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Cass. Sez. III sent.22511 del 15 giugno 2005 (P.U. 27 apr. 2005)
Pres. Papadia Est. Vitalone Ric. Venticinque

Rifiuti

Materiali provenienti da demolizione edilizia ed inapplicabilità della previsione derogativa di cui all'articolo 14 D.L.138-2002

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Sentenza

Angelo Venticinque è stato tratto a giudizio del Tribunale dì Pistoia per rispondere del reato di cui all’art. 51 co. 1 lett. A) del d.lgs. 22/97 per avere effettuato - quale socio della "Quarrata scavi di Venticinque e C.", società in nome collettivo - attività di gestione di rifiuti non pericolosi (smaltimento finale e/o recupero di rifiuti inerti), per la quale non era stata richiesta ed ottenuta la prescritta autorizzazione provinciale o inviata la necessaria comunicazione. Fatto accertato in Quarrata il 21 febbraio 2001.

Con sentenza del 26 giugno 2004, riconosciuto colpevole del reato ascrittogli, il Venticinque è stato condannato alle pene ritenute di legge.

La premessa fattuale dell'addebito mosso al giudicabile - alla stregua di quanto emerge dall'impugnata sentenza - è negli accertamenti compiuti il 21 gennaio 2001 da personale del CFS di Pistoia in via Ceccarelli nel comune di Quarrata ove, ai margini della strada, veniva constatato il deposito di materiale di risulta edile, composto da lastre di cemento, terra, pietra e calcinacci per una superficie di c.ca 36 mq. ed una profondità di circa cm. 80. Il personale operante, all'atto dell'intervento, notava un mezzo meccanico che stava provvedendo a spianare il materiale che proveniva - alla stregua delle indagini immediatamente svolte - da lavori di demolizione in corso in altra area comunale, la c.d. "ex Lenzi", ove operava la ditta Quarrata-scavi, alla quale erano affidati contestualmente i lavori di via Ceccarelli.

Sulla base della testimonianza resa in dibattimento da Roberto Giardi, conducente del mezzo meccanico notato dal CFS in occasione del sopralluogo del 21 gennaio 2001, il Tribunale ha ritenuto acquisita "la prova del collegamento certo tra la ditta Quarrata-scavi, il cantiere di via Ceccarelli e l'area ex Lenzi" ed ha affermato la penale responsabilità del Venticinque, uno dei due comproprietari della "Quarrata-scavi", escludendo quella di Rosa Fumo, altra comproprietaria, ritenuta sostanzialmente estranea all'attività societaria.

Il giudice in particolare, sulla premessa che il materiale di risulta, utilizzato nel cantiere di via Ceccarelli per la realizzazione di una strada, fosse proprio quello proveniente dalle demolizioni edili in corso nell'area ex Lenzi, ha identificato nel fatto la materialità di un'attività di gestione di rifiuti non pericolosi (smaltimento finale e/o recupero di inerti) per la quale non era stata richiesta ed ottenuta la prescritta autorizzazione e/o inviata la preventiva comunicazione alla Provincia di Pistoia.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso l'imputato, articolando tre mezzi di annullamento.

1) Inosservanza dell'art. 6 comma 1 lett. a) D.L.vo 22/97 come interpretato in via autentica dall'art. 14 del D.L. 8 luglio 2002 n. 138 (convertito in l. 8 agosto 2002 n. 178), nonché dell'art. 192 c.p.p. e conseguente erronea applicazione dell'art. 51 comma 1 D.L.vo 22/97 c.p.p.; manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato [art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e) c.p.p.].

Il Tribunale, ad avviso del ricorrente, ha ingiustamente disatteso la questione inerente la depenalizzazione delle condotte di riutilizzo dei rifiuti provenienti dallo stesso ciclo produttivo, conseguente alla novità introdotta con l'art. 14 del d.lgs. n. 138/2002, pur dopo un'attenta rassegna delle più importanti pronunce della Corte di Giustizia delle Comunità europee sulla materia. L'errore valutativo nel quale il giudice sarebbe incorso si situa all'esito di una complessa operazione esegetica, che pure ha correttamente ricostruito il quadro normativo, senza trascurare l'esistenza di orientamenti interpretativi di diverso segno sulla nozione di rifiuto: alcuni di tipo estensivo, altri più recenti di carattere decisamente restrittivo. Nel richiamare alcune pronunce della Corte di giustizia - prosegue il Vencinque - il Tribunale ha sottolineato come l'accertamento dell'esistenza di un rifiuto deve essere effettuato caso per caso, sulla scorta di tutte le circostanze del fatto ed alla luce della definizione di cui alla direttiva 75/442, tenendo conto delle finalità della direttiva stessa in modo da non pregiudicarne l'efficacia. Ed ha altresì ricordato che - secondo la giurisprudenza comunitaria - dalla categoria dei rifiuti devono essere esclusi quei sottoprodotti che l'impresa "intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari".

Il Giudice - puntualizza ancora il ricorrente - ha poi ricostruito l'attuale assetto della legislazione interna alla luce dell'interpretazione autentica che l'art. 14 del D.L. n. 138/2002, convertito nella legge 8 agosto 2002 n. 178, ha offerto dell'art. 6 comma 1 lettera a) del D.L.vo 22/97, ma ha trascurato di considerare che, proprio sulla base di detta interpretazione autentica, al caso di specie non era più applicabile la disciplina vigente in materia di rifiuti, posto che i materiali inerti prodotti dalla Ditta Venticinque erano stati dalla stessa riutilizzati tal quali nell'ambito dello stesso ciclo produttivo. A tale conclusione doveva invece pervenirsi, considerando che secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, la nuova definizione di rifiuto, pur modificando quella dettata dall'art. 1 della Direttiva 91/156/CEE, era vincolante per il giudice nazionale. Tale direttiva, infatti, non è autoapplicativa né in materia può farsi ricorso all'art. 234 del Trattato dell'Unione Europea, onde richiedere alla Corte di Giustizia una interpretazione pregiudiziale, che può solo riferirsi al Trattato o agli atti delle istituzioni della Comunità, ma non agli atti del legislatore nazionale (Cass. Pen., Sez. III, sentenza 29 gennaio 2003, n. 4052, Passerotti; Cass. Pen. Sez. III, sentenza 29 gennaio 2003, n. 4051, Ronco).

Il Tribunale invece - censura il ricorrente - pur senza prendere espressamente posizione al riguardo, ha dato conto dell'esistenza di altro orientamento giurisprudenziale, secondo il quale si deve dare applicazione immediata ai principi fissati dai Regolamenti comunitari e dalle sentenze della Corte Europea di Giustizia. Queste ultime, in particolare, sono immediatamente e direttamente applicabili in sede nazionale, allorché l'esegesi del diritto comunitario sia incontrovertibile e la normativa nazionale ne appaia in contrasto, sussistendo l'obbligo di non applicare le disposizioni nazionali avversate da quelle comunitarie provenienti da tali fonti (Cass. pen. Sez. III, sentenza 15 aprile 2003, n. 17656, Gonzales ed altro). Sennonché - osserva ancora il ricorrente - non sussiste sull'argomento in esame una situazione di incontrovertibilità esegetica del diritto comunitario, dal momento che, come rilevato dallo stesso decidente, esistono due diversi orientamenti giurisprudenziali comunitari. Di talché, il richiamo alla sentenza n. 17656/03 della Sez. III della Corte di Cassazione risulta assolutamente fuorviante.

Al di là di queste considerazioni - precisa ancora il Venticinque - va considerato che il Tribunale è pervenuto al giudizio di responsabilità sulla base di una precisazione contenuta proprio nella sentenza della Corte di Giustizia 18 aprile 2002 (causa Palin Granit), che la difesa aveva richiamato a sostegno della tesi assolutoria. La vistosa contraddizione logica, emergerebbe in modo incontrovertibile dallo stesso testo del provvedimento impugnato. Il Giudice infatti, dopo aver premesso che, ai fini dell'applicazione della nuova disposizione normativa - secondo la giurisprudenza comunitaria - "occorre pur sempre la prova della effettiva destinazione al "riutilizzo "del rifiuto di cui vi è l'obbligo giuridico di disfarsi", ha affermato che la prova dell'effettiva destinazione al riutilizzo non era stata fornita dalla difesa, mentre era provato che "il giorno dell'accertamento ... vi era sul suolo solo un accumulo di rifiuti ... costituiti da materiali di scavo misti a lastroni dì cemento che venivano sottoposti ad operazioni di trasformazione preliminare (depezzamento e frantumazione". In tal modo il Giudice ha mostrato di ritenere che le operazioni di recupero debbono essere eseguite immediatamente, trascurando di considerare che, nella fattispecie concreta, il reinterro doveva essere preceduto necessariamente da altre operazioni (accumulo temporaneo, frantumazione, distribuzione), funzionali alla corretta esecuzione del lavoro richiesto. In sostanza - conclude sul punto il ricorrente - il materiale era effettivamente destinato al reinterro ed il reinterro è stato effettuato, come la stessa sentenza riconosce. Che tale operazione sia avvenuta il giorno stesso dell'accertamento o quello successivo sarebbe irrilevante ai fini della dimostrazione dell'effettiva destinazione al riutilizzo.

2) Inosservanza del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza e conseguente nullità di quest'ultima, ai sensi dell'art. 522 c.p.p..

Il Tribunale ha fondato il giudizio di colpevolezza, ritenendo inesistente la prova dell'effettiva destinazione al riutilizzo del materiale rinvenuto presso l'area di via Ceccarelli. Ma in tale conclusione è implicita l'insussistenza dell'attività di recupero per la quale l'imputato è stato tratto a giudizio. Doveva conseguentemente essere esclusa qualunque responsabilità connessa all'esercizio dell'attività medesima. Al contrario, nell'impugnata sentenza, con palese violazione del principio di correlazione si afferma testualmente: "l'imputato deve essere chiamato a rispondere del reato ascritto, sussistendo in capo allo stesso ex lege l'obbligo giuridico di ottenere l'autorizzazione all'attività di gestione dei rifiuti e la responsabilità per lo scarico e deposito incontrollato dei materiali di risulta edile sul piazzale in questione ". E cioè - a fronte di una contestazione riferita ad un'attività di recupero effettuata senza la prescritta autorizzazione - il Giudice ha ravvisato la responsabilità dell'imputato nello scarico e nel deposito incontrollato del materiale di risulta edile, ovvero in un fatto diverso da quello descritto nel decreto di citazione a giudizio. Ne è scaturita una grave compromissione delle facoltà difensive, prima fra tutte quella di dimostrare che il contestato deposito aveva carattere temporaneo e, come tale, non era soggetto ad autorizzazione. Vi è stata dunque una palese violazione del principio fissato dall'art. 521 c.p.p., posto che il reato previsto dall'art. 51 comma 2 D.Lgs. 22/97, in relazione all'art. 14, presuppone un'attività diversa dalla violazione del comma 1 della medesima norma, in relazione agli artt. 27, 28 e 33, che è stata contestata al giudicabile.

3) Erronea applicazione dell'art. 43 in relazione all'art. 5 c.p..

La puntuale ricostruzione del complesso quadro della giurisprudenza comunitaria, della normativa nazionale e dei rapporti fra le stesse, evidenziando gli aspetti controversi e la non univocità delle posizioni interpretative sulla nozione di rifiuto - ad avviso del ricorrente - avrebbe dovuto indurre il Tribunale ad esaminare con particolare rigore la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, tenuto conto della personalità dell'imputato, legale rappresentante di una impresa edile e come tale certamente sprovvisto della capacità giuridica necessaria ad orientarsi in un panorama normativo così complesso e reso di lettura ancor più ardua proprio dalla legge di interpretazione autentica. La stessa circolare del Ministro dell'Ambiente n° 3402 del 28 giugno 1999, recante "chiarimenti interpretativi in materia di definizione di rifiuto", e la stessa deliberazione della Regione Toscana n° 1447 del 23 novembre 1998 sulla materia, nel confortare la tesi contraria all'interpretazione estensiva della nozione di rifiuto poi omologata nel cit. art. 14, hanno rappresentato elementi idonei ad indurre l'agente in errore scusabile, nei sensi suggeriti dalla migliore giurisprudenza di legittimità, a far data dalla "storica" sentenza del 24 marzo 1988 n° 364 della Corte Costituzionale.

Era pertanto doveroso attendersi che il Giudice, pur non condividendo la linea interpretativa indicata dai difensori, giungesse ad escludere la responsabilità del Venticinque per mancanza di colpa, considerando che, in materia contravvenzionale, la buona fede del trasgressore diventa rilevante quando si risolve - in presenza ed a causa di un elemento positivo estraneo all'agente, in uno stato soggettivo tale da escludere la colpa.

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Sul fondamento delle ragioni sollevate con il primo motivo di gravame, va preliminarmente osservato che le questioni ivi dedotte sono state più volte esaminate e risolte da questa Corte con giurisprudenza, che registra ormai da tempo orientamenti sostanzialmente uniformi (per un'organica ricostruzione esegetica del quadro normativo, anche comunitario, v. Cass. pen. sez. III, 4 marzo 2005, ric. Maretti + 1 e - appena più risalente - Cass. pen. sez. III, 15 gennaio 2003, ric. Gonzales + 1).

Con riferimento al tema specifico dell'odierna regiudicanda, questa Corte ha più volte affermato che i materiali provenienti da demolizione edilizia sono rifiuti speciali non pericolosi e possono essere riutilizzati nello stesso od in diverso ciclo produttivo - ad esempio nelle opere di riempimento - previo preventivo "test di cessione" degli stessi, in conformità al D.M. 5 febbraio 1998, in modo da non recare pregiudizio all'ambiente. In assenza del menzionato test, ogni recupero dei materiali cosiddetti di risulta integra la contravvenzione di cui all'art. 51 , comma primo, lett. a ) del D.Lgs. n. 22 del 1997 (ex multis: Cass. pen. sez. III 27 maggio 2004, ric. Piacentino, rv 229467).

In punto di fatto, dall'impugnata sentenza emerge che il giudizio di responsabilità è stato ancorato ad un preciso e congruo accertamento della condotta in contestazione ed all'esito di una ricognizione attenta e diffusa dei principi interpretativi che disciplinano la materia, effettuata in maniera del tutto adesiva agli insegnamenti di questo Supremo Collegio. Ed invero, a conclusione di una puntuale ricostruzione del quadro normativo, il Tribunale ha osservato che l'accoglimento della tesi difensiva presupponeva pur sempre la prova dell'effettiva destinazione al riutilizzo del rifiuto di cui vi è obbligo giuridico di disfarsi. Tale prova però era del tutto mancata, mentre dalle risultanze dibattimentali era emerso che - il giorno dell'accertamento - il materiale da demolizione edile era stato scaricato al suolo, con accumulo di detriti di scavo, misti a lastroni di cemento, che venivano sottoposti ad operazioni di trasformazione preliminare (depezzamento e frantumazione) dall'addetto alla macchina operatrice onde renderli utilizzabili per la realizzazione di un piano viabile destinato ai mezzi di cantiere.

Alla stregua di tale accertamento sulla materialità dei fatti ascritti al giudicabile, era doveroso inferirne la sussistenza della contravvenzione in epigrafe, tenuto conto in particolare che il materiale impiegato nell'operazione di via Ceccarelli era del tutto eterogeneo e non aveva caratteristiche tali da consentirne l'immediata riutilizzazione senza preventivo trattamento. Si trattava, dunque, di un'operazione idonea a creare un effettivo pericolo per l'ambiente, insuscettibile di essere ricondotta alla previsione derogativa introdotta dall'art. 14 del D.L. 138/2002, convertito nella L. 178/2002, sull’interpretazione autentica della nozione di rifiuto. Senza neppure trascurare - in ordine alla portata applicativa di quest'ultima norma - l'intervento della Corte europea di giustizia (causa n. C-457/02, Niselli), che ha sottolineato come la definizione comunitaria di rifiuto non possa essere interpretata secondo i criteri dettati dalla nostra normativa nazionale (sul punto, v. anche Cass. pen. sez. III, 22 febbraio 2005, ric. Corti).

Manifestamente infondato - e dunque inammissibile - è il secondo motivo dì gravame, con il quale si prospetta la violazione dell'art. 521 c.p.p., con conseguente compromissione dell'esercizio delle facoltà difensive, per avere il giudice ritenuto la responsabilità dell'imputato nello scarico e nel deposito incontrollato del materiale di risulta edile, che sarebbe fatto diverso da quello descritto nel decreto di citazione a giudizio.

Al riguardo è sufficiente osservare che la violazione del principio di correlazione suppone una radicale trasformazione del fatto nei suoi elementi essenziali, sì da determinare incertezza sull'oggetto dell'imputazione e pregiudizio effettivo al diritto di difesa. Di talché l'accertamento di tale violazione non deve esaurirsi nel mero raffronto tra contestazione e sentenza, ma deve incidere sulla verifica dell'effettiva lesione della garanzia difensiva.. Nella specie tale lesione deve ritenersi del tutto insussistente dal momento che non vi è stato alcun mutamento dei termini essenziali del fatto originariamente contestato, sul quale il prevenuto è stato bene in condizione di articolare - ed ha concretamente articolato - ogni più ampia attività difensiva, ma semmai una specifica valorizzazione - all'interno dell'addebito primitivo - del tipo comportamentale ritenuto penalmente più significativo. Non ha alcun pregio il terzo motivo di censura relativo ad asserita mancanza di colpa dell'agente, persona di modesta cultura, incapace di orientarsi in un panorama normativo così variegato e complesso.

Sul punto va rilevato che, in materia contravvenzionale, nel vigente sistema penale che ha accolto una concezione naturalistica dell'elemento soggettivo del reato, non si esige né la coscienza dell'antigiuridicità della condotta né l'intenzione dì violare la legge penale, essendo sufficiente la colpa. La buona fede acquista giuridica rilevanza solo se si traduca, a causa di un elemento estraneo all'agente, in uno stato soggettivo tale da escludere la colpa stessa, mentre non è sufficiente un eventuale errore dipeso da ignoranza, concetto nel quale rientra anche l'erronea interpretazione, della legge penale, che non scusa ai sensi dell'art. 5 c.p.. Tale regola costituisce coerente seguito del principio affermato con la sentenza richiamata dal ricorrente (C. Cost. sent. n° 0364 del 23/03/1988 24/03/1988). Con tale sentenza il Giudice delle Leggi ha chiarito che, al fine di qualificare l'ignoranza della legge penale (o l'errore sul divieto) come inevitabile, occorre far riferimento a criteri oggettivi, ed. "puri" o "misti" (obiettiva oscurità del testo, gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, "assicurazioni erronee"), tenendo conto di quelle particolari condizioni e conoscenze del singolo soggetto, tali da rendere l'ignoranza ìnescusabile, pur in presenza di un generalizzato errore sul divieto. Ne consegue che non può ravvisarsi ignoranza inevitabile allorché l'agente si rappresenti la possibilità che il fatto sia antigiuridico, salva l'ipotesi di dubbio oggettivamente irrisolvibile (attinente, cioè, alla necessità di agire o non agire per evitare la sanzione). Deve, invece, di regola ritenersi che l'ignoranza sia inevitabile allorché l'assenza di dubbi sull'illiceità del fatto dipenda dalla personale non colpevole carenza di socializzazione del soggetto: circostanza questa - nella specie - neppure allegata dal ricorrente, non potendosi ad essa assimilare l'asserita mancanza di "capacità giuridica necessaria ad orientarsi nelle complessità del panorama normativo in soggetto che rivestiva soltanto la qualità di "legale rappresentante dì un'impresa edile", Per quanto precede il ricorso deve essere rigettato, con le conseguenze di legge.