Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 354, del 22 gennaio 2013
Urbanistica.E’ illegittimo il permesso di costruire che non rispetti le distanze minime tra gli edifici previste dall'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444
E’ illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, la cui nozione non si identifica solamente con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies, aggiunto dalla legge 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 00354/2013REG.PROV.COLL.
N. 04876/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4876 del 2009, proposto da:
Tamborini Federica, rappresentato e difeso dall'avv. Andrea Manzi, con domicilio eletto presso Andrea Manzi in Roma, via Federico Confalonieri, 5;
contro
Comune di Lacchiarella, in persona del legale rappresentante in carica, rappresentato e difeso dagli avv. Alfredo Codacci Pisanelli, Maria Angela Ghezzi, con domicilio eletto presso Alfredo Codacci Pisanelli in Roma, via Claudio Monteverdi, 20;
nei confronti di
Bollina Tamara, Riva Nicoletta, rappresentati e difesi dagli avv. Enzo Giacometti, Riziero Angeletti, con domicilio eletto presso Claudio De Portu in Roma, via G. Mercalli, 13;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. della LOMBARDIA – Sede di MILANO - SEZIONE II n. 01924/2009, resa tra le parti, concernente demolizione opere realizzate in parziale difformità dalla dia.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Lacchiarella e di Bollina Tamara e di Riva Nicoletta;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 gennaio 2013 il Consigliere Fabio Taormina e uditi per le parti gli avvocati Luigi Manzi (su delega di Andrea Manzi), Alfredo Codacci Pisanelli e Ilaria Smedile (su delega di Riziero Angeletti);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso di primo grado era stato chiesto dalla odierna appellante Tamborini Federica l’annullamento di due ordinanze emesse dal responsabile del Settore gestione del territorio del Comune di Lacchiarella, con le quali era stata disposta la demolizione di un edificio di propria pertinenza destinato ad autorimessa sito in via Giovanni XXIII n. 6, in quanto realizzato in parziale difformità dalla d.i.a. n. 126/06 del 15.11.06, e in difformità dagli strumenti urbanistici vigenti per violazione delle distanze dai confini e da pareti finestrate (“ad una distanza di confini inferiore a m 5,00 e non in aderenza come disposto dall’art. 2.12 delle N.T.A. vigenti”, nonché “ad una distanza da pareti finestrate inferiore a m 10”).
In particolare, la prima ordinanza avversata (26 luglio 2007 n. 30/GT/20079) era stata annullata dal comune in autotutela, in quanto viziata ex art. 7 della legge n. 241/1990; e la prescrizione ivi contenuta era stata reiterata mercé la ordinanza 25 marzo 2008 n. 9/GT/2008.
La detta ordinanza in ultimo citata muoveva dal rilievo che la distanza tra il box (oggetto della d.i.a. n. 126/06) e la parete finestrata dell’abitazione dei confinanti a est era pari a m. 7,50, (inferiore quindi alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444 e dall’art. 2.13 delle n.t.a. del p.r.g.), sicché “i lavori eseguiti devono intendersi realizzati in difformità dalla vigente normativa in materia di distanza dagli edifici delle pareti finestrate nonché dagli strumenti urbanistici vigenti”.
Su tale premessa l’ordinanza aveva disposto, ex art. 33 primo comma d.p.r. 8 giugno 2001 n. 380 (t.u. in materia edilizia), la demolizione delle opere eseguite in difformità dalla d.i.a., con restituzione dei luoghi in pristino stato.
Nel merito, la odierna appellante aveva prospettato sei distinte censure di violazione di legge ed eccesso di potere ( in particolare aveva dedotto: conformità del manufatto alla d.i.a., “mai revocata dall’Amministrazione”; violazione dell’art. 21-nonies legge n. 241/90, non sussistendo le condizioni per l’esercizio dell’autotutela, anche in considerazione dell’intervallo temporale - diciotto mesi - tra la presentazione della d.i.a. e l’ordine di demolizione; violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, non avendo essa preso parte al sopralluogo del 16 febbraio 2008, avvenuto a soli cinque giorni di distanza dalla comunicazione di avvio del procedimento, e prima della scadenza del termine per la presentazione di memorie e documenti; conformità della d.i.a. all’art. 2.12 delle n.t.a., che consente la costruzione di edifici destinati ad autorimesse o locali di servizio fino a m 2,50 di altezza “in corrispondenza al confine”, purché non vengano compromessi i requisiti di aeroilluminazione di edifici esistenti, requisiti la cui sussistenza essa riteneva di avere dimostrato: in ogni caso, il Comune avrebbe potuto chiedere di portare a confine il manufatto, e non disporne la demolizione; disparità di trattamento, avendo il Comune tollerato o autorizzato analoghi abusi, compreso il box delle parti controinteressate, che fronteggiava le pareti finestrate di parte ricorrente a distanza inferiore a dieci metri; omesso accertamento, da parte del Comune, delle distanze, nonché della preesistenza di un muro a confine, di circa due metri di altezza, in mattoni forati, interposto tra il box in contestazione e la parete finestrata dell’edificio delle controinteressate).
Inoltre, la odierna appellante aveva chiesto, in caso di reiezione del ricorso, il risarcimento del danno per avere il Comune omesso di rilevare tempestivamente l’abusività del manufatto realizzato in base a d.i.a..
L’adito Tribunale amministrativo regionale della Lombardia - Sede di Milano - ha preliminarmente dichiarato la improcedibilità del mezzo introduttivo del giudizio di primo grado (e del ricorso incidentale proposto dalla parte controinteressata), in quanto avversante la ordinanza 26 luglio 2007, n. 30/GT/20079 che, già sospesa in sede cautelare dal Tar, era stata annullata dal comune in autotutela in quanto viziata ex art. 7 della legge n. 241/1990.
Ha quindi partitamente preso in esame le sei distinte censure dedotte con i motivi aggiunti, (volti ad avversare la ordinanza reiterativa 25 marzo 2008 n. 9/GT/2008), respingendole, previa affermazione della circostanza che la violazione della distanza rilevata dal Comune costituiva elemento pienamente provato, sia perché non contestata dalla odierna appellante (il quarto motivo di ricorso riguardava la distanza dal confine, e non quella tra fabbricati), sia perché risultava da un documento - formato dalla stessa ricorrente - e cioè dalla tavola “U”, prodotta sub doc. 5, recante la “dimostrazione grafica della salvaguardia” dei requisiti di aerolluminazione dell’edificio di proprietà Bollina.
Dalla predetta tavola “U” risultava che la distanza tra detto edificio e la recinzione era di m 6,39: poiché la distanza tra recinzione e box non superava il metro, ne risultava una distanza complessiva tra i fabbricati inferiore a quella regolamentare.
Muovendo da tale pacifico presupposto fattuale (che ad avviso del Tribunale amministrativo comportava l’illegittimità della costruzione, non conforme allo strumento urbanistico ed alla normativa di rango superiore), il primo giudice ha respinto il primo motivo di ricorso in quanto, a prescindere dalla legittimità della d.i.a., il box realizzato non corrispondeva al progetto (il progetto presentava infatti una costruzione sul confine di proprietà e senza edifici frontistanti, laddove il box era stato invece realizzato non solo a distanza dal confine, ma di fronte alla parete finestrata di altro fabbricato di pertinenza delle controinteressate).
Anche la seconda censura meritava la reiezione, ad avviso del Tar: rispondeva al vero, infatti, che, seppure l’ordinanza si limitava a rilevare la difformità del manufatto rispetto alla d.i.a. (e alla normativa sostanziale), senza pronunciarsi esplicitamente sulla legittimità della d.i.a., tuttavia, poiché disponeva la demolizione dell’opera e il ripristino dello stato dei luoghi (e non già la conformazione del manufatto alla d.i.a.), il suo contenuto risultava più ampio di quello esplicitato, finendo con l’ avere come proprio implicito presupposto l’annullamento degli effetti della d.i.a.
Da ciò, tuttavia, non conseguiva l’illegittimità dell’ordinanza, in quanto, vertendosi in tema di violazione delle distanze nei rapporti di vicinato, l’interesse pubblico al ripristino della legalità era in re ipsa e, peraltro, non necessitava una specifica motivazione sull’interesse pubblico, posto che le opere non risultavano ultimate da lungo tempo e la illegittimità era ascrivibile alla condotta del privato, dato che la rappresentazione dello stato di fatto e di progetto emergente dagli allegati alla d.i.a. era in parte lacunosa ed in parte difforme dalla realtà.
A legittimare l’ordinanza era comunque sufficiente, a prescindere dalla legittimità della d.i.a., il rilievo che l’opera era stata realizzata in difformità dalla rappresentazione fattane nella stessa d.i.a. ed in contrasto con la normativa sulle distanze.
Il primo giudice ha poi ritenuto platealmente infondata la terza censura proposta, in quanto la mancata partecipazione della odierna appellante ricorrente al sopralluogo del 16 febbraio 2008 era irrilevante (non essendovi obbligo di effettuare in contraddittorio sopralluoghi ed accertamenti tecnici, salva la facoltà dell’interessato di contestarne le risultanze): peraltro ella appellante non contestava l’esistenza di una parete finestrata frontistante il box a distanza di m. 7,50.
Anche la quarta doglianza (con la quale si era invocato l’art. 2.12 delle n.t.a., che consentiva la costruzione di edifici destinati ad autorimesse o locali di servizio “in corrispondenza al confine”) doveva essere disattesa: il box non era stato costruito sul confine, bensì a distanza di cm. 80 dal confine medesimo; e non in parallelo alla recinzione. Sotto altro profilo, l’art. 2.12 n.t.a. disciplinava le distanze dal confine, ma non esonerava dal rispetto della diversa distanza tra fabbricati, che trovava disciplina nell’art. 2.13 n.t.a., in conformità alla normativa inderogabile di rango superiore contenuta nell’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968.
Né poteva negarsi al box la qualifica di costruzione agli effetti del rispetto della distanza, trattandosi di manufatto del tutto diverso, per natura, struttura e consistenza, dal preesistente (e demolito) pergolato-portico cui il Giudice civile, in una pregressa vertenza inter partes, aveva negato tali caratteristiche.
Esclusa nel caso di specie (quinta censura) alcuna disparità di trattamento a fronte di attività vincolate dell’Amministrazione, (che era tenuta ad assicurare il rispetto delle distanze legali, a prescindere da ogni considerazione sulla legittimità delle costruzioni che vengono assunte come termine di riferimento), il primo giudice ha disatteso l’ultima doglianza nella considerazione che non v’era contestazione sulla misura delle distanze accertate dal Comune e che nessun rilievo poteva assumere la circostanza per cui tra i due fabbricati (box e abitazione) si interponesse una recinzione di mattoni forati (la presenza di una recinzione, ancorché in muratura, non poteva esimere dal rispetto della distanza tra fabbricati).
Conclusivamente, il mezzo è stato respinto nel merito; e parimenti è stato disatteso il petitum risarcitorio, in quanto la illegittimità era ascrivibile ad una erronea o incompleta rappresentazione dello stato di fatto o di progetto da parte del soggetto che aveva presentato la d.i.a..
Alla stregua di tali osservazioni il mezzo è stato integralmente disatteso.
L’originaria ricorrente rimasta soccombente ha proposto una articolata critica alla sentenza in epigrafe con un unico motivo di censura, ripercorrendo la cronologia degli accadimenti e chiedendo la riforma dell’appellata decisione.
In particolare ha richiamato la disposizione di cui all’art. 2.12 delle NTA al PRG del Comune di Lacchiarella ed ha sostenuto che l‘interpretazione fornita dall’amministrazione comunale in prima battuta e successivamente recepita nell’appellata decisione sarebbe stata erronea.
Ciò perché la costruzione del box era avvenuta in modo perfettamente rispondente alle tavole progettuali sottese alla domanda di dia; e dalle stesse si evinceva che tra il muro di cinta e la parete dell’autorimessa vi era un distacco di cm. 60.
La prescrizione di cui all’art. 2.12 delle NTA al PRG del Comune di Lacchiarella non poteva che essere interpretata tenendo conto che vi erano edifici preesistenti, ubicati ad una distanza inferiore da quella prevista dall’art. 9 del dM n. 1444/1968 e di cui all’art. 2.13 delle NTA al PRG del Comune di Lacchiarella.
In ogni caso la detta intercapedine avrebbe potuto essere facilmente eliminata con accorgimenti tecnici, di guisa che illegittimamente era stato emesso un ordine di demolizione dell’intero manufatto.
Ha poi puntualizzato e ribadito le dette censure depositando articolate memorie.
L’appellata amministrazione comunale di Lacchiarella ha depositato memoria, evidenziando come fosse incontestabile che la costruzione non rispettava le distanze tra edifici prevista dalla normativa inderogabile di cui all’art. 9 del dM n. 1444/1968 ed aggiungendo che l’amministrazione era stata tratta in inganno dalla documentazione allegata alla dia (definita già dal primo giudice “in parte lacunosa ed in parte errata”), in quanto il box era stato costruito ed ubicato in modo difforme da quanto rappresentato (obliquamente, e non in parallelo).
Tale accertamento in ordine all’omesso rispetto delle distanze aveva natura troncante (era certo ed incontestabile che il box era stato eretto a meno di dieci metri dalle pareti finestrate dell’immobile frontistante); ciò che non era stato espressamente gravato, né contestato da parte appellante e legittimava l’emissione dell’ordine di demolizione.
Le controinteressate appellate hanno depositato memoria, chiedendo la reiezione dell’appello perché infondato.
Con ordinanza cautelare n. 03392/2009 la Sezione ha accolto la domanda di sospensione della esecutività della gravata sentenza, sulla scorta della considerazione per cui “nelle more della definizione nella competente sede di merito delle questioni di diritto proposte dalle parti, degli opposti pregiudizi dedotti può ritenersi prevalente quello lamentato dall’appellante”.
Alla pubblica udienza dell’8 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1.L’appello è infondato e merita la reiezione.
2.Agli atti del fascicolo processuale si rinvengono tre dati ostativi all’accoglimento del gravame, che non sono stati contestati da parte appellante, la quale tenta di “aggirarli”, sostanzialmente facendo riferimento ad elementi del tutto insussistenti od inconferenti.
2.1. Preme al Collegio rilevare immediatamente che s’invoca l’art. 2.12 delle n.t.a. del p.r.g. dove si consente l’edificazione “sul confine”, quando è pacifico che non ricorre neppure detto presupposto di fatto, in quanto l’immobile non è sul confine, ma a una distanza di cm 60 da una recinzione in mattoni (questa sì posta sul confine).
Ciò sarebbe sufficiente a respingere l’appello perché infondato in punto di fatto.
2.2.Ma v’è di più. Anche laddove, a tutto concedere, si potesse “superare” il predetto dato fattuale ostativo, parte appellante ipotizza una “lettura” della citata disposizione di cui all’art. 2.12 delle n.t.a. distonica dalla realtà giuridica.
Di fatto, infatti, l’appellante oblia che la facoltà di costruire sul confine non implica che ciò implichi la dequotazione della norma – del pari contenuta nelle n.t.a.al prg di cui al successivo art. 2.13 delle n.t.a.- laddove essa ha reiterato la disciplina pubblicistica ed inderogabile in materia di distanze tra edifici.
La facoltà di costruire sul confine (peraltro neppure ricorrente nel caso di specie, come si è dimostrato dianzi) non comporta certo che si possa omettere di rispettare la successiva disposizione delle n.t.a. laddove la distanza tra edifici, per effetto della costruzione sul confine, venga ad essere inferiore al minimo inderogabile stabilito ex lege.
Tale conseguenza pretesa da parte appellante non si evince dalla combinata lettura delle due prescrizioni; e, laddove ciò si riscontrasse effettivamente (ma così non è), il dato interpretativo non potrebbe che importare la disapplicazione della disposizione, siccome collidente con la disciplina nazionale inderogabile( ex multis: “in tema di distanze tra edifici la disposizione di cui all'art. 9, comma 1 n. 2, D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, essendo volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia d'imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, e quindi tassativa e inderogabile, non solo impone al proprietario dell'area confinante col muro finestrato altrui di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri da quello, senza alcuna deroga neppure per il caso in cui la nuova costruzione sia destinata a essere mantenuta a una quota inferiore a quella dalle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di queste conforme alle previsioni dell'art. 907, comma 3, c.c., ma vincola anche i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata ove oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, atteso che l'art. 9, D.M. 2 aprile 1968 n. 1444, per la sua natura di norma primaria, sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione.”-T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, 28-09-2012, n. 1624- ).
2.2.1. Anche la lettura “combinata” delle due disposizioni comunali suggerita da parte appellante deve essere pertanto disattesa.
2.3. In ultimo, rammenta il Collegio che, per condivisa giurisprudenza di questo Consiglio di Stato,
“in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, quali indubbiamente si configurano quelle di cui al caso di specie che, comunque progettate in relazione alla situazione dei luoghi ed alla soluzione esteticamente ritenuta più confacente dal committente, hanno una struttura che deve essere idonea per consistenza e modalità costruttive ad assolvere alla funzione di contenimento ed una funzione, che non è quella di delimitare, proteggere ed eventualmente abbellire la proprietà, ma essenzialmente di sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso. Opere tali da dovere essere riguardate, sotto il profilo edilizio, come opere dotate di una propria specificità ed autonomia, in una accezione che comprende tutte le caratteristiche proprie dei fabbricati, donde l'obbligo di rispetto di tutti gli indici costruttivi prescritti dallo strumento urbanistico e, in particolare, delle distanze dal confine privato.”(Consiglio Stato , sez. IV, 30 giugno 2005 , n. 3539)
In modo pressoché simmetrico, la giurisprudenza civile di legittimità ha ancora di recente condivisibilmente affermato che “ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica, la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.”(Cassazione civile , sez. II, 17 giugno 2011 , n. 13389).
La giurisprudenza civile di merito, altrettanto condivisibilmente, ad avviso del Collegio, ha poi fatto presente che ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Ne consegue la permanente vigenza dell’insegnamento della Corte di legittimità secondo il quale
“costituisce costruzione, agli effetti della disciplina del c.c. sulle distanze legali, ogni manufatto che, per struttura e destinazione, ha carattere di stabilità e permanenza . (Nella specie il manufatto, con finestra, era coperto da tettoia formata da travi con soprastanti lamiere, ed era destinato a fienile, magazzino e pollaio)” (Cassazione civile , sez. II, 24 maggio 1997 , n. 4639).
Per completezza si evidenzia che analoga nozione estensiva del concetto di “fabbricato” è stata dettata dalla Corte di Cassazione ai fini dell'art. 907 c.c., diretto a preservare l'esercizio delle vedute da ogni eventuale ostacolo con carattere di stabilità, “in quanto la nozione di costruzione è comprensiva non solo dei manufatti in calce e mattoni, ma di qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata realizzata, determini un ostacolo del genere. (nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che costituisse costruzione nel senso anzidetto una veranda che ostacolava la veduta dal balcone e dalla finestra sovrastanti, anche se ottenuta mediante la posa in opera, su correntini infissi nel muro, di lastre di fibrocemento facilmente asportabili, in quanto bullonate a tali correntini. La C.S., nell'enunciare il precisato principio di diritto, ha confermato tale decisione).” (Cassazione civile , sez. II, 21 ottobre 1980 , n. 5652).
2.3.1 Già alla stregua della sistematica esposizione che precede, appare evidente che appare destituito di fondamento il primo caposaldo dell’impianto dell’appello volto a contestare la sussumibilità nella nozione di “costruzione” rilevante in punto di omesso rispetto delle distanze legali dell’immobile per cui è causa.
2.4. E’ appena il caso di rammentare, conclusivamente, che in ordine alla illegittimità di una costruzione inferiore alla distanza minima di m 10,00 prescritta dall’art. 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444, in ordine alla cogenza ed inderogabilità di tale disposizione ed in ordine alla doverosità dell’esercizio dell’autotutela laddove la stessa venga violata, la giurisprudenza è assolutamente concorde. Si è detto in proposito, infatti, che “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 (distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l'applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l'interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell'edificato, da non confondersi con l'interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva” (Cons. Stato Sez. IV, 09-10-2012, n. 5253).
Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d'ufficio ai sensi dell'art. 323 c.p..(Cass. pen. Sez. III, 12-01-2012, n. 10431 -rv. 252247-).
In sostanza, lo si ribadisce, può convenirsi con il principio per cui “la prescrizione di cui all'art. 9 d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, relativa alla distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti. è volta non alla tutela del diritto alla riservatezza, bensì alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, ed è, dunque, tassativa ed inderogabile”.(Cons. Stato Sez. IV, 27-10-2011, n. 5759).
La decisione di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato in ultimo richiamata, ha affermato poi, in punto di conseguenza applicativa del principio, il condivisibile principio per cui “ in tema di distanze tra costruzioni, applicabile anche alle sopraelevazioni, l'adozione da parte dei Comuni di strumenti urbanistici contenenti disposizioni illegittime perché contrastanti con la norma di superiore livello dell'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n.1444 - che fissa in dieci metri la distanza minima assoluta tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti - comporta l'obbligo per il giudice di applicare, in sostituzione delle disposizioni illegittime, quelle dello stesso strumento urbanistico, nella formulazione derivata, però, dalla inserzione in esso della regola sulla distanza fissata nel decreto ministeriale”(Cons. Stato Sez. IV, 27-10-2011, n. 5759).
Ne discende che anche sotto tale profilo la “lettura” dell’art. 2.12. delle NTA patrocinata dall’appellante non potrebbe condurre alle conseguenze pretese da quest’ultima.
2.5. L’appellante non può contestare che il box sia stato eretto a meno di dieci metri dalle pareti finestrate dell’immobile fronti stante: ciò implica la illegittimità del manufatto, esclude la sussistenza di qualsivoglia vizio di disparità di trattamento con riguardo ad ipotetiche condotte analoghe da altri perpetrate (che, semmai, dovrebbero essere parimenti represse) ed induce ad un giudizio di inconsistenza dell’appello.
Inconsistenza che emerge anche allorché parte appellante, nell’intento di lasciare trasparire una propria supposta “buona fede” quanto all’operato dell’amministrazione comunale, insiste nell’affermare (in particolare pagg. 6 ed 8 del ricorso in appello) che i propri progetti presentati chiarivano che tra il muro di cinta e la parte dell’autorimessa vi era un distacco di cm 60, finendo con il sostenere una tesi (quella della conformità del manufatto al progetto presentato, anche se l’appellante non si sofferma invece sul contestato differente “posizionamento” dello stesso) che comunque non potrebbe giovarle, determinando l’emergere della difformità del titolo abilitativo formatosi anche rispetto alle disposizioni delle NTA invocate dalla stessa
4.Conclusivamente il provvedimento è immune da vizi di merito, l’autotutela costituiva provvedimento sostanzialmente vincolato a fronte di una violazione incidente sul profilo del rispetto delle distanze tra edifici; neppure era ipotizzabile la sussistenza di un fondato petitum risarcitorio nei confronti del Comune, avendo l’appellante dato causa alla omessa immediata inibizione della d.i.a e non potendo la stessa vantare alcun qualificato affidamento: l’appello deve essere complessivamente disatteso.
5. Le spese processuali, tuttavia, possono essere compensate tra le parti, ricorrendo le ragioni di legge riposanti nella particolarità della controversia.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, numero di registro generale 4876 del 2009 come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese processuali compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere, Estensore
Raffaele Potenza, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 22/01/2013
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)