TAR Piemonte, Sez. II, n. 209, del 14 febbraio 2013
Urbanistica. Calcolo distanze ex art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968
In materia di distanze legali ex art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968, costituisce "costruzione" anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché, al fine di verificare l'osservanza o meno delle distanze legali, la misura deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso. Ciò sulla scorta del più risalente insegnamento secondo il quale la normativa sulle distanze si applica anche alle opere edilizie prive di pareti o non destinate alla stabile od occasionale presenza di persone e pertanto anche ad una tettoia su pilastri, se ha i caratteri della costruzione (stabilità, consistenza ed immobilizzazione al suolo). Il principio della non derogabilità, del resto, vale vieppiù con riferimento alle distanze imposte dagli strumenti urbanistici locali le quali sono finalizzate, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00209/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00709/2008 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 709 del 2008, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
GIUSEPPE CALDI SCALCINI, ALBA CINZIA CALDI SCALCINI, MARCELLA CALDI SCALCINI, rappresentati e difesi dall'avv. Silvia Cosentino, con domicilio eletto presso Silvia Cosentino in Torino, via Virle, 10;
contro
COMUNE DI ALMESE;
nei confronti di
STEFANIA OPERTO, rappresentata e difesa dagli avv. Egidia Massia, Riccardo Ludogoroff, Maria Teresa Fanzini, con domicilio eletto presso Riccardo Ludogoroff in Torino, corso Montevecchio, 50;
per l'annullamento
a) del permesso n. 101/07 "ristrutturazione familiare" rilasciato dal Comune di Almese alla signora Stefania Operto;
b) di ogni altro atto preparatorio, presupposto, connesso o consequenziale ed in particolare, con i motivi aggiunti depositati in data 15 giugno 2012, della denuncia di inizio attività presentata il 29.02.2008 in variante al permesso di costruire, conosciuta il 09.05.2012.
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Stefania Operto;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2013 il dott. Antonino Masaracchia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con il ricorso principale i signori prof. Giuseppe Caldi Scalcini, dott.ssa Alba Cinzia Caldi Scalcini e dott.ssa Marcella Caldi Scalcini hanno impugnato il permesso di costruire n. 101/07 che il Comune di Almese (TO) ha rilasciato in favore della sig.ra Stefania Operto, loro confinante, chiedendone l’annullamento. I ricorrenti, in particolare, si dolgono dell’avvenuto assentimento edilizio di una “tettoia di cemento collegata al tetto dell’edificio principale e sorretta da pilastri di cemento armato”, originariamente da realizzarsi con materiale ligneo. Questi, in sintesi, i motivi di gravame sollevati:
- violazione dell’art. 24 delle norme tecniche di attuazione (n.t.a.) del Piano Regolatore del Comune di Almese: ciò si deduce a causa del mancato rispetto delle distanze tra le costruzioni, dalla norma prescritte in metri 10;
- violazione del citato art. 24 delle n.t.a. sotto altro profilo: nella specie non sarebbe rispettata neanche la distanza dai confini di proprietà, che la norma tecnica individua in metri 5;
- violazione del combinato disposto degli artt. 21 e 24 n.t.a.; eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto dei presupposti: tanto si deduce perché, secondo i ricorrenti, nel concetto di “ristrutturazione edilizia” di cui alle citate norme tecniche non potrebbe essere ricompresa la realizzazione del “porticato” per cui è causa.
2. Il Comune intimato, pur ritualmente chiamato, non si è costituito in giudizio.
Si è invece costituita in giudizio la controinteressata, sig.ra Stefania Operto, depositando documenti e chiedendo il rigetto del gravame, non senza averne preliminarmente eccepito l’“inammissibilità” per tardività. Si osserva, in proposito, che i ricorrenti erano già stati informati del rilascio del titolo abilitativo “con lettera raccomandata del 9 ottobre 2007”, laddove la notifica dell’atto introduttivo è avvenuta solo in data 18 aprile 2008. Si eccepisce, inoltre, la mancata impugnazione di una successiva d.i.a. in variante “concernente modifiche al progetto assentito”.
Nel merito la controinteressata riferisce che, con scrittura privata poi “trasfusa” in un atto pubblico del 6 dicembre 2000, le parti avevano costituito “una serie di servitù reciproche” per la realizzazione di autorimesse interrate lungo il confine di proprietà, contestualmente rinunciando “ad ogni risarcimento per la deroga alle distanze legali”: anche la realizzazione della “tettoia” per la quale è causa rientrerebbe – secondo la controinteressata – in tali accordi, la cui natura giuridica consisterebbe in “una servitù a favore del fondo di proprietà Operto”.
3. Successivamente, in vista della prima udienza pubblica di discussione (fissata per il giorno 20 giugno 2012) entrambe le parti hanno depositato memorie.
Con atto di motivi aggiunti, depositato il 15 giugno 2012, i ricorrenti hanno impugnato anche la dichiarazione di inizio di attività (d.i.a.) presentata dalla signora Operto in data 29 febbraio 2008 e da loro “conosciuta il 9.5.2012”, recante una variante rispetto al permesso di costruire n. 101/07, ai fini della realizzazione della struttura de qua in cemento armato anziché in legno. Nel richiamare i precedenti motivi di gravame (qui arricchiti da alcune ulteriori osservazioni, in replica alle difese della controinteressata, soprattutto con riferimento all’invocato accordo tra le parti del 2000), i ricorrenti contestano la richiamata d.i.a. sia per illegittimità derivata sia per violazione dell’art. 22, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001: ciò perché la variante prevista avrebbe “mutato le caratteristiche costruttive dell’opera”, così come assentita nel permesso di costruire, ed avrebbe pertanto “necessitato di un nuovo permesso di costruire”.
4. Anche in prossimità della seconda udienza pubblica di discussione entrambe le parti hanno depositato memorie. La controinteressata, in particolare, ha ulteriormente osservato – a proposito della distanza tra gli edifici – che nel caso di specie la distanza di metri dieci, prescritta dall’art. 9, comma 1, del d.m. n. 1444 del 1968, non potrebbe trovare applicazione perché alla parete dell’edificio Caldi Scalcini non si contrappone un’altra parete, bensì un “portico aperto” (quello, appunto, per cui è causa). In ogni caso, poi, gli organismi edilizi interessati, nella specie, non sarebbero frontistanti: tanto emergerebbe, in particolare, “da una planimetria catastale allegata al ricorso introduttivo dei ricorrenti”.
Alla pubblica udienza del 30 gennaio 2013, dopo discussione tra le parti, la causa è stata, quindi, trattenuta in decisione.
5. Vanno, anzitutto, scrutinate le eccezioni formulate dalla difesa della controinteressata.
L’eccezione di tardività non è fondata. Dalla lettera raccomandata del 9 ottobre 2007 – mediante la quale i ricorrenti erano stati avvertiti dell’inizio dei lavori di “ristrutturazione ed ampliamento del fabbricato” della signora Operto – non era affatto possibile individuare la reale portata dell’intervento preannunziato, in quanto non vi era allegata alcuna planimetria o progetto e si parlava genericamente della realizzazione di “un’autorimessa interrata e di un ‘gazebo’ soprastante lungo il confine”; anzi, veniva specificato che le opere sarebbero state eseguite in conformità con la scrittura del 6 dicembre 2000, aspetto quest’ultimo che avrebbe potuto – per così dire – tranquillizzare i destinatari della lettera circa la non invasività e/o lesività delle opere. Deve, in proposito, ricordarsi che – secondo un costante orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide –, ai fini della tempestività dell'impugnazione del titolo edilizio da parte del terzo a ciò legittimato, la piena conoscenza dalla quale decorre il termine decadenziale per la proposizione dell'impugnazione medesima va riferita al momento dell'ultimazione dei lavori, ovvero al momento nel quale la costruzione realizzata riveli in modo inequivoco le caratteristiche essenziali dell'opera agli effetti della sua eventuale difformità rispetto alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, fermo restando che la prova della tardività dell'impugnazione deve essere fornita rigorosamente e incombe, secondo le regole generali, alla parte che la deduce (cfr. di recente, ex multis, Cons. Stato, sez. IV, nn. 5657 e 6557 del 2012; TAR Toscana, sez. I, n. 1925 del 2012; TAR Piemonte, sez. II, n. 898 del 2011). Nel caso di specie, dovendosi escludere ai fini di un’effettiva conoscenza l’invocata lettera raccomandata del 9 ottobre 2007, non si ha la prova del momento esatto in cui i ricorrenti hanno conosciuto la reale portata lesiva dell’intervento edilizio, dal che discende la non accoglibilità dell’eccezione di irricevibilità formulata dalla controinteressata.
Quanto poi alla mancata impugnazione della d.i.a. in variante, si deve rilevare che quest’ultima è stata poi impugnata dai ricorrenti con i motivi aggiunti notificati il 31 maggio 2012. In proposito va osservato che – a prescindere dalla questione sulla concreta portata lesiva di tale d.i.a., concernente una variazione del materiale da usare per la realizzazione dell’opera (cemento armato anziché legno) – tale ultima impugnazione deve considerarsi senz’altro tempestiva: l’atto di d.i.a. in variante è stato, infatti, depositato in questo giudizio in data 9 maggio 2012, né si ha una prova certa della dedotta circostanza che i ricorrenti già ne avessero avuto conoscenza in un momento anteriore.
6. Nel merito, il ricorso è fondato.
L’art. 24 delle n.t.a. del Comune di Almese prescrive, tra gli edifici residenziali ubicati nella zona B (aree residenziali consolidate), il rispetto delle distanze indicate dal d.m. n. 1444 del 1968, ossia quella di metri dieci “tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti” (art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. citato). I ricorrenti invocano, con il primo motivo, il rispetto di tale distanza: come si legge nel ricorso, “la distanza tra il filo di fabbricazione della costruzione assentita con il provvedimento impugnato e il filo di fabbricazione della costruzione di proprietà dei ricorrenti è infatti ampiamente inferiore al parametro di 10 metri fissato dalla norma di piano”. Replica, in proposito, la controinteressata: a) che l’opera sarebbe coperta dall’atto di costituzione di servitù a favore della proprietà Operto recante la data del 6 dicembre 2000; b) che le distanze prescritte dal d.m. n. 1444 del 1968 non potrebbero trovare applicazione nel caso di specie, dove la parete dell’edificio di proprietà dei ricorrenti fronteggia non un’altra parete ma un “pergolato”, per sua natura “privo di pareti e, quindi, privo di quelle caratteristiche di corpo di fabbrica idoneo a costituire un volume compatto da voler distanziare”; c) che, comunque, nel caso di specie “la distanza tra l’ultimo pilastro che sorregge la tettoia contestata e l’edificio di proprietà confinante assomma a m. 11,28”; d) che, peraltro, gli edifici interessati non sarebbero frontistanti, come emergerebbe dalla planimetria catastale allegata al ricorso introduttivo.
Tutti i rilievi della controinteressata non possono trovare adesione.
Quanto al richiamo dell’atto di costituzione di servitù, deve anzitutto osservarsi che in esso (doc. n. 18 dei ricorrenti) i signori Caldi Scalcini effettivamente prestarono il loro consenso alla realizzazione di un’autorimessa parzialmente interrata nella zona di terreno posta in corrispondenza del confine est del proprio fondo, anche “a distanza inferiore a quella legale”, riconoscendo alla controparte anche la facoltà di impiantare, nella zona di terreno soprastante, “’gazebi’, pergolati e, in genere, strutture similari”; ma si specificava, però, la condizione che queste ultime dovessero essere “aperte, senza modificare l’aspetto attuale di detta zona”. Appare evidente che la realizzazione dell’opera per cui è causa, avente una struttura di cemento armato di rilevanti dimensioni, ha modificato l’aspetto attuale della zona, con ciò ponendosi al di fuori di quanto era stato concordato. Sotto altro (dirimente) aspetto, poi, non può dimenticarsi che, in tema di distanze legali nelle costruzioni, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e nei regolamenti edilizi comunali, essendo dettate, contrariamente a quelle del codice civile, a tutela dell'interesse generale al mantenimento di un prefigurato modello urbanistico, non tollerano deroghe convenzionali da parte dei privati; tali deroghe, se concordate, sono invalide, né tale invalidità può venire meno per l'avvenuto rilascio di un titolo edilizio, poiché il singolo atto non può consentire la violazione dei principi generali dettati, una volta per tutte, con gli indicati strumenti urbanistici (così Cassaz., sez. II civ., n. 9751 del 2010; e si vedano anche, analogamente, le pronunce dello stesso organo, nn. 4737 del 1987, 8260 del 1990 e 6713 del 1981).
Quanto, poi, all’argomento sub b), deve ricordarsi che, in materia di distanze legali, secondo la giurisprudenza costituisce "costruzione" anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché – al fine di verificare l'osservanza o meno delle distanze legali –la misura deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (cfr. Cassaz., sez. II civ., n. 5934 del 2011). Ciò sulla scorta del più risalente insegnamento secondo il quale la normativa sulle distanze si applica anche alle opere edilizie prive di pareti o non destinate alla stabile od occasionale presenza di persone e pertanto anche ad una tettoia su pilastri, se ha i caratteri della costruzione (stabilità, consistenza ed immobilizzazione al suolo) (così Cassaz., sez. II civ., n. 14379 del 1999; Id., n. 28784 del 2005): caratteri che senz’altro ricorrono nel caso di specie. Il principio della non derogabilità, del resto, vale vieppiù con riferimento alle distanze imposte dagli strumenti urbanistici locali le quali sono finalizzate, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali e pubblici in materia urbanistica (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4181 del 2010).
Non può poi giovare alla controinteressata l’argomento per cui, nel caso di specie, “la distanza tra l’ultimo pilastro che sorregge la tettoia contestata e l’edificio di proprietà confinante assomma a m. 11,28”: ai fini del calcolo delle distanze minime, infatti, non può prendersi in considerazione “l’ultimo pilastro”, bensì il filo di fabbricazione della costruzione, il quale è dato dal perimetro esterno delle pareti, come prescritto dall’art. 16 del Regolamento edilizio comunale (doc. n. 14 dei ricorrenti). Rispetto a tale punto deve ritenersi pacifica nel caso di specie – in assenza di contestazioni specifiche – la misurazione di una distanza inferiore al limite di dieci metri.
Con riferimento, infine, alla replica sub d), deve osservarsi che – come risulta dalla planimetria in atti – gli edifici in questione, pur non collocati in posizione parallela, hanno comunque una disposizione tale da determinare un’intercapedine tra due opposti angoli. Deve, in proposito, ricordarsi che le distanze tra edifici, anche in relazione a quanto previsto dal d.m. n. 1444 del 1968, vanno calcolate con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, prescindendo anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 7731 del 2010 e n. 6909 del 2005; TAR Piemonte, sez. II, n. 807 del 2012).
7. Il permesso di costruire impugnato deve essere, pertanto, annullato, con assorbimento degli ulteriori motivi di gravame. Ne consegue anche l’annullamento, per illegittimità derivata, della d.i.a. presentata in variante in data 29 febbraio 2008 (impugnata con i motivi aggiunti).
In considerazione della complessità della fattispecie il Collegio rinviene giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite in ragione della sola metà. Le parti soccombenti – Comune e controinteressata – vanno pertanto condannate, in solido, sia al pagamento della restante metà delle spese, da liquidarsi nella misura di euro 1.300,00 (milletrecento/00), sia (ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis.1, del d.P.R. n. 115 del 2002) alla refusione del contributo unificato versato complessivamente dai ricorrenti (in sede di ricorso introduttivo e di motivi aggiunti).
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione seconda, definitivamente pronunciando,
Accoglie il ricorso in epigrafe, insieme ai relativi motivi aggiunti, e, per l’effetto, annulla tutti gli atti impugnati.
Compensa tra le parti le spese di giudizio in ragione della loro metà.
Condanna il Comune di Almese e la controinteressata, in solido tra loro, al pagamento della restante metà delle spese, liquidata in euro 1.300,00 (milletrecento/00), oltre accessori di legge, ed oltre alla refusione del contributo unificato complessivamente versato dai ricorrenti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Torino nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Vincenzo Salamone, Presidente
Ofelia Fratamico, Referendario
Antonino Masaracchia, Referendario, Estensore
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 14/02/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)