Tribunale di Tivoli sent.458 del 7 novembre 2006
Est. Bucca Imp.Ciucci
Urbanistica. Edificazione di fabbricato in posizione differente
rispetto a quella prevista nel progetto
MOTIVAZIONE
L’impianto accusatorio, sottoposto alla verifica
dibattimentale,
si è rivelato fondato, sia pure nei limiti di cui oltre.
E’ bene ripercorrere la tappe salienti della vicenda che oggi
occupa.
Il 29 novembre 2002 con concessione edilizia n 5028 il Comune di
Palombara Sabina autorizzò Ciucci Marisa ad edificare sul
fondo
sito in Palombara Sabina, loc. Castiglione, distinto in catasto al fg.
32 p.lla 290, ricadente in area tutelata dal vincolo paesaggistico
ambientale e dal vincolo idrogeologico nonché soggetta alla
disciplina antisismica, un edificio da adibire ad abitazione.
Con atto pubblico stipulato il 12 aprile 2003 Ciucci Marisa
donò
ai figli Gomelino Maurizio e Gomelino Graziella la “porzione
immobiliare sita in Comune di Palombara Sabina, località
Castiglione” censita nel NCT al fg. 32 p.lla 290.
Il 10 luglio 2003 il Responsabile del Servizio Urbanistica del Comune
di Palombara Sabina volturò la concessione edilizia 5028 a
favore dei germani Maurizio e Graziella Gomelino.
Il 14 dicembre 2003 Gomelino Maurizio e Gomelino Graziella presentarono
al Comune di Palombara Sabina una denunzia di inizio
attività
“per le varianti non essenziali apportate e da
apportare”
al fabbricato in corso di edificazione sulla p.lla 290. Dalla relazione
asseverata allegata alla denuncia si evince che le
difformità
oggetto della comunicazione riguardavano, fra l’altro,
“ e)
la realizzazione di un intercapedine nella parte retrostante
dell’edificio, resasi necessaria in corso d’opera a
causa
di infiltrazioni rilevante sul fronte dello sbancamento…; f)
la
traslazione di ml. 4,00 della sagoma a terra del fabbricato;”.
Il 7 gennaio 2004 il GIP dispose il sequestro preventivo del
“fabbricato in corso di realizzazione in Palombara Sabina,
loc.
Castiglione, f. 32 part. 290”.
Il 9 settembre 2004 il Capo Area Tecnica del Comune di
Palombara,
arch. Pasqui Egidio, rilasciò il nulla osta paesaggistico in
relazione alle varianti dedotte nella dia di cui innanzi. Il 15
settembre 2004 pervenne alla Soprintendenza per i beni architettonici e
per il paesaggio e per il patrimonio storico, artistico e
demoetnoantropologico per il Lazio il nulla osta emesso
dall’ente
territoriale e la documentazione ad esso relativa. Il successivo 16
novembre la predetta Soprintendenza annullò il parere
favorevole
rilasciato dall’ente territoriale. Il 6 giugno 2005 il TAR
Lazio,
accogliendo il ricorso proposto dai germani Gomelino annullò
il
decreto della Soprintendenza ritenendolo tardivo in quanto adottato
dopo che era giunto a compimento il termine di cui al c. III
dell’art. 159 d.lgs. 42/04 ( cfr. provvedimenti e sentenza
TAR
Lazio inserite nella produzione documentale dell.avv.to Venturiello).
Tanto illustrato va subito chiarito che i rilievi mossi
dall’ufficio del PM all’attività
edificatoria
interrotta dal provvedimento di sequestro afferiscono al differente
posizionamento e alla maggior consistenza rispetto
all’assentito
del manufatto ma prima ancora alla stessa legittimità del
titolo
abilitativo. Assume l’accusa che
l’edificio in
costruzione sviluppa “una volumetria in eccesso di mc. 300,00
rispetto alla superficie fondiaria e con uno sbancamento del piano
interrato con cubatura pari a mc. 285,6”. La censura relativa
al
diverso posizionamento del fabbricato è invece incentrata
sulla
distanza del fabbricato rispetto al “confine della particella
291”. L’ipotesi accusatoria prospetta infatti che
il
fabbricato è stato edificato in una posizione differente
rispetto a quella prevista nel progetto assentito ed ancora che per
effetto dell’intervenuta traslazione il manufatto
è ora
situato ad una distanza minima dalla confinante p.lla 291 del fg. 32 di
quattro metri, distanza inferiore a quella prescritta nelle NTA
dell’ente territoriale.
Posto che la prospettazione accusatoria fa sostanzialmente proprie le
conclusioni cui è pervenuto il perito nominato dal Gip con
provvedimento del 22 ottobre 2003, è opportuno
riprodurre
i passaggi salienti della relazione redatta dall’ing. Alberto
Giorgi. Recita l’elaborato : “L’immobile
in
costruzione presenta misure di pianta conformi a quelle del progetto
approvato con la riduzione dello spessore del corpo
principale di
cm. 35 rispetto al progetto. Per quanto riguarda l’altezza si
fa
presente che i solai intermedi presentano uno spessore superiore a
quello di progetto, per cui la linea di colmo del tetto è a
quota superiore di cm. 30 rispetto la quota prevista nel progetto
approvato. Relativamente a solo torrino delle scale (…)
l’altezza della linea di colmo e inferiore di cm. 30 rispetto
al
progetto. Tutto il fabbricato risulta spostato di m. 5,00 verso il
confine fra la particella 290 e 291. …La distanza dal
confine
con la particella 291, di proprietà della stessa ditta
originaria Marisa Ciucci è ridotta da m. 9 a m. 4 (per la
traslazione di cui sopra) e dall’attuale confine in paletti e
rete che non coincide con il limite di particella
è
ridotto a m. 2,50. Il piano interrato (zona garage) è
sbancato
nella zona a monte m. 3 oltre il filo dei pilastri retrostanti
realizzando una cubatura completamente interrata (urbanisticamente pari
a zero) di mc. 285,6 di più. In definitiva prendendo come
riferimento la linea del terreno post-operam ( ciò a
sistemazione avvenuta) per il calcolo del volume realizzato si
può stabilire: Pianta mt (28,0 X 6,15)-(6,80 X 1,20) +(23,80
X
3) = mq235,44
Nel corso dell’udienza camerale del 15 dicembre 2003, poi, il
perito ha ribadito che il fabbricato realizzato “è
stato
spostato di cinque metri verso la residua proprietà della
signora Ciucci” e che il medesimo manufatto presenta al piano
seminterrato una maggior volumetria di mc. 285,6 ottenuta realizzando
il muro di contenimento previsto in progetto a circa tre metri di
distanza dal punto ove era previsto.
Sennonché è opinione dello scrivente che alcuni
dei rilievi mossi dal perito non possano essere condivisi.
Tale processo di confutazione non può che partire da quanto
riportato nella sentenza di non luogo a procedere adottata dal GUP
l’11 luglio 2005. Si legge nella parte motiva della decisione
“E’ palese che il perito ha considerato la strada
in parte
integrata nel lotto della Ciucci come la continuazione della Strada di
Castiglione, pacificamente comunale. In realtà è
palese
sia per la documentazione prodotta dalle parte private che per quella
acquisita ( anche nel procedimento civile) che la prima si dirama dalla
Strada di Castiglione, che prosegue anche nella numerazione civica,
assumendo la denominazione di Strada privata n.13”. Tale
emergenza tuttavia, a parere del GUP, non assume rilevanza
decisiva ai fini che qui occupano e ciò in quanto
“la non
utilizzabilità della superficie destinata a
viabilità
nella valutazione di quella utile ai fini edificatori risulta con
chiarezza dallo stesso atto di origine dei diritti reali dei quotisti.
E’ proprio dall’atto di frazionamento e dalla
successiva
“quotazione” che risulta evidente che la strada n.
13
è destinata, stabilmente, come parte della lottizzazione, al
servizio pubblico dell’intera area”.
Sennonché gli elementi resi disponibili
dall’istruttoria
dibattimentale non consentono di condividere la conclusione appena
esposta circa la non computabilità della strada nella
superficie
fondiaria del lotto 290.
Sotto la vigenza della legge 12 febbraio 1958 n. 126 era pacifico che
la qualificazione di una strada pubblica comunale non potesse
prescindere da due requisiti, uno materiale, ovvero
l’appartenenza del suolo al Comune, l’altro
funzionale,
rappresentato dalla destinazione ad uso pubblico ( Cass. civile, Sez.
II, 17 aprile 1978, n. 1803; Cass. civile, Sez. II, 10 febbraio 1979 n.
920; Cass. civile, Sez. II 3 giugno 1974 n. 594). La materia
è
oggi regolata dal D.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 ed in particolare:
dall’art. 2, c. 6 lett. D ultimo inciso che
assimila
“ai fini del presente codice” le strade vicinali
alla
strade comunali; dall’art. 3 c. I n. 52 che definisce la
nozione
di strada vicinale e dall’art., 14 c. IV che fissa i poteri
del
Comune sulle strade vicinali. L’interpretazione di un tale
addentellato normativo ha portato la dottrina a distinguere dalla
strada vicinale pubblica, ovvero quella caratterizzata da una
servitù di pubblico transito a favore della
collettività
e dall’adduzione a luoghi di pubblico interesse quali
scuole,ospedali, uffici pubblici, la strada vicinale privata ovvero
“la strada urbana privata che risponde ad un interesse
meramente
privato dei proprietari frontisti, non è aperta
all’uso
pubblico ed è regolata dalle norma di diritto
privato”.
Più variegata risulta la produzione giurisprudenziale
intervenuta sul tema. Secondo alcune pronunzie, infatti, la natura
pubblica di una strada presuppone una serie di elementi: il passaggio
esercitato iuris servitutis pubblicae da una collettività di
persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo
territoriale;
l’idoneità del bene a soddisfare in concreto
esigenze di
carattere generale; un titolo valido a fondare
l’affermazione di tale diritto di uso pubblico (anche
l’uso
protratto da tempo immemorabile) (in tal senso Tar Toscana, Sez. III,
11 aprile 2003, n. 1385). Altre pronunzie, invece, ritengono che
l’attribuzione ad una strada privata del carattere di strada
pubblica non possa prescindere dall’acquisito della
proprietà del suolo da parte dell’ente locale (
Cons.
Stato, Sez. V, 28 giugno 2002, n. 3558, Riv. Giur.
dell’Edilizia,
2002,I,1443; Consiglio di Stato, Sez. V, 29 luglio 1999 n. 933).
Quest’ultimo orientamento risulta accolto anche dalla Corte
di
Cassazione. Precisa in una recente pronunzia il giudice della
nomofilachia: “La natura di strada pubblica degli spazi
adiacenti
di cui all’art. 22 L. 2248 del 1865 all.7, presuppone che
essi
siano di proprietà di un ente pubblico territoriale, con la
conseguenza che, affinché i suddetti spazi possano
far
parte del demanio ( nella specie comunale) assumendo la natura di
strada pubblica, non è sufficiente prospettare la mera
previsione programmatica di tale destinazione, né
l’avvenuta trasformazione di tali spazi in un manufatto
tipologicamente corrispondente ad una strada cittadina, né,
infine, che vi si espleti, di fatto, il pubblico transito, occorrendo
invece che, con la destinazione a tale uso, concorra
l’intervenuto acquisto da parte dell’ente locale
del suolo
relativo, che altrimenti resta un’area privata anche quando
sia
adiacente e contigua ad una strada comunale, atteso peraltro che ai
fini della presunzione (relativa) di demanialità di cui al
citato art. 22, occorre altresì che le suddette aree si
presentino come parte integrante della funzione viaria della sede
stradale ( Cass. civ., Sez. I, 26 giugno 2000, n. 8659).
Orbene, le deposizioni rese dai testi Angelici Patrizia,
Petrocchi Antonio, Cipolla Pietro, Fabbietti Flavio e la documentazione
prodotta dalle parti hanno dimostrato che la “Strada privata
13” si è formata ex collazione privatorum agrorum
ed
è destinata esclusivamente all’accesso ai fondi
latistanti
i cui proprietari ne godono iure condomini e non iure servitutis
pubblicae. A ciò si aggiunga che: nella
deliberazione
comunale di classificazione delle strade la strada privata 13
è
qualificata come strada vicinale; l’ente territoriale, se si
esclude l’invio di un operaio in un’occasione, non
ha mai
partecipato alle spese di costruzione o manutenzione della strada; il
solo sottostante la carreggiata non ospita infrastrutture a rete di
proprietà pubblica.
A fronte di tali elementi, alle luci delle considerazioni innanzi
esposte, deve essere escluso che la “Strada privata
13
“possa essere definita quale strada pubblica.
La conclusione assume un’indubbia rilevanza ai fini
della
valutazione in ordine alla legittimità del titolo
abilitativo
originario. Le norme tecniche di attuazione riportate nella
Deliberazione della G.R. Lazio 15 dicembre 1983 n. 7424,
all’art.
6, identificano la superficie fondiaria con l’area
edificabile
“al netto delle strade pubbliche esistenti”. Non vi
è quindi dubbio che, ai fini della determinazione della
superficie fondiaria del lotto, il computo del suolo della strada
insistente sulla particella 290 non violava la disciplina dettata dalle
norme tecniche di attuazione del Comune di Palombara Sabina.
Un’esauriente disamina della questione imporrebbe,
però, a questo punto, la verifica, alle luce delle
disposizioni di rango superiore, della legittimità della
disciplina comunale. Lo scrivente non ignora, infatti, che la
prevalente giurisprudenza amministrativa ha ritenuto computabile ai
fini della determinazione del lotto edificabile l’estensione
dell’area suscettibile di edificazione con esclusione quindi
delle aree sottratte all’uso esclusivo del proprietario ( fra
le
tante Cons. Stato, Sez. IV, 6 settembre 1999 n. 1402; Cons. Stato, Sez.
V, 4 maggio 1979 n. 218, in Foro amm. 1979,I, 918; Tar Lombardia,
Brescia, 28 maggio 1998 n. 444). Ma non può essere
sottaciuto
che numerose sono anche le decisioni di segno contrario. Si segnalano
al riguardo: Cons. Stato, Sez. V, 25 settembre 1968 n. 1190 in Riv.
Giur. dell’Edilizia 1968,I,1452; Cons. Stato, Sez. V, 8
settembre
1983 n. 366, in Foro amm. 1983,I, 1876. Ma la risoluzione della
questione non appare essenziale ai fini della decisione. Non va infatti
dimenticato che, in sede penale, l’integrazione delle
contravvenzione contestate non può prescindere
dall’accertamento, quanto meno, di profili di imperizia,
imprudenza o negligenza da parte degli agenti. Orbene, avuto riguardo
per il tenore letterale della previsione dell’art. 6 della
norme
tecniche di attuazione del comune, per la congerie di disposizioni
regolanti la questione e per gli opposti orientamenti espressi dalla
giurisprudenza amministrativa, non ritiene lo scrivente di poter
escludere che l’attività edificatoria incriminata
sia
stata sorretta dal convincimento della legittimità
dell’operato degli organi amministrativi e, conseguentemente,
della liceità del comportamento tenuto.
Ma vi è di più.
L’attività edificatoria incriminata ha formato
oggetto di
una controversia civile fra le odierne parti private avendo Rosati
Alberto esperito nei confronti di Ciucci Marisa le azioni regolate
dagli artt. 1171 e 1172 cc. Nell’ambito di tale giudizio
all’ing. Giovanni Sirini era stato affidato dal giudice
l’incarico di verificare la consistenza del manufatto in
costruzione e, incidentalmente, la legittimità del
provvedimento
concessorio. Le indagini svolte hanno portato l’ing. Sirini
ad
individuare in mq. 1156,00 la superficie del lotto di terreno decurtata
dell’area destinata a formare la strada, in mc 1734 la
volumetria
totale fuori terra ammissibile e in mc. 1702,00 il volume totale fuori
terra del fabbricato una volta effettuata la “sistemazione
del
terreno circostante prevista in progetto” . Nel corso
dell’escussione dibattimentale l’ing. Sirini ha
inoltre
spiegato che la misurazione del lotto era stata da lui effettuata
facendo riferimento a punti catastali certi ed ancora che ai fini della
volumetria non aveva computato il torrino del vano scale, costituendo
lo stesso un vano tecnico.
La disamina dei fattori che possono aver determinato le discrasie
esistenti fra le conclusioni rassegnate dai due periti inducono ad
attribuire una maggior valenza significativa alle conclusioni
rassegnate nell’ambito del procedimento civile.
Nel corso dell’udienza camerale l’ing. Giorgi ha
ammesso
che la discordanza ravvisabile fra le due perizie in ordine
all’estensione della superficie suscettibile di edificazione
del
lotto poteva aver trovato causa nella superficialità del
geometra cui aveva affidato le misurazioni il quale poteva aver fatto
coincidere il confine fra le particelle appartenute a Ciucci Marisa con
“la rete di costruzione messa in modo molta
causale”
senza procedere ad alcun approfondimento.
Ben più rigoroso è risultato il metodo di
misurazione
seguito dall’ing. Sirini il quale ha utilizzato come punti di
riferimento i manufatti riportati sulle mappe catastali ancora
esistenti sui luoghi di causa ( le vecchia macera, il muro della
macera, i fabbricati).
Non può essere inoltre sottaciuto che nella consulenza
redatta
dal geom. Paola Cicioni prodotta dalla parte civile la superficie
fondiaria del lotto 290, depurata dalla superficie della strada,
è indicata in mq. 1140.
Dalle lettura della relazione inoltre si evince che l’ing.
Giorgi
ha determinato la cubatura del piano interrato applicando il
coefficiente del 50% alla effettiva consistenza del piano.
L’escussione dibattimentale ha invece rivelato che la
volumetria
era stata dal Sirini escludendo, come prescritto dalle norme tecniche
del comune (art. 6 c. I n. 12 ), la volumetria entroterra
misurata rispetto alla superficie del terreno circostante secondo la
sistemazione prevista nel progetto approvato ed escludendo il torrino
costituente la copertura del vano scala. Le conclusioni rassegnate dal
perito trovano peraltro conferma nel progetto allegato alla dia dal
quale si rivela che la parte del seminterrato che fuoriesce dal terreno
ha un’altezza compresa tra 0 e m. 2,50
Il modus procedendi seguito dal perito nell’ambito della
causa
civile trova peraltro avallo nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione la quale ha chiarito che il computo della volumetria deve
essere effettuato con riferimento all’opera in ogni suo
elemento,
ivi compresi gli ambienti seminterrati ed interrati, “salvo
che
non viga una espressa e particolare disposizione contraria” (
Cass. Sez. III, 23 maggio 1997, n. 6875 in CED Cass. rv. 208434).
Anche pertanto a voler scomputare dalla superficie fondiaria il suolo
della strada non per questo potrebbe pervenirsi ad un giudizio di
illegittimità in relazione alla concessione edilizia n. 5028
del
29 novembre 2002.
Accertato pertanto che il titolo abilitativo non presenta profili di
illegittimità tali da giustificare l’affermazione
della
penale responsabilità degli imputati è quindi
possibile
affrontare il tema relativo alla sussistenza e alla rilevanza delle
difformità descritte in imputazione.
Può ritenersi provato che l’edificio in sequestro
abbia
subito una traslazione di cinque metri verso il confine fra le
particelle 290 e 291. E’ del pari provato che per effetto
della
traslazione il fabbricato si è venuto a trovare ad una
distanza
minima inferiore a cinque metri – da Giorgi indicata in m.
4,00 e
da Sirini in m. 3,90- dalla particella 291.
Non è poi controverso che a monte del fabbricato sia stato
realizzato uno sbancamento, non previsto in progetto, di m. 3
oltre il filo dei pilastri. Dall’esame dell’ing.
Giorgi,
dalle foto prodotte dalla parte civile e dallo stesso progetto allegato
alla dia presentata dai germani Gomelino si evince inoltre
che lo
sbancamento è stato seguito dalla realizzazione di un muro
di
sostegno in cemento armato sul quale poggia il solaio del piano
interrato. La difesa ha peraltro contestato la rilevanza assegnata
dall’accusa alla difformità adducendo che
l’area
sbancata era destinata alla realizzazione di un intercapedine per la
circolazione d’aria. Non è però priva
di fondamento
l’obiezione, di seguito riportata, mossa
all’allegazione
difensiva dal perito: “ Un’intercapedine avrebbe
senso in
una circolazione dell’area, per cui dai pilastri, come
riportato
dal progetto, uno lascia 50,60,70 cm per la circolazione
d’area…certo uno può
ridurlo…ma è un
non senso, cioè lo faccio, lo pago”. E tuttavia
ritiene lo
scrivente che la compatibilità tecnica delle opere
realizzate
con l’allegazione difensiva, compatibilità
riconosciuta
dallo stesso perito, non consente di ritenere che la
difformità
fosse finalizzata all’ottenimento di una maggiore volumetria
utilizzabile nel vano seminterrato.
Un dato può comunque ritenersi acquisito:
l’intervento non rispecchiò fedelmente il progetto
assentito dalla concessione edilizia più volte richiamata.
Non vi è poi dubbio che si sia in presenza di
difformità parziali.
La diversa localizzazione del fabbricato, infatti, rientra nel limite
di tolleranza del 50% contemplato nell’art. 8 c.I lett. f)
della
legge Regione Lazio n. 36 del 2 luglio 1987.
Come sopra illustrato, inoltre, non si però escludere che
l’avanzamento del fronte dello sbancamento avesse quale
obiettivo
la creare uno spazio vuoto, non accessibile, destinato a consentire la
circolazione dell’area. E in ogni caso, anche a voler
ritenere
che la difformità fosse finalizzata ad ampliare il piano
destinato al ricovero delle auto, venendo in rilevo un ambiente
interrato avente carattere accessorio, la difformità in
parola
non potrebbe comunque integrare, stante la previsione
dell’art.
32 T.U. edilizia, una variazione essenziale.
Resta però da vedere la natura delle parziali
difformità accertate.
In proposito lo scrivente ritiene di condividere la distinzione
elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa fra
“varianti in corso d’opera”, ovvero
quelle che non
incidono sulla superficie coperta, sul perimetro, sulla volumetria
nonché sulle caratteristiche funzionali e strutturali
interne
del fabbricato assentito (Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio
2003 n.
249 Riv. Giur. dell’Edilizia, 2003,I,2003,I,977; Cons. Stato,
Sez. V, 2 aprile 201, n. 1898, id,I, 684), e varianti “in
senso
proprio”, ovvero quelle modifiche “quantitative e
qualitative di limitata consistenza tali da non alterare le linee
originarie dell’intervento edilizio, riguardanti in
particolare
la superficie coperta, il perimetro, l’aumento del numero dei
piani, le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne
del fabbricato “(TAR Marche, 21 febbraio 1995 n. 79 in Trib.
Amm.
Reg. 1995,I,1789). Nettamente distinte risultano le discipline
riservate nel testo unico alle due categorie in esame. E’
noto
che “la realizzazione di varianti a permessi di costruire che
non
incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non
modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia, che
non
alterano la sagoma dell’edificio e non violano le eventuali
prescrizioni contenute nel permesso di costruire” era
già
subordinata a denunzia di inizio attività dalla legge 622
del
1996 ed è rimasta assoggettata al regime della dia anche nel
testo originario del D.lgs. 380/01 (comma 2
dell’art. 22).
Le modifiche introdotte dal d.lgs 301/02 hanno poi reso possibile,
forse anche per rimediare ad alcune rigorose interpretazioni
giurisprudenziali – cfr. Cass. pen. Sez. III, 18 marzo 1999,
n.
5453, Ferrucci ed altri, che aveva ritenuto che la disciplina
all’epoca vigente avesse implicitamente abrogato la
previsione
dell’art. 15 della legge 47/85 e conseguentemente imposto
“l’obbligo della comunicazione preventiva
dell’intento di procedere a varianti”-, la
presentazione
della denuncia d’inizio per le nuove opere “prima
della
dichiarazione di ultimazione dei lavori”, e quindi anche dopo
la
loro realizzazione. Il sesto comma dell’art. 22
subordina
però la realizzazione delle nuove opere nel caso di immobili
sottoposti a tutela paesaggistica –ambientale al preventivo
rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti delle
relative previsioni normative. E’ infine affidato
all’art.
37 TU il trattamento sanzionatorio per le violazione del regime
regolante tale tipo di violazione. In particolare va sottolineato che
l’ultimo comma di tale articolo esclude, per le
difformità
in parola, l’applicazione della sanzioni penali. Le varianti
in
senso proprio necessitano invece di un nuovo consenso da parte della PA
che tuttavia viene emesso, a differenza di quanto avviene per le
variazioni essenziali che richiedono un nuovo permesso di costruire
adottato in base alle disposizioni vigenti al momento della
richiesta, tenendo conto delle disposizioni vigenti al
momento
del rilascio del permesso originario. Differente risulta anche,
rispetto alle variazioni in corso d’opera o minori, il regime
repressivo. Tralasciando per ragioni di brevità la
disciplina
contemplata dall’art. 34 del TU - e prima dall’art.
12
della legge 47/85- va però rimarcato che la
difformità in
esame è sanzionata penalmente dall’art. 44 lett.a)
per gli
interventi in area non sottoposte a tutela storico-artistica o
paesaggistica ambientale. Per gli interventi in zona vincolata, invece,
l’art. 32 c. III DPR 380/01 prevede che le variazioni
essenziali
rispetto al progetto approvato sono equiparate alle
difformità
totali mentre le difformità parziali vengono considerate
come
essenziali. Trova quindi applicazione alle varianti in senso proprio il
più grave dei trattamenti sanzionatori contemplati
dall’art. 44 TU edilizia.
Così ricostruito il quadro normativo di riferimento
è
quindi possibile affrontare il tema relativo alla rilevanza penale
delle difformità accertate.
Seguendo gli itinerari segnati dalla giurisprudenza amministrativa e di
legittimità non appare dubbio che la maggior estensione
dello
sbancamento con avanzamento del muro di contenimento e la diversa
localizzazione del fabbricato debbano essere ricondotte alle varianti
in senso proprio.
Il posizionamento dell’opera, infatti, incide sui parametri
urbanistici derivando dalla collocazione del manufatto conseguenze in
tema di distanze, di rispetto dei vincolo, di turbamento di interessi
dei vicini ( in tal senso Cass. Sez. III, 24 novembre 1995, n. 4083, in
CED Cass. rv 203943). E’ di tutta evidenza inoltre
che la
collocazione incide sulla conformazione planovolumetrica della
costruzione, intesa quale sviluppo nello spazio del
manufatto.
Del pari incidente sulla sagoma dell’edificio è la
maggior
superficie del solaio fra il piano seminterrato derivata dal maggior
sbancamento realizzato nella parte a monte del fabbricato. Non
può poi ignorarsi che la modifica del declivio della collina
mediante la realizzazione di uno sbancamento che ha interessato
un’area avente la superficie di oltre mq. 90 per una
profondità di almeno m. 3, anche se finalizzata alla
realizzazione di un’intercapedine, necessitata di un titolo
abilitativo.
È quindi opinione dello scrivente che le
difformità
accertate costituiscano varianti in senso proprio. Numerose sono
peraltro le pronunzie della giurisprudenza amministrativa ed ordinaria,
relative a difformità analoghe a quelli in esame, che
corroborano siffatta conclusione : Cons. Stato, Sez. V, 22 gennaio
2003, n. 249, in Riv. Giur. dell’Edilizia, 2003,I,977;
Consiglio
Stato, Sez. V, 7 maggio 1991 n. 772 in Foro amm. 1991,1428; TAR
Calabria, Catanzaro,II, 10 dicembre 2002 n. 3207 in FA TAR, 2002,12;
Cass. 28 aprile 1987 n. 7084 in CED cass. rv. 176134; Cass. 19
settembre 2003 n. 46865 in CED Cass. rv. 226891; Cass. Sez. III, 15
luglio 1994 n. 9344 in CED Cass. rv. 198804).
Ma anche a voler diversamente opinare circa la natura delle
difformità accertate non per questo potrebbe pervenirsi ad
un
giudizio di irrilevanza penale.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha infatti, anche di recente,
ribadito che la denuncia di inizio attività costituisce
titolo
abilitativo per gli interventi edilizi minori in zona vincola solo se
preceduta dal rilascio del nulla osta da parte
dell’autorità tutoria, in mancanza di tale parere
o
autorizzazione è sempre necessario il permesso di costruire
(
Cass. Sez. III, 20 marzo 2002 n. 246 in Urb App, 2002, 1231; Cass. Sez.
III, 10 maggio 2006 n. 15929, Molaro in Urb App, 2006,1112).
Orbene, nel caso di specie, è pacifico che la realizzazione
delle difformità e la presentazione della denuncia di inizio
attività non fu preceduta dal rilascio del necessario nulla
osta
paesaggistico.
E’ poi opinione dello scrivente che nessun rilievo assuma ai
fini
della decisione il nulla osta adottato 11 giugno 2004 dal Capo Area
Tecnica del Comune di Palombara Sabina.
Non vi è infatti dubbio alcuno che
l’autorizzazione sia palesemente illegittima.
L’art. 146 del D. L.vo 22 gennaio 2004 n. 42, entrato in
vigore
il 1° maggio 2004, infatti, nel testo originario, alla lettera
c)
del comma 10 escludeva categoricamente che l’autorizzazione
paesaggistica potesse essere rilasciata in sanatoria successivamente
alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Sull’immediata operatività di un tale divieto si
è
poi espressa la giurisprudenza amministrativa ( Tar Puglia-Lecce, Sez.
I, 24 febbraio 2005 n. 871 in Riv. Giur. Ed., 2005).
E’ poi intervenuta la legge 15 dicembre 2004 n. 308
che,
con i commi 1 ter e 1 quater dell’art. 181 del D.l.vo 42/04,
ha
introdotto “la possibilità di una valutazione
postuma
delle compatibilità paesaggistica di alcuni interventi
minori,
all’esito della quale- pur restando ferma
l’applicazione
delle misure amministrative ripristinatorie e pecuniarie di cui
all’art. 167 del D.lgs. n. 42/04, non si applicano
le
sanzioni penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato
dal c. I dell’art. 181 dello stesso D.lgs. 42/04. Si tratta
in particolare: dei lavori realizzati in assenza o
difformità dall’autorizzazione paesaggistica che
non
abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati; dell’impiego di
materiali in difformità dall’autorizzazione
paesaggistica;
dei lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o
straordinaria, ai sensi del T.U. n. 380/01. Nei casi anzidetti la non
applicabilità delle sanzioni penali è subordinata
all’accertamento della compatibilità paesaggistica
dell’intervento secondo le procedure di cui al comma 1 quater
dell’art. 181 del D.lgs. 42/04, introdotto dalla legge 15
dicembre 2004 n. 308: deve essere presentata, in particolare,
un’apposita domanda all’autorità
preposta alla
gestione del vincolo e detta autorità deve pronunziarsi
entro il
termine perentorio di 180 giorni, previo parere vincolante della
Soprintendenza, da rendersi entro il termine, anch’esso
perentorio, di 90 giorni” ( Cass. Sez. III, 22 maggio 2006,
n.
17591, Antonelli). E’ infine intervenuto il 24 marzo 2006 il
D.
Lgs. n. 157 che ha modificato nuovamente la disciplina in esame. E
stato così contemplato, al comma 12 del novellato art. 146
del
D.lgs. 42/04, che “l’autorizzazione paesaggistica,
fuori
dai casi di cui all’art. 167 c. IV e V, non può
essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione anche
parziale degli interventi”. Il nuovo testo
dell’art. 167
del D.lgs. 42/04 ha poi previsto che l’autorità
amministrativa tutoria possa essere chiamata dall’interessato
a
pronunziarsi, con il procedimento già regolato
dall’art.
181 c. 1 quater, in ordine alla compatibilità paesaggistica
degli interventi contemplati dall’art. 181 1 ter.
E’ di tutta evidenza che le disposizioni legislative da
ultimo
richiamate non hanno alcuna rilevanza nella vicenda in esame. Il nulla
osta postumo introdotto dalla novella del 2006 è infatti
rilasciato dall’autorità tutoria a seguito di
apposita
domanda dell’interessato e dopo l’acquisizione del
“parere vincolante della soprintendenza” ed impone
al
trasgressore il pagamento “di una somma equivalente al
maggior
importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la
trasgressione”. Il procedimento sfociato nel nulla osta in
atti
invece è quella contemplato dall’originario testo
dell’art. 146 del D.lgs. 2004 n. 42. Né rilevanza
può avere la richiesta di rilascio del nulla osta prodotta
dal
difensore dei germani Gomelino all’udienza del 30 ottobre
2006
non essendo previsto alcuna sospensione in relazione al procedimenti
avviato dall’istanza (Cass. Sez. III, 10 maggio 2006, TN MT
in
Urb. E App., 1111/06).
Le considerazioni sopra esposte rendono quindi evidente che nella
vicenda non è ravvisabile alcuna valida autorizzazione
paesaggistica che legittimasse il ricorso al denunzia di inizio
attività in relazione alle difformità realizzate
nell’edificazione del fabbricato.
Nulla osta pertanto alla sussunzione del diverso posizionamento delle
opere assentite e del maggior sbancamento realizzato nel reato edilizio
contestato.
Non può però ignorasi che fra gli argomenti
illustrati in
sede di discussione dalla difesa vi è anche quello facente
leva
su una supposta sanatoria delle difformità accertate.
L’argomento risulta incentrato sulla denuncia di inizio
attività “ai sensi degli artt. 22 e 23 del D.p.r.
380/01” presentata da Maurizio e Graziella Gomelino
il 18
dicembre 2003 al Comune di Palombara Sabina e sul successivo nulla osta
rilasciato dal Comune il 9 settembre 2004. Facendo leva su tali
documenti la difesa ha sostenuto che le difformità accertate
erano conformi agli strumenti urbanistici ed erano compatibili con le
esigenza di tutela sottese al vincolo paesaggistico gravante
sull’area. Ha quindi concluso, richiamando
l’autorevole
opinione del prof. Carbonara, che le difformità accertate
erano
ormai sanate essendo stata pagata l’oblazione contemplata dal
c.
IV dell’art. 37 del TU.
L’argomentazione, certamente suggestiva, non è
però
condivisibile e ciò per le ragioni di seguito esposte.
Si è già detto, allorquando si è
esaminato il
differente regime giuridico previsto dal legislatore per le varianti in
corso d’opera o minori e le varianti in senso proprio, che il
regime contemplato dall’art. 22 c. II non è
applicabile a
difformità quali quelle accertate a carico degli
imputati.Non
può quindi trovare applicazione alla vicenda la disciplina
fissata dall’art. 37 del TU.
Ma vi è di più.
Il comma 6 dell’art. 22 TU prevede che gli interventi di cui
al
comma secondo su immobili sottoposti a tutela paesaggistica ambientale
siano subordinati al preventivo parere o autorizzazione richiesti dalle
relative previsioni normative. Nessun valida autorizzazione ha
preceduto -o seguito- la denuncia di inizio attività dei
germani
Gemelino .
Non può essere poi sottaciuto che perplessità
suscita
anche il giudizio espresso dalla difesa in relazione alla
compatibilità delle difformità con la disciplina
edilizia
ed urbanistica vigente all’epoca dell’intervento.
Le norme
dei regolamenti comunali che, integrando il codice civile in materia di
distanze di edifici, stabiliscono una determinata distanza dal confine
infatti, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, mirano non
soltanto a regolare i rapporti di vicinato evitando intercapedini
nocive, ma sono anche dirette a soddisfare esigenze più
generali
quali ad esempio l’assetto urbanistico di una determinata
zona
assicurando comunque uno spazio libero fra le costruzioni ( Cass. Sez.
II, 26 marzo 2001, n. 4366). A fronte di tale esigenza appare
difficilmente contestabile che il rispetto dalla distanza minima di
cinque metri dal confine della proprietà, imposto dalle
norme
tecniche di attuazione del Comune di Palombara Sabina, debba avere
quale riferimento i confini della particella interessata
dall’intervento ( in tal senso Trib. Firenze, 31 marzo 1952
in
Foro Padano, 1953,I,221, non si registrano in tema decisioni
più
recenti).
Del pari integrato deve ritenersi il reato paessagistico contestato.
Va infatti osservato come in giurisprudenza sia assolutamente pacifico
il principio secondo cui anche dopo l’entrata del D.l.vo 29
ottobre 1999 n. 490, che ha sostituito le disposizioni di cui alla
legge 431/85, la contravvenzione prevista per la realizzazione di
lavori su beni ambientali senza la prescritta autorizzazione o in
difformità ad essa abbia mantenuto la natura di reato di
pericolo; sicché rimane esclusa la sanzionabilità
soltanto di interventi non autorizzati di entità talmente
minima
da non porre luogo, neppure in astratto, al pericolo di un pregiudizio
ai beni protetti. In proposito, per la chiarezza espositiva e per la
particolare natura del fatto portato all’esame dei giudici,
rappresentato dalla realizzazione “in zona sottoposta a
vincolo
paesaggistico ambientale, in totale difformità della
concessione
edilizia e senza la preventiva autorizzazione dell’ente
preposto
alla tutela del vincolo, di opere edili comportanti la modifica di
destinazione del vano sottotetto da soffitta ad unità
abitativa,nonché due finestre e di una porta
finestra”, è opportuno riportare il percorso
argomentativo
sviluppato in una recente pronunzia della Corte di Cassazione (Cass.
Sez. III, 1° ottobre 2004, n. 38694, Canu). Recita la sentenza
:
“La giurisprudenza di questa Suprema Corte, invero, ha
costantemente affermato, anche in tempi recenti, il principio secondo
cui il reato di cui all'art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490,
così come quello di cui all'art. 1 sexies del d.l. 27 giugno
1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, ha natura
di reato formale di pericolo che si consuma con la sola realizzazione
di lavori, attività o interventi in zone vincolate senza la
prescritta autorizzazione paesaggistica e prescinde dal verificarsi di
un evento di danno e da ogni accertamento in ordine alla avvenuta
alterazione, danneggiamento o deturpamento del paesaggio, essendo per
la sua esistenza sufficiente che l'agente faccia, del bene protetto da
vincolo paesaggistico, un uso diverso da quello cui esso è
destinato o ponga in essere su di esso interventi astrattamente idonei
a mettere in pericolo l'ambiente. E ciò perché il
vincolo
posto su certe parti del territorio nazionale ha una funzione
prodromica al governo del territorio stesso. È pertanto
sufficiente l'accertamento della mancanza del provvedimento
amministrativo, ai fini della sua configurabilità (Sez. 3^,
28
febbraio 2002, Barbadoro, m. 221.456;
Sez. 1^, 31 agosto 2001, Fontana, m. 219.895; Sez. 3^, 26 giugno 2000,
Gregori, m. 216.820; Sez. 3^, 14 febbraio 2000, Tommasi, m. 216.853;
Sez. 6^, 24 luglio 1977, Stanzione, m. 209.282; Sez. 3^, 16 gennaio
1996, Re, m. 203.836; Sez. 3^, 12 luglio 1995, D'Emilio, m. 202.883;
Sez. 3^, 30 giugno 1995, Montone, m. 202.702; Sez. 3^, 16 marzo 1994,
Mastellone, m. 199.181; Sez. 3^, 27 gennaio 1994, Lambri, m. 197.592;
Sez. 3^, 4 febbraio 1993, De Lieto, m. 193.636). Il legislatore ha
infatti voluto che nelle zone paesaggisticamente vincolate vi sia in
ogni caso un preventivo vaglio della autorità preposta alla
tutela del vincolo e che il soggetto si astenga da qualsiasi intervento
senza che detta autorità si sia espressa, dettando la norma
incriminatrice proprio a tutela di questo interesse rappresentato dal
necessario preventivo parere della autorità competente. Il
reato
in questione, invero, prescinde del tutto dalla verificazione di un
concreto danneggiamento, o alterazione o deturpamento dell'ambiente e
si realizza per il solo fatto di porre in essere un intervento che sia
astrattamente e potenzialmente idoneo a porre in pericolo il bene
ambientale e che, proprio per questa astratta e potenziale
possibilità, può essere realizzato solo dopo
previo il
rilascio della prescritta autorizzazione. Il reato non è
configurarle esclusivamente quando si tratti di un intervento
sull'immobile di entità talmente minima che non sia neppure
astrattamente idoneo a porre in pericolo il paesaggio e a pregiudicare
il bene paesaggistico-ambientale, ossia che si tratti di un intervento
ontologicamente estraneo al paesaggio ed all'ambiente (Sez. 3^, 3 marzo
2000, Faiola, m. 216.975; Sez. 3^, 26 novembre 1999, Gargiulo, m.
215.891; Sez. 3^, 2 ottobre 2001, Farà, m. 220.356; Sez. 3^,
17
marzo 1999, Zotti, m. 213.243). E difatti, il reato in esame, ha natura
di reato di pericolo ed esclude dal novero delle condotte penalmente
rilevanti soltanto quelle che si prospettano inidonee, pure in
astratto, a compromettere i valori del paesaggio. L'interesse protetto
dalla norma incriminatrice, pur dovendosi individuare nella tutela
prodromica del paesaggio, non può peraltro logicamente
prescindere da una sia pur minima possibilità di "vulnus" al
bene tutelato. Pertanto la messa in pericolo del paesaggio deve
concretarsi pur sempre in un nocumento potenziale, da valutarsi "ex
ante", oggettivamente insito nella minaccia ad esso portata (Sez. 3^,
17 maggio 1998, Vassallo, m. 211.218; Sez. 3^, 17 dicembre 1998,
Galimberti, m. 212.247)”.Rapportando tali premesse al caso di
specie, non appare dubbio che le difformità accertate
abbiano
una portata tale da poter astrattamente incidere sull’assetto
del
paesaggio e quindi necessitassero del rilascio
dell’autorizzazione da parte
dell’autorità preposta
alla tutela del vincolo. Dallo stesso progetto allegato alla dia
versata in atti si ricava che lo sbancamento abusivamente realizzato ha
comportato l’asportazione di oltre 285 mc. di terra e
roccia.Del
pari appare idonea ad integrare la contravvenzione contestate al punto
secondo dell’imputazione la significativa traslazione
accertata.
È infatti innegabile che il posizionamento
dell’imponente
fabbricato in costruzione a circa cinque metri dall’area
individuata nel progetto assentito costituisca condotta astrattamente
idonea ad pregiudicare il bene paesaggistico ambientale. E difatti la
Suprema Corte ha più volte ribadito che in tema di tutela
ambientale integra il reato paesaggistico la realizzazione di opere
regolarmente assentite in altro luogo dello stesso lotto oggetto di
intervento ( Cass. Sez. III, 2 luglio 1998, n. 9164 in CED Cass. rv.
211864; Cass. Sez. VI, 24 giugno 2003 n. 35122 in CED Cass. 226325).
Resta quindi da affrontare il tema relativo alle
responsabilità individuali.
Le fonti di prova raccolte dimostrano inequivocabilmente che alla data
del 10 luglio 2003 la struttura in cemento armato del fabbricato era in
parte realizzata ed ancora che l’attività
edificatoria
proseguì dopo che la concessione edilizia venne volturata in
favore dei germani Gomelino.
Tanto basta per riferire a Ciucci Marisa, Gomelino Maurizio e Gomelino
Graziella i reati accertati.
La documentazione versata in atti, e segnatamente la nota integrativa
riportante la sottoscrizione del geom. Giovanni Ippoliti e la data del
10 luglio 2003 ( allegato n. 13 della produzione dell’avv.to
Venturino) nonché la deposizione resa dal teste Raffaelli
Marco
provano poi che il predetto imputato ricoprì il ruolo di
direttore dei lavori.
Venendo quindi alla pretesa azionata dalla parte civile, va osservato
che l’atto di costituzione -datato 16 maggio 2005- individua
il
danno sofferto nella “riduzione sensibile delle
vedute”
fruibili dal fabbricato del Rosati per effetto del differente
posizionamento e della maggiore consistenza del fabbricato. Orbene,
è di tutta evidenza che il Rosati ha interesse a
che
l’edificio oggetto del presente procedimento non venga
realizzato
in modo da poter conservare la visuale che gode dal suo appartamento.
Non è stato però neppure allegato che la
costituita parte
civile sia titolare di una servitù di veduta o,
più
propriamente, di una servitù “altius non
tollendi”.
Va quindi escluso che la costituita parte civile abbia
ricevuto
un danno personale e immediato dalle difformità accertate.
Le
pretese risarcitorie azionate dalla costituita parte civile debbono
pertanto essere respinte.
Non resta quindi che determinare la pena da irrogare agli imputati. In
applicazione dei criteri di cui all’art.133 c.p.,concesse le
attenuanti generiche in considerazione dello stato di incensuratezza,
riuniti i reati accertati ex art. 81 cp sotto il reato edilizio,
più grave violazione, stante la contestualità
delle
condotte attuative e la sussistenza di un medesimo disegno criminoso,
appare congrua, per ognuno degli imputati, la pena di mesi
uno e
giorni cinque di arresto ed € 21.000,00 di ammenda (pb. mesi
uno e
giorni quindici ed € 30.000, ridotta ex art. 62 cp a mesi uno
ed
€ 20000 aumentata ex art. 81 cp).Segue per legge la condanna
degli
imputati al pagamento, in solido, delle spese processuali.
L’incensuratezza degli imputati consente di concedere la
sospensione condizionale della pena ed il beneficio della non menzione.
Va altresì disposta la demolizione delle opere difformi dal
progetto assentito in ordine al quale è intervenuta condanna
nonché il ripristino dello stato dei luoghi alterati da tali
dofformità.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE
Letti gli artt.533 e 535 c.p.p.
DICHIARA
Ciucci Marisa, Gemelino Maurizio, Gomelino Graziella e Ippoliti
Giovanni responsabili dei reati loro ascritti con riferimento al
differente posizionamento del fabbricato e all’ulteriore
sbancamento non previsto nella concessione edilizia n. 5028/02 ( il
dispositivo letto in udienza riporta erroneamente il n. 5092/02) e,
concesse le attenuanti generiche, unificati i reati ex art. 81 cp,
condanna ciascuno dei predetti imputati alla pena di mesi uno e giorni
cinque di arresto ed € 21.000,00 di ammenda, oltre che al
pagamento delle spese processuali, in solido.Pena sospesa e non
menzione per tutti. Va altresì ordinata la demolizione delle
difformità in ordine alle quali è intervenuta
condanna ed
il ripristino dello stato dei luoghi alterati da tali
difformità;
letto l’art. 538 e ss
RESPINGE
La domanda di risarcimento avanzata dalla costituita parte civile;
letto l’art. 530 c. II cpp
ASSOLVE
i predetti imputati in ordine ai reati loro ascritti in relazione agli
altri profili dedotti in imputazione perché il fatto non
costituisce reato.
Tivoli, 30 ottobre 2006
Il Giudice
(dr.Lorenzo Antonio Bucca)
Urbanistica. Edificazione di fabbricato in posizione differente
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