al decreto penale di condanna, l'imputato può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione (cd. abbreviato condizionato).

Il giudice, a fronte di tale istanza, è tenuto ad ammettere il rito abbreviato se l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione (ovvero quando la prova richiesta sia "indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico e valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda": così Sez. Un., n. 44711 del 27/10/2004, 18/11/2004, Wajib, Rv. 229175) e sempre che essa sia compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili. E tale valutazione, qualora sia logicamente e congruamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità, trattandosi di un apprezzamento di merito (Sez. 1, n. 33502 del 7/07/2010, dep. 13/09/2010, Scimonelli, Rv. 247957).

In caso di scrutinio negativo, il giudice deve, invece, rigettare la richiesta. A fronte del rigetto, poi, l'imputato può riproporre l'istanza davanti al giudice del dibattimento, prima della dichiarazione di apertura di tale fase; e qualora il giudice ritenga non giustificato il rigetto, è tenuto a disporre il giudizio abbreviato, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 23/05/2013, n. 169.

Qualora, invece, il giudice del dibattimento ritenga, in limine, di confermare il rigetto è, comunque, consentito, allo stesso giudice dibattimentale come a quello di appello, ovviamente a condizione che gli stessi siano specificamente investiti della questione, di (ri)valutare la fondatezza della originaria richiesta di ammissione del rito speciale, giungendo ad applicare la riduzione di un terzo sulla pena da irrogare ove la prima valutazione sia stata ritenuta erronea (v. Sez. Un., n. 44711 del 27/10/2004, 18/11/2004, Wajib, Rv. 229173).

Tale valutazione, peraltro, deve essere svolta secondo un apprezzamento ex ante, di verifica della ricorrenza dei requisiti di novità e decisività della prova richiesta dall'imputato alla luce della situazione esistente al momento della valutazione negativa, tenendo tuttavia conto, come criterio ausiliario, e di per sè non risolutivo, anche delle indicazioni sopravvenute dall'istruttoria espletata (Sez. 6, n. 48642 del 11/07/2014, dep. 24/11/2014, P.G. in proc. De Angelis e altri, Rv. 261245; Sez. 6, n. 41695 del 14/07/2016, dep. 4/10/2016, Bembi e altri, Rv. 268327).

2.1.2. Alla stregua della ricostruzione che precede deve, dunque, ritenersi che il relativo motivo di doglianza si configuri come assolutamente inammissibile.

Sotto un primo profilo, infatti, è appena il caso di rilevare come il ricorrente non abbia specificato il petitum della propria deduzione. Non è chiaro, infatti, se la censura sia diretta a provocare l'annullamento della sentenza o se essa sia intesa a ottenere il riconoscimento, in sede di legittimità, della riduzione di un terzo della pena inflitta. Ciò che, dunque, già sotto un primo aspetto consente di qualificare come aspecifica la relativa doglianza.

Sotto altro profilo, il ricorrente non ha prospettato di avere investito della relativa questione il giudice di primo grado, il quale, in ragione della sua prossimità rispetto al materiale istruttorio acquisito, è quello investito del controllo di merito sulla "prognosi postuma" di necessarietà dell'acquisizione istruttoria, precluso invece al giudice di legittimità, chiamato a verificare la tenuta logica di detto apprezzamento.

Nè va obliterato, infine, l'aspetto della concreta articolazione della censura, essendosi il ricorrente limitato ad affermare, in maniera del tutto apodittica, la assoluta decisività delle questioni su cui avrebbe inteso stimolare l'integrazione della piattaforma probatoria; ciò che, dunque, rende - anche sotto tale aspetto del tutto aspecifica la doglianza.

Da ultimo, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, la richiesta di abbreviato era stata rigettata in quanto la stessa era stata condizionata all'esame di quattro testimoni, sul presupposto che, come riportato nello stesso ricorso, il numero dei testi fosse stato ritenuto eccessivo da parte del primo giudice. Sotto tale profilo, è appena il caso di osservare che al di là di quanto già osservato in ordine alla inammissibilità delle doglianze in argomento formulate dal ricorrente, in ogni caso il provvedimento di rigetto adottato dal primo giudice era stato puntualmente motivato ed a fronte di esso, l'impugnazione si è limitata a riproporre la considerazione, svolta dalla stessa Corte costituzionale nella pronuncia già menzionata, secondo cui l'assunzione di una prova in sede di giudizio abbreviato risponderebbe, comunque, a criteri di economia processuale rispetto alla sua eventuale assunzione dibattimentale. Tale osservazione, tuttavia, è stata del tutto decontestualizzata dalla difesa, considerato che essa, se portata alle estreme conseguenze, condurrebbe ad affermare la possibilità di svolgere una istruttoria amplissima, con l'unico limite della sua necessità - intesa in termini di "decisività" - al fine di integrare il materiale raccolto in sede di indagini preliminari, con la conseguente alterazione del sinallagma processuale necessariamente esistente tra il vantaggio dell'imputato alla riduzione della pena e l'interesse pubblico al soddisfacimento delle esigenze di celerità proprie del rito; rapporto di corrispettività che, già fortemente ricalibrato con l'introduzione dell'abbreviato condizionato, non può, tuttavia, essere del tutto obliterato (cfr. Sez. 3, n. 28141 del 17/05/2012, dep. 13/07/2012, De Angelis, Rv. 253163, secondo cui è legittimo il diniego di accesso al rito abbreviato condizionato all'esame di un numero talmente elevato di testimoni da rendere il rito speciale incompatibile con le esigenze di economia processuale ed addirittura "diseconomico" rispetto alla durata ragionevolmente prevedibile del giudizio celebrato nelle forme ordinarie).

2.2. Le considerazioni che precedono si attagliano, in parte, anche all'ulteriore deduzione difensiva sviluppata nel primo motivo: ovvero la violazione del diritto di difesa dell'imputato sotto il profilo del diritto alla controprova, garantito alle parti dall'art. 495 c.p.p., comma 2.

Nel caso di specie, infatti, da quello che emerge dalla sintetica esposizione contenuta nel ricorso, il difensore di fiducia non era comparso alla prima udienza dibattimentale, destinata alla formalizzazione delle richieste di prova, che conseguentemente erano state presentate dalla sola Parte pubblica. Successivamente, nel corso del dibattimento, la difesa aveva presentato, per la prima volta in tale fase processuale, la richiesta di escutere, a prova contraria, due dei quattro testi cui si riferiva l'originaria richiesta di ammissione del giudizio abbreviato condizionato.

E', dunque, evidente l'infondatezza della questione posta dal ricorrente, il quale richiama, a supporto della tesi difensiva, una serie di precedenti giurisprudenziali che, tuttavia, non sono pertinenti.

Tali pronunce, infatti, attengono al caso, affatto diverso, in cui non sia stato osservato il termine previsto dall'art. 468 c.p.p., comma 1, per il deposito della lista testimoniale; termine che, secondo l'orientamento consolidato di questa Corte, vale soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria, atteso che, diversamente opinando, il diritto alla controprova, che costituisce un aspetto fondamentale del più generale diritto di difesa, risulterebbe vanificato (Sez 3, n. 15368 del 22/04/2010; Sez. 5, n. 9606 del 3/11/2011; Sez. 5, n. 2815 del 12/11/2013).

Viceversa, nell'ipotesi che occupa, l'intempestività non concerne, come detto, il deposito della lista testimoniale, quanto piuttosto, secondo la prospettazione dello stesso ricorso, la formulazione delle istanze istruttorie, la quale non era stata compiuta nella relativa fase processuale: quella degli atti introduttivi del dibattimento.

Infatti, il dibattimento si articola attraverso un regime di piena discovery tra le parti: ciò che, in linea di principio, esclude la possibilità di prove c.d. a sorpresa e presuppone che sia il diritto alla prova che il diritto alla controprova siano esercitati nell'ambito del sub-procedimento ammissivo delle prove, diretto e controllato dal giudice decidente ai sensi dell'art. 495 c.p.p..

Inoltre, la prova a discarico non è ad oggetto libero, ma si caratterizza per la sua specifica correlazione critico-funzionale con la prova "a carico", sicchè la parte che esercita il diritto alla controprova deve necessariamente indicare il tema o i temi di prova che si intendano contrastare, secondo quanto emerge dal testo dello stesso art. 495 c.p.p., allorchè riconnette l'esercizio del diritto alle prove a discarico agli specifici "fatti oggetto delle prove a carico".

In questa prospettiva, una volta ammesso che il diritto alla controprova deve essere esercitato non oltre la fase degli atti introduttivi del dibattimento e deve porsi in specifica correlazione critico-funzionale con la prova dedotta dalla controparte (così Sez. 6, n. 18755 del 16/04/2008, dep. 8/05/2008, Bacarelli, Rv. 239979), deve tuttavia osservarsi che, nella specie, non soltanto l'esercizio del diritto è stato intempestivo, ma anche che la censura formulata dal ricorrente è del tutto generica, non avendo l'impugnazione esplicitato in relazione a quali argomenti di prova a carico fosse stato sollecitato l'esercizio della prova a discarico.

Pertanto, anche la seconda doglianza deve ritenersi inammissibile in quanto manifestamente infondata.

3. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che il materiale di risulta meglio descritto nel capo di imputazione (e riportato nel p.1 della parte del "ritenuto in fatto") debba essere ricondotto alla nozione di "sottoprodotto" e non di "rifiuto"; e, sotto altro profilo, che il deposito di esso non integrerebbe un'ipotesi di smaltimento ai sensi del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183 mancando l'intenzione di sottrarlo definitivamente al circuito economico e/o di raccolta.

3.1. Quanto alla prima questione, giova rilevare che secondo la previsione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, comma 1, lett. a), per "rifiuto" deve intendersi qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi.

Nel caso, qui in rilievo, degli scarti di produzione è, tuttavia, possibile che gli stessi rientrino nella nozione di "sottoprodotto", contemplata dall'art. 184-bis suddetto decreto, il quale richiede che: a) la sostanza o l'oggetto siano originati da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto; b) sia certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l'oggetto possa essere utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l'ulteriore utilizzo sia legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfi, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porti a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana (in argomento v., tra le tante, Sez. 3, n. 5442 del 15/12/2016, dep. 6/02/2017, P.M. in proc. Zantonello, in motivazione; Sez. F, n. 34284 del 28/07/2015, dep. 6/08/2015, Salciarini, in motivazione; Sez. 3, n. 33028 del 1/07/2015, dep. 28/07/2015, Giulivi, in motivazione; Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, dep. 08/07/2015, in motivazione; Sez. 3, n. 7899 del 2/10/2014, dep. 23/02/2015, Gentile, Rv. 262748).

In particolare, nel caso dei residui della lavorazione del marmo, la giurisprudenza di questa Corte ne ha costantemente affermato la natura di rifiuto (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 28734 del 7/06/2011, dep. 19/07/2011, D'Offizi, Rv. 250620; Sez. 3, n. 48037 del 16/10/2008, dep. 23/12/2008, Prati, Rv. 241769; Sez. 3, n. 44295 del 7/11/2007, dep. 28/11/2007, P.G. in proc. Pellegrino, Rv. 238077). Tale qualificazione può essere superata soltanto qualora l'interessato fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione del regime giuridico più favorevole relativo al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, dep. 17/04/2015, Fortunato, Rv. 263336; Sez. 3, n. 3202 del 2/10/2014, dep. 23/01/2015, Giaccari, Rv. 262129). Dimostrazione che, nel caso di specie, l'imputato non ha, in alcun modo, offerto, non essendo stata fornita la prova della destinazione del materiale ad una specifica attività di recupero.

3.2. Quanto alla seconda questione, il giudice ha specificamente puntualizzato, con apprezzamento fattuale immune da censure di tipo logico, come il deposito dei materiali in esame non potesse considerarsi funzionale alla successiva nuova immissione nel circuito economico e/o di raccolta, avuto riguardo alle peculiari caratteristiche dei residui e della loro collocazione, alla rinfusa, nell'area di proprietà dell'imputato, all'interno di cumuli costituiti da oggetti molto diversi, con la presenza, tra essi, di vegetazione spontanea.

4. Il terzo e il quarto motivo debbono essere trattati congiuntamente, attesa l'evidente connessione logica tra le questioni in essi evocate. Nella sostanza, il ricorrente si duole che la condanna sia stata affermata in maniera apodittica, attraverso un generico rinvio al materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio dibattimentale, senza confrontarsi con le deduzioni difensive.

Sul punto, osserva il Collegio che il giudice di prime cure ha sottolineato come nel corso dell'istruttoria fosse emerso che in loc. Battinelle, all'interno di un fondo di proprietà dell'imputato, era stato rinvenuto un deposito di residui di lavorazione di marmo, unitamente a barattoli di metallo e a pezzi di plastica, distribuiti in due distinti cumuli, per un totale di circa 30 tonnellate di materiale. In considerazione della qualifica soggettiva dell'imputato, proprietario del terreno su cui erano stati rinvenuti i residui ed avuto riguardo alla particolare natura del materiale, chiaramente derivante, sia pure in parte, dal processo di produzione relativo alla lavorazione del marmo, a sua volta costituente oggetto dell'impresa di cui lo stesso C. era titolare, il Tribunale di Benevento ha ritenuto che l'accumulazione dei predetti residui fosse imputabile all'odierno ricorrente. Quindi, il primo giudice ha motivatamente escluso la possibilità di qualificare detto materiale come "sottoprodotto", atteso che, come più sopra affermato, l'imputato non aveva fornito adeguata dimostrazione della destinazione dei residui di lavorazione ad una specifica attività di recupero, tanto più che gli stessi erano frammisti a materiale di diversa natura (barattoli di metallo, residui in plastica, scarti di lavorazione della pietra), lasciati in un'area nella quale si era sviluppata, tra gli stessi, una vegetazione spontanea; ciò che pertanto consentiva, ragionevolmente, di escludere la configurabilità di un deposito temporaneo, finalizzato, appunto, al successivo recupero (v. supra p. 3).

A fronte di un apparato argomentativo sufficientemente determinato, che sebbene non particolarmente articolato, ha comunque indicato i concreti elementi di fatto e la cornice normativa di riferimento, le censure difensive si limitano ad affermare l'asserita carenza motivazionale, lamentando l'omessa considerazione delle tesi difensive, senza peraltro riportarle e, in questo modo, impedendo ogni possibilità di vaglio critico delle relative censure, connotate da un insuperabile deficit di specificità.

Ne consegue inammissibilità del terzo e del quarto motivo di impugnazione.

5. Infondata è, altresì, la censura relativa al quinto motivo di ricorso, relativo alla dosimetria della pena e al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche previste dall'art. 62-bis c.p..

5.1. In relazione al primo profilo, concernente l'asserita eccessività della pena, occorre ricordare che in sede di concreta determinazione della pena entro la cornice edittale prevista dalla norma incriminatrice, il giudice esercita, alla stregua di una valutazione globale degli indici di commisurazione di cui all'art. 133 c.p., un ampio potere discrezionale; e che esso si sottrae, in quanto riconducibile ad apprezzamento di merito, a qualunque sindacato da parte del giudice di legittimità.

Quanto agli standard motivazionali che il giudice di merito è tenuto ad osservare nell'ambito di tale apprezzamento, questa Corte ha avuto modo di porre in luce che l'irrogazione di una pena base in misura pari o superiore alla media edittale richiede una specifica indicazione dei criteri soggettivi ed oggettivi elencati dall'art. 133 c.p., valutati ed apprezzati tenendo conto della funzione rieducativa, retributiva e preventiva della pena (Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, dep. 4/03/2013, Monterosso, Rv. 255153); laddove, al contrario, tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia "medio bassa" rispetto al regime edittale della pena non è neppure necessaria una specifica motivazione (Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, dep. 26/10/2004, Nuciforo, Rv. 230278). Fermo restando che, in tali casi, è comunque sufficiente "il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all'art. 133 c.p." (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, dep. 23/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), ovvero l'utilizzo di espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, n. 36245 del 26/06/2009, dep. 18/09/2009, Denaro, Rv. 245596).

Nel caso di specie, la sentenza di primo grado ha sottolineato come la pena base dovesse ritenersi congruamente determinata, in quanto "conforme a giustizia", alla stregua dei parametri fissati dall'art. 133 c.p., in misura pari a 6.000 Euro di ammenda e, dunque, in una fascia medio-bassa rispetto alla cornice edittale prevista dall'art. 256, comma 1, lett. a), che contempla la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o dell'ammenda da 2.600 Euro a 26.000 Euro. Ciò che, conseguentemente, impone la reiezione della censura formulata, sul punto, in sede di ricorso, avendo la Corte territoriale adeguatamente motivato la scelta discrezionale in relazione al quantum della pena irrogata.

5.2. Quanto al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, rileva il Collegio che la relativa doglianza, risolvendosi nell'apodittica affermazione secondo cui le attenuanti generiche avrebbero dovuto essere concesse per la chiara sussistenza dei relativi presupposti e, dunque, non formulando alcuna specifica censura sul contenuto del provvedimento, appare connotata da una assoluta genericità. Ne consegue, conclusivamente, l'inammissibilità del quinto motivo di impugnazione.

6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2017.